
IL FRONTE CULTURALE
UOMINI E LUPI
di Pavlov Dogg 9 giugno 2017
The way you walked was thorny, through no fault of your own
Curt Siodmak
UOMINI E LUPI
di Pavlov Dogg 9 giugno 2017
The way you walked was thorny, through no fault of your own
Curt Siodmak
Con una certa rozzezza (e tocca alle storie più belle farci capire quanto siano rozze le nostre classificazioni) ho sempre suddiviso il genere horror, o del soprannaturale, in due categorie fondamentali: 1) Storie [e sono poche] in cui il Mostro – o, se mostro non è, il Personaggio Principale – è importantissimo, perché presenta caratteristiche innovative, tali da rimodellare il genere. Esempio classico: nel ciclo cinematografico dedicato a Frankenstein dalla Hammer, al centro della scena non è c’è più la Creatura, bensì il Barone, cioè lo scienziato, l’“aristocratico giacobino” interpretato da Peter Cushing, con tutto quel che ne consegue; e 2) Storie [e sono molte] in cui il Mostro in realtà funge da catalizzatore delle reazioni altrui (e, per quanto direttamente lo riguarda, diventa una specie di floating signifier in cerca di significato). Quello che qui interessa è il posizionamento degli altri personaggi e/o dei vari centri di potere ideologico, economico, politico rispetto al Mostro: chi lo sottovaluta, chi vuol farne un capro espiatorio, chi vuol venirci a patti, chi vuole “comprenderlo” eccetera. I tanti film sul Conte Dracula (con qualche eccezione) sono l’esempio tipico di questa seconda categoria.
Cacciatori di notte di Filippo Tuena mette seriamente in crisi la suddivisione cui ero affezionato, perché 1) da un lato riplasma in maniera assai notevole un topos pure frequentatissimo dalla letteratura (anche italiana, da Pirandello a Landolfi) e dal cinema, inventandosi una “scuola” di cacciatori-guaritori lontana da ogni manicheismo (uno dei maestri cacciatori si chiama “Diavolo della Messa”!), e opportunamente allargando la gamma di rituali e strumenti a loro disposizione, a seconda che abbiano a che fare con licantropi credenti o non credenti (si spazia dalla tradizionalissima acqua benedetta al “morso del calcagno”, dalla costruzione di muretti a un suggestivo apostrofare la preda, che non anticipo per non togliere sorpresa alla lettura); 2) dall’altro lato è indubbio che l’incontro dapprima con la leggenda, poi con la realtà dei lupi mannari segni per uno dei due narratori una forte svolta spirituale e dunque pratica: nel segno di San Francesco, diciamo pure, dacché è inevitabile leggendo la parte conclusiva del romanzo pensare alla vicenda del Lupo di Gubbio. Ed entrambi i narratori (uno racconta una vicenda che si svolge negli anni Sessanta, l’altro ci parla dagli anni Novanta della prima edizione di Cacciatori di notte) traggono ispirazione dalla figura di Don Fortebraccio, il decano dei cacciatori di lupi mannari (più guaritore che ammazzavampiri, come si diceva), che va orgoglioso di non aver quasi mai dovuto fare del male alle sue prede, che adesso sono vive e non ricordano più nulla, o sono morte “da persone per bene, da quieti contadini”.
Le edizioni Corrimano vanno pertanto calorosamente congratulate per aver riportato in libreria questa gemma di uno scrittore premiatissimo (due premi Bagutta, un Grinzane Cavour, un Viareggio) che ha fatto letteratura con la materia prima dell’horror nell’unico modo in cui ciò è davvero possibile: non ‘minimizzando’ il genere sovraimponendogli raffinate psicologie, o profondi filosofeggiamenti per poter fare il ‘gallo sulla monnezza’; ma al contrario prendendo il genere assolutamente sul serio, tanto da portarlo alle sue estreme conseguenze evidenziandone le aporie, ponendogli le domande che le sue convenzioni più inerti non vorrebbero sentirsi porre. Nella fattispecie, qui viene fuori con forza inedita la compassione nei confronti dei “lupi mannari” della vita vera – se non veri alla lettera – e l’attenzione alle cause della loro condizione. Nelle sorprendenti 20 pagine dell’ultima parte è particolarmente emozionante la figura del “giovane di bottega” cinquantenne. Compiendo una serie di addizioni e sottrazioni narrative – e lo si fa con la massima naturalezza, grazie alla magia narrativa di Tuena – si può giungere alla conclusione che si tratti di un parente del secondo narratore, nato illegittimo e piagato dalla povertà e dell’esclusione. Il notaio suo datore di lavoro gli attribuisce invece “malformazione dell’anima” per il fatto che è gobbo; e ora lo sgrida, poi lo ignora, gli dà del “coglione”, del “coglionissimo”, del “povero cretinetti”. Negli occhi del poveretto appare per un attimo “una ferocia lupesca”. Noi sappiamo tuttavia che – nelle immortali parole pronunziate da Maria Ouspenskaya, la zingara del film del 1941 L’Uomo Lupo – il suo cammino è “irto di spine”, ma “non per colpa” sua. E che “anche un uomo puro, che prega con fervore/lupo divien, se la fiorisce la luparia e la luna d’autunno è al suo splendore”[1].
La riedizione era peraltro in una certa misura scritta nel destino del libro. A un certo punto ci imbattiamo infatti in un pittore che annunzia quanto segue: “ho sviluppato quest’arte nuovissima; ritrarre quel che saremo. Vedete, mi basta avere una vostra foto di qualche anno addietro, diciamo dieci o dodici, per realizzare poi un dipinto o una scultura – se preferite – di come sarete fra trent’anni” (p.117, corsivi miei). Dato che quest’“arte nuovissima” si giova di un complicato sistema di specchi, è quasi inevitabile vedere nella storia “centrale” (anni ’60) il “come eravamo” dell’Italia provinciale (e non solo); e in quella degli anni ’90 l’approntamento dello specchio che adesso Filippo Tuena e Corrimano mettono davanti all’Italia del 2017. L’ultimo capitolo lo scriveremo pertanto noi, i lettori della nuova edizione: ha iniziato Francesco Romeo con una splendida prefazione, proseguo qui io, altri verranno. E se c’è qualche produttore cinematografico intenzionato a fare un film tanto bello quanto di successo, mi sa proprio che gli conviene leggere questo romanzo.
1. Non è un caso, del resto, che l’epoca d’oro dei licantropi al cinema (a partire da Il segreto del Tibet del 1935) coincida con quella del New Deal e dell’intervento statale in economia, in un periodo in cui proprio non era possibile colpevolizzare milioni e milioni di “imprenditori di sé stessi” rimasti disoccupati.
Cacciatori di notte di Filippo Tuena mette seriamente in crisi la suddivisione cui ero affezionato, perché 1) da un lato riplasma in maniera assai notevole un topos pure frequentatissimo dalla letteratura (anche italiana, da Pirandello a Landolfi) e dal cinema, inventandosi una “scuola” di cacciatori-guaritori lontana da ogni manicheismo (uno dei maestri cacciatori si chiama “Diavolo della Messa”!), e opportunamente allargando la gamma di rituali e strumenti a loro disposizione, a seconda che abbiano a che fare con licantropi credenti o non credenti (si spazia dalla tradizionalissima acqua benedetta al “morso del calcagno”, dalla costruzione di muretti a un suggestivo apostrofare la preda, che non anticipo per non togliere sorpresa alla lettura); 2) dall’altro lato è indubbio che l’incontro dapprima con la leggenda, poi con la realtà dei lupi mannari segni per uno dei due narratori una forte svolta spirituale e dunque pratica: nel segno di San Francesco, diciamo pure, dacché è inevitabile leggendo la parte conclusiva del romanzo pensare alla vicenda del Lupo di Gubbio. Ed entrambi i narratori (uno racconta una vicenda che si svolge negli anni Sessanta, l’altro ci parla dagli anni Novanta della prima edizione di Cacciatori di notte) traggono ispirazione dalla figura di Don Fortebraccio, il decano dei cacciatori di lupi mannari (più guaritore che ammazzavampiri, come si diceva), che va orgoglioso di non aver quasi mai dovuto fare del male alle sue prede, che adesso sono vive e non ricordano più nulla, o sono morte “da persone per bene, da quieti contadini”.
Le edizioni Corrimano vanno pertanto calorosamente congratulate per aver riportato in libreria questa gemma di uno scrittore premiatissimo (due premi Bagutta, un Grinzane Cavour, un Viareggio) che ha fatto letteratura con la materia prima dell’horror nell’unico modo in cui ciò è davvero possibile: non ‘minimizzando’ il genere sovraimponendogli raffinate psicologie, o profondi filosofeggiamenti per poter fare il ‘gallo sulla monnezza’; ma al contrario prendendo il genere assolutamente sul serio, tanto da portarlo alle sue estreme conseguenze evidenziandone le aporie, ponendogli le domande che le sue convenzioni più inerti non vorrebbero sentirsi porre. Nella fattispecie, qui viene fuori con forza inedita la compassione nei confronti dei “lupi mannari” della vita vera – se non veri alla lettera – e l’attenzione alle cause della loro condizione. Nelle sorprendenti 20 pagine dell’ultima parte è particolarmente emozionante la figura del “giovane di bottega” cinquantenne. Compiendo una serie di addizioni e sottrazioni narrative – e lo si fa con la massima naturalezza, grazie alla magia narrativa di Tuena – si può giungere alla conclusione che si tratti di un parente del secondo narratore, nato illegittimo e piagato dalla povertà e dell’esclusione. Il notaio suo datore di lavoro gli attribuisce invece “malformazione dell’anima” per il fatto che è gobbo; e ora lo sgrida, poi lo ignora, gli dà del “coglione”, del “coglionissimo”, del “povero cretinetti”. Negli occhi del poveretto appare per un attimo “una ferocia lupesca”. Noi sappiamo tuttavia che – nelle immortali parole pronunziate da Maria Ouspenskaya, la zingara del film del 1941 L’Uomo Lupo – il suo cammino è “irto di spine”, ma “non per colpa” sua. E che “anche un uomo puro, che prega con fervore/lupo divien, se la fiorisce la luparia e la luna d’autunno è al suo splendore”[1].
La riedizione era peraltro in una certa misura scritta nel destino del libro. A un certo punto ci imbattiamo infatti in un pittore che annunzia quanto segue: “ho sviluppato quest’arte nuovissima; ritrarre quel che saremo. Vedete, mi basta avere una vostra foto di qualche anno addietro, diciamo dieci o dodici, per realizzare poi un dipinto o una scultura – se preferite – di come sarete fra trent’anni” (p.117, corsivi miei). Dato che quest’“arte nuovissima” si giova di un complicato sistema di specchi, è quasi inevitabile vedere nella storia “centrale” (anni ’60) il “come eravamo” dell’Italia provinciale (e non solo); e in quella degli anni ’90 l’approntamento dello specchio che adesso Filippo Tuena e Corrimano mettono davanti all’Italia del 2017. L’ultimo capitolo lo scriveremo pertanto noi, i lettori della nuova edizione: ha iniziato Francesco Romeo con una splendida prefazione, proseguo qui io, altri verranno. E se c’è qualche produttore cinematografico intenzionato a fare un film tanto bello quanto di successo, mi sa proprio che gli conviene leggere questo romanzo.
1. Non è un caso, del resto, che l’epoca d’oro dei licantropi al cinema (a partire da Il segreto del Tibet del 1935) coincida con quella del New Deal e dell’intervento statale in economia, in un periodo in cui proprio non era possibile colpevolizzare milioni e milioni di “imprenditori di sé stessi” rimasti disoccupati.
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