
VELTRONI VA A HOLLYWOOD
Un film che getta una luce sinistra sul romanzo da cui è tratto
di Pavlov Dogg 22 ottobre 2016
Un film che getta una luce sinistra sul romanzo da cui è tratto
di Pavlov Dogg 22 ottobre 2016
C’era una volta l’America pesce-pilota, l’America che indica la strada al mondo, l’America dove le cose succedono almeno 5 anni prima che in Italia. È una storia che ha “funzionato” a lungo: e tutta l’interpretazione postmoderna della cultura dello Stivale si regge in larga misura su questo schema.
Poi, però… poi però il Secolo Americano è finito. E poi, però, un bel giorno, un giornalista del Manifesto (credo Matteo Bartocci, ma non sono sicuro) definì in un editoriale – così, con nonchalance – Al Gore come il “Walter Veltroni d’America”, invertendo il senso di marcia dei pesci-pilota. E adesso, però, abbiamo appena visto Donald Trump condurre una campagna elettorale che pare frutto di un prolungato, approfondito studio della carriera politica di Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Il cinema non è ovviamente estraneo a questo andazzo: e se il grande Sciascia sosteneva che la ‘Palma va a Nord’, io, più modestamente, avendo appena visto American Pastoral, diretto e interpretato da Ewan McGregor, posso con tranquillità affermare che Veltroni ha preso casa ad Hollywood.
Forse, tuttavia, sono ingiusto. Perché, se è effettivamente tipico di una cultura “veltroniana” prendere la Tragedia Personale e raccontarla come Eterna Adolescenza; prendere la Storia e farne una puntata de I Migliori Anni che Carlo Conti disconoscerebbe; prendere i Conflitti Sociali e farne talk-show; e anche se la sceneggiatura di John Romano (già responsabile di Prima ti sposo e poi ti rovino, film palloso dei Coen) fa esattamente tutto questo della vicenda dello Svedese [un probo cittadino la cui figlia Merry diventa terrorista: non racconto altro a chi non avesse letto il libro] , è anche vero che più di una volta, nel corso della proiezione, di fronte alle certezze di cui trasuda il film, ci si riduce al punto di desiderare qualcuno dei “Ma Anche” di cui il Baracca de Noantri detiene il copyright. Certo, c’è il “comune destino” (cit.) dell’imprenditore (lo Svedese) e della dipendente (la fida Vicky), però non prendiamoci in giro: l’episodio della fabbrica – durante i moti di Newark del 1967 – sta lì rigorosamente a proibire qualsiasi manifestazione di radicalismo politico a chi non sia nero e non lavori con le mani: le forme di impegno civile concesse a tutti gli altri consistono nel mormorare dissenso nei confronti del presidente Johnson davanti alla TV (ma senza parolacce, per carità) e nel “far bene il proprio lavoro” o tristezze equivalenti.
Sto dicendo che il film ha “tradito” il romanzo da cui è tratto? Sto dicendo che il film “non è all’altezza” del libro di Roth? Nossignore. La questione è più grave. American Pastoral è uno di quei film che gettano una sinistra luce retrospettiva sul celebrato capolavoro che mettono in scena. Che ne sciolgono ogni ambiguità nel peggior modo possibile, ma ciò facendo ci costringono ad ammettere che l’ambiguità c’era, stava lì in bella mostra nel romanzo. Ogni cosa che in Pastorale Americana di Philip Roth poteva avere un’interpretazione intelligente ed una cretina, qui è interpretata alla seconda maniera, ma secondo una dinamica tale da farti angosciosamente sospettare che la seconda sia proprio la maniera “giusta”. Intendiamoci bene: Pastorale Americana è un capolavoro; ma è un capolavoro soprattutto per la geniale manipolazione dei punti di vista e dei livelli del racconto: il punto di vista dello Svedese non coincide con quello della moglie Dawn, né con quello del fratello Jerry, il quale racconta tutta la storia a Zuckerman, che la ri-racconta a noi e che – notoriamente, per chi ha letto qualcosa dello stesso autore – contemporaneamente è e non è Philip Roth. Un moltiplicarsi di “postazioni” dalle quali osservare la storia e la Storia, che reca al lettore un salutare - almeno così credevo quando ho letto il libro, quasi venti anni fa - senso di confusione, affratellandolo allo spiazzatissimo Svedese. Anni dopo lessi una cattiva, ingenerosa – almeno così pensavo all’epoca – recensione di Dale Peck (l’Hulk Hogan della critica USA), al quale non fregava assolutamente nulla di tutta questa faccenda di livelli e punti di vista, e identificava senz’altro uno dei pensieri meno felici che vengono in testa allo Svedese nel corso romanzo (quello per cui tutti i fermenti degli anni Sessanta “altro non erano che rabbioso, infantile egoismo, appena camuffato da identificazioni con gli oppressi”) addirittura con il punto di vista dello stesso Roth. Be’, il film fa vedere esattamente quanto sopra: e a Roth il film è piaciuto, parola di McGregor. Le complessità del libro rimangono – sappiamo che bisogna credere al romanzo e non al romanziere ! – ma l’equilibrio interpretativo ne esce inevitabilmente modificato. Ancora: Dale Peck accusava senza giri Pastorale Americana di misoginia. Questa era, in verità, un’accusa credibile già nel 1997, ma il prestigiatore Roth è sempre bravissimo a “camuffare” [ora ci vuole] la misoginia da altro: e nel far ciò dice altre cose vere e interessanti, sebbene non vere soltanto o soprattutto delle donne. Anche in questo caso, tuttavia, la narrazione piatta del film esclude ogni gioco d’artificio e relativo fumo: Merry è gelosa, Dawn egoista, Rita Cohen fuori di cervello, l’amica di famiglia psicoterapeuta combina macelli; si salva solo la fida Vicky, in virtù di un collaborazionismo di genere oltre che di classe e di razza. Gli uomini invece, a partire dallo Svedese e dal vecchio pater familias Lou, ma anche Jerry e Zuckerman [ottima qui la scelta di David Strathairn, tragicamente sottoutilizzato] sono tutti modelli di equilibrio e generosità esistenziale. E per finire: nel libro era sì centrale il triangolo freudiano finito “a schifìo” padre-madre-figlia, ma lì c’era ancora lo spazio narrativo per immaginarlo ancillare rispetto alle grandi forze motrici storiche (il Vietnam, i conflitti razziali e di classe, la nascita dei “giovani” come soggetto politico, la crisi della famiglia…); nel film la centralità del triangolo è assoluta, e viene davvero il sospetto che il famoso bacio dato/non dato la facesse tutto sommato da padrone anche per Roth.
Ma come… (già vi sento) …il film non ti ha commosso? Boh…se la lacrimuccia semi-automatica di fronte alle disgrazie del povero Svedese [come attore McGregor mi ha convinto, costruendosi un suo personaggio di ebreo americano un po’ alla George Segal, meno vispo ma più intenso] significa commozione, allora sì. Ma un minuto dopo la grottesca, pasticciona carrambata finale [e qui lo scarto con la magistrale conclusione del romanzo, il sorprendente “movimento di camera” sul vecchio Levov, è davvero enorme] ha tolto ogni rimasuglio di credibilità a tutta la faccenda; e mi ha fatto tornare in mente Dale Peck. Se vi interessa, potete leggere il suo pezzo nella raccolta Hatchet Jobs (2004).
Poi, però… poi però il Secolo Americano è finito. E poi, però, un bel giorno, un giornalista del Manifesto (credo Matteo Bartocci, ma non sono sicuro) definì in un editoriale – così, con nonchalance – Al Gore come il “Walter Veltroni d’America”, invertendo il senso di marcia dei pesci-pilota. E adesso, però, abbiamo appena visto Donald Trump condurre una campagna elettorale che pare frutto di un prolungato, approfondito studio della carriera politica di Silvio Berlusconi e Umberto Bossi. Il cinema non è ovviamente estraneo a questo andazzo: e se il grande Sciascia sosteneva che la ‘Palma va a Nord’, io, più modestamente, avendo appena visto American Pastoral, diretto e interpretato da Ewan McGregor, posso con tranquillità affermare che Veltroni ha preso casa ad Hollywood.
Forse, tuttavia, sono ingiusto. Perché, se è effettivamente tipico di una cultura “veltroniana” prendere la Tragedia Personale e raccontarla come Eterna Adolescenza; prendere la Storia e farne una puntata de I Migliori Anni che Carlo Conti disconoscerebbe; prendere i Conflitti Sociali e farne talk-show; e anche se la sceneggiatura di John Romano (già responsabile di Prima ti sposo e poi ti rovino, film palloso dei Coen) fa esattamente tutto questo della vicenda dello Svedese [un probo cittadino la cui figlia Merry diventa terrorista: non racconto altro a chi non avesse letto il libro] , è anche vero che più di una volta, nel corso della proiezione, di fronte alle certezze di cui trasuda il film, ci si riduce al punto di desiderare qualcuno dei “Ma Anche” di cui il Baracca de Noantri detiene il copyright. Certo, c’è il “comune destino” (cit.) dell’imprenditore (lo Svedese) e della dipendente (la fida Vicky), però non prendiamoci in giro: l’episodio della fabbrica – durante i moti di Newark del 1967 – sta lì rigorosamente a proibire qualsiasi manifestazione di radicalismo politico a chi non sia nero e non lavori con le mani: le forme di impegno civile concesse a tutti gli altri consistono nel mormorare dissenso nei confronti del presidente Johnson davanti alla TV (ma senza parolacce, per carità) e nel “far bene il proprio lavoro” o tristezze equivalenti.
Sto dicendo che il film ha “tradito” il romanzo da cui è tratto? Sto dicendo che il film “non è all’altezza” del libro di Roth? Nossignore. La questione è più grave. American Pastoral è uno di quei film che gettano una sinistra luce retrospettiva sul celebrato capolavoro che mettono in scena. Che ne sciolgono ogni ambiguità nel peggior modo possibile, ma ciò facendo ci costringono ad ammettere che l’ambiguità c’era, stava lì in bella mostra nel romanzo. Ogni cosa che in Pastorale Americana di Philip Roth poteva avere un’interpretazione intelligente ed una cretina, qui è interpretata alla seconda maniera, ma secondo una dinamica tale da farti angosciosamente sospettare che la seconda sia proprio la maniera “giusta”. Intendiamoci bene: Pastorale Americana è un capolavoro; ma è un capolavoro soprattutto per la geniale manipolazione dei punti di vista e dei livelli del racconto: il punto di vista dello Svedese non coincide con quello della moglie Dawn, né con quello del fratello Jerry, il quale racconta tutta la storia a Zuckerman, che la ri-racconta a noi e che – notoriamente, per chi ha letto qualcosa dello stesso autore – contemporaneamente è e non è Philip Roth. Un moltiplicarsi di “postazioni” dalle quali osservare la storia e la Storia, che reca al lettore un salutare - almeno così credevo quando ho letto il libro, quasi venti anni fa - senso di confusione, affratellandolo allo spiazzatissimo Svedese. Anni dopo lessi una cattiva, ingenerosa – almeno così pensavo all’epoca – recensione di Dale Peck (l’Hulk Hogan della critica USA), al quale non fregava assolutamente nulla di tutta questa faccenda di livelli e punti di vista, e identificava senz’altro uno dei pensieri meno felici che vengono in testa allo Svedese nel corso romanzo (quello per cui tutti i fermenti degli anni Sessanta “altro non erano che rabbioso, infantile egoismo, appena camuffato da identificazioni con gli oppressi”) addirittura con il punto di vista dello stesso Roth. Be’, il film fa vedere esattamente quanto sopra: e a Roth il film è piaciuto, parola di McGregor. Le complessità del libro rimangono – sappiamo che bisogna credere al romanzo e non al romanziere ! – ma l’equilibrio interpretativo ne esce inevitabilmente modificato. Ancora: Dale Peck accusava senza giri Pastorale Americana di misoginia. Questa era, in verità, un’accusa credibile già nel 1997, ma il prestigiatore Roth è sempre bravissimo a “camuffare” [ora ci vuole] la misoginia da altro: e nel far ciò dice altre cose vere e interessanti, sebbene non vere soltanto o soprattutto delle donne. Anche in questo caso, tuttavia, la narrazione piatta del film esclude ogni gioco d’artificio e relativo fumo: Merry è gelosa, Dawn egoista, Rita Cohen fuori di cervello, l’amica di famiglia psicoterapeuta combina macelli; si salva solo la fida Vicky, in virtù di un collaborazionismo di genere oltre che di classe e di razza. Gli uomini invece, a partire dallo Svedese e dal vecchio pater familias Lou, ma anche Jerry e Zuckerman [ottima qui la scelta di David Strathairn, tragicamente sottoutilizzato] sono tutti modelli di equilibrio e generosità esistenziale. E per finire: nel libro era sì centrale il triangolo freudiano finito “a schifìo” padre-madre-figlia, ma lì c’era ancora lo spazio narrativo per immaginarlo ancillare rispetto alle grandi forze motrici storiche (il Vietnam, i conflitti razziali e di classe, la nascita dei “giovani” come soggetto politico, la crisi della famiglia…); nel film la centralità del triangolo è assoluta, e viene davvero il sospetto che il famoso bacio dato/non dato la facesse tutto sommato da padrone anche per Roth.
Ma come… (già vi sento) …il film non ti ha commosso? Boh…se la lacrimuccia semi-automatica di fronte alle disgrazie del povero Svedese [come attore McGregor mi ha convinto, costruendosi un suo personaggio di ebreo americano un po’ alla George Segal, meno vispo ma più intenso] significa commozione, allora sì. Ma un minuto dopo la grottesca, pasticciona carrambata finale [e qui lo scarto con la magistrale conclusione del romanzo, il sorprendente “movimento di camera” sul vecchio Levov, è davvero enorme] ha tolto ogni rimasuglio di credibilità a tutta la faccenda; e mi ha fatto tornare in mente Dale Peck. Se vi interessa, potete leggere il suo pezzo nella raccolta Hatchet Jobs (2004).
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