
SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA
UNA VITA MERAVIGLIOSA
Frank Capra e le ambiguità del New Deal
di Marcello Benfante 5 maggio 2017
UNA VITA MERAVIGLIOSA
Frank Capra e le ambiguità del New Deal
di Marcello Benfante 5 maggio 2017
Se una cosa è subito evidente, nel corso della lettura della sua autobiografia Il nome sopra il titolo – da poco riproposta da Minimum Fax, nella traduzione di A.Rollo – è che Frank Capra era anche uno straordinario scrittore. Uno di quei narratori incapaci di annoiare il lettore, perfino quando indugiano su cose minime e strettamente personali.
Tutti concordano su questa sua capacità di coinvolgimento della “gente”. Per Leonardo Sciascia, Il nome sopra il titolo, è “un libro che sembra, appunto, un film di Capra”. È assai difficile, infatti, staccarsi dalla sua narrazione sempre così vivida e dettagliata, così saliente e precisa, al punto che quasi vediamo le immagini e le scene del suo racconto.
Capra sapeva bene come farsi seguire, come catturare l’attenzione del pubblico.
Parla di sé, ovviamente, in questo libro di memorie. Del suo Io che a volte può sembrarci ipertrofico. Ma anche e forse soprattutto della composita società americana, e del mondo, crudele e insieme meraviglioso, del cinema. A volte, anzi, specie di fronte a certe disgrazie private, Capra stende un velo di autentica pietà e passa oltre, con pudore. Il dolore profondo, quello che ci strazia intimamente, è sempre inesprimibile.
Si concentra invece sul suo lavoro. E sulla dignità del lavoro. Sul valore collettivo di ogni film, che nasce sempre da un’unione di forze individuali, anche se in ultima analisi è l’opera di un solo artista.
L’individualismo incoercibile di Capra, infatti, è sempre plurale. Non possiamo essere liberi e indipendenti che assieme agli altri. Con gli altri e, anche, grazie agli altri.
Tutto il suo bildungsroman non è che una titanica lotta di autoaffermazione. In primo luogo, lotta per uscire dalla miseria. Ribellione contro la sua tirannide.
L’incipit è proprio l’affermazione di questo desiderio di fuga dall’indigenza: “Odiavo essere povero, essere un contadino e vivere alla giornata facendo lo strillone, intrappolato com’ero nello sporco ghetto siciliano di Los Angeles”.
Ma il romanzo – che tale è – di Capra comincia prima. Comincia in Sicilia, a Bisacquino, con una misteriosa lettera giunta dalla lontanissima America. È il destino che irrompe nella storia, o viceversa. La lettera reca una firma sconosciuta: Morris Orsatti.
Ma tutto il suo contenuto rimane sconosciuto per la famiglia Capra. Nessuno infatti sa leggere. Bisognerà quindi che il prete la legga per loro e ne spieghi l’enigma.
La lettera venuta dall’altro mondo, dal nuovo mondo oltre il mare e l’oceano, in realtà è di Ben, il fratello maggiore di Frank, che cinque anni prima, nel giorno del suo sedicesimo compleanno, si era imbarcato clandestinamente a Palermo a bordo di un mercantile greco diretto a Boston.
Ben racconta ai suoi familiari un lustro di terribili avventure: si è ammalato, è stato rapito, ridotto in schiavitù, è fuggito, è finalmente approdato a San Francisco dove ha trovato lavoro nella costruzione della linea ferrata. Una serie di peripezie romanzesche degne di un Defoe o di un Richardson!
Ora che si è sistemato chiama la famiglia a condividere il sogno americano.
È così che nel 1903 Salvatore Capra s’imbarca sul transatlantico “Germania” insieme alla moglie e quattro figli: Josephine di quattordici anni, Tony di dodici, Frank di sei (compiuti a bordo il 18 maggio) e Ann di appena tre. Rimangono invece a Bisacquino le figlie più grandi, già sposate, Luigia e Ignazia.
Il piccolo nucleo di emigranti siciliani già comincia a subire una prima metamorfosi onomastica, almeno nella ricostruzione memoriale di Frank. Il quale all’inizio è il meno entusiasta di un così travagliato sradicamento, ma sarà subito il più lesto a cogliere le opportunità che gli offre l’America.
L’episodio della lettera di Ben, indecifrabile per un’intera famiglia di analfabeti, gli ha fatto capire l’importanza dell’istruzione. Non c’è schiavitù maggiore dell’ignoranza.
Tutti tranne Frank cercano e trovano subito lavoro. Frank è diverso: “La mia famiglia mi considerava strano”. La sua stranezza consiste propriamente in una naturale predisposizione allo studio. Ovvero in una tenace volontà di apprendimento e di elevazione unita a una spiccata capacità di assimilare ogni contenuto che incontra nel suo percorso formativo.
“La determinazione della mia famiglia nell’accumulare soldi era uguagliata solo dalla mia ostinata determinazione a conseguire un titolo di studio”.
Frequenta quindi con impegno la scuola, benché la famiglia lo derida (“non potevano sapere quel che sapevo io: che certo ero nato contadino, ma che sicuramente non sarei morto tale”). Gli esiti brillanti confermano di anno in anno questa sicurezza interiore di appartenere a un destino di riscatto e successo. Nel tempo libero vende giornali. Poi si occupa delle pulizie nella sua scuola e suona pure la chitarra in un bistrò. Nonostante i molti impegni extrascolastici, è sempre uno studente modello che non si limita a seguire con eccellente profitto i propri corsi ma si interessa di tutto in modo famelico e onnivoro.
“Libri, libri, libri – li leggevo tutti, da quelli di scienza a quelli di storia e di poesia”.
È come se considerasse la sua istruzione alla stregua di un tirocinio abbastanza vasto da comprendere i più diversi sviluppi.
In ciò è favorito dalla sua prontezza d’apprendimento e dalla sua elasticità mentale.
“Mi riusciva così facile lo studio che finii la scuola superiore in tre anni e mezzo invece di quattro”.
Se anticipa i tempi, l’instancabile Frank, è solo per poter lavorare di più, mettere da parte un po’ di soldi e continuare quindi gli studi all’università.
I suoi sacrifici, peraltro sempre affrontati con vitale entusiasmo, gli consentono di laurearsi ingegnere chimico nel giugno del 1918.
A questo punto il figlio di un contadino siciliano analfabeta potrebbe dirsi realizzato fin oltre le più rosee aspettative. E invece il giovane Frank non ha ancora placato il suo rovello, la sua ricerca interiore.
La famiglia, che gli ha concesso il privilegio prezioso di una formazione specializzata, si aspetta da lui che diventi un presidente di banca.
“Essendo stati educati a adorare il denaro, era naturale per loro pensare che il premio di una lunga istruzione fosse dirigere il luogo dove il denaro era custodito”.
Ma Frank aspira ad altro, anche se non sa ancora cosa sia. Ed è disposto, pur di scoprire e seguire questa sua strada verso l’affermazione di sé stesso, ad affrontare la riprovazione e perfino il dileggio dell’intera comunità. Soprattutto “delle donne siciliane del quartiere”, per le quali la sua condizione inoperosa e sterile, specie dopo tanto inutile studio, era incomprensibile e inaccettabile.
“Un uomo adulto che non si sposava e che non lavorava era per loro uno scandalo e insieme una minaccia. Queste strane idee avrebbero potuto influenzare i loro uomini”.
Frank Capra comincia presto a fare i conti con la sua eresia, la sua follia, che egli definisce la sua “diserzione”, cioè il suo essere diverso, inassimilabile. Non ha ancora trovato una via di fuga, ma la cerca con inesauribili energie. Trova un primo lavoro come insegnante privato di un ragazzo ricco e svogliato grazie alle sue capacità musicali come chitarrista. Poi la mafia cerca di arruolarlo come chimico, senza riuscire a piegare la sua rettitudine. Nonostante il titolo di studio, è ancora disoccupato. Il suo mestiere consiste nell’imparare e tesaurizzare le conoscenze acquisite per uno scopo ancora indefinito. Quando casualmente (o fatalmente) incontra il mondo del cinema, mette a frutto nel campo delle emulsioni fotografiche le nozioni scientifiche apprese in intensi anni di studio (“… è strano come una cosa imparata a scuola, qualunque tipo di cosa imparata, possa poi tornare utile nei momenti più disparati”).
Se la tecnologia lo sorregge, prestissimo comincia a formare il gusto e i primi abbozzi di un’estetica a cui rimarrà sempre fedele.
Prima del suo fortuito e avventuroso esordio come regista, si documenta recandosi al cinema per familiarizzare con un linguaggio che ignora pressoché totalmente. Resta sconvolto da “donne truccate come bambole… uomini che sembrano omosessuali… finte parrucche, finte barbe”. Certo, nella sua reazione (“Cristo, io non lo farei mai”) c’è un fondo di moralismo provinciale. Ma c’è pure l’avvertimento, ancorché confuso, di un’esigenza di autenticità e di realismo che in seguito saprà diventare uno stile inconfondibile.
Partito dalle mansioni più elementari nel ribollente calderone di Hollywood, approda allo status di creativo dimostrando capacità nella pratica del montaggio. È ancora la tecnica a favorirlo nei primi passi della sua carriera, ma già si delinea un certo suo sguardo strabico, per un verso rivolto al lato pratico e oggettivo del lavoro cinematografico, per un altro ai suoi risvolti fiabeschi: “Mi sono avvicinato al cinema con la meraviglia di un bambino, ma anche con la razionalità di una mente scientifica”.
È quello che forse potremmo definire il realismo magico di Capra. Cioè il risultato di un doppio linguaggio che incrocia modernità e archetipi grazie all’apporto di una mentalità pragmatica basata su una straordinaria capacità di osservazione.
Un esempio: finita la lavorazione de La follia della metropoli, Capra analizza le reazioni del pubblico nelle anteprime, partendo dalla convinzione empirica che il comportamento di gruppo differisce sensibilmente da quello individuale. Si accorge allora che il film, proiettato in sala, presenta un difetto di ritmo, cioè un rallentamento che determina un calo di interesse e di coinvolgimento. Decide pertanto di accelerare la narrazione con una serie di interventi che sono al tempo stesso tecnici e stilistici: taglia le entrate e le uscite degli attori, di modo da farli “saltare direttamente nel cuore delle scene”; elimina le dissolvenze e sovrappone le battute, come accade naturalmente nei colloqui reali, in modo da rendere più concitato e vivo il sonoro; accelera di un terzo il passo delle scene. Muovendo da un dato psicologico sulla percezione collettiva dell’andamento del film, Capra ha introdotto una nuova sintassi. Si tratta, né più né meno, di sperimentalismo. Non quello d’avanguardia, ovviamente, bensì un metodo basato sul “provaci e sbaglia” adottato fin dagli esordi.
Nella scala di valori di Capra, la tecnica resta comunque subordinata alla comunicazione e all’atmosfera. A patto che le “necessarie” atmosfere “si impongano sottilmente, suggestivamente”. Nessuno sfoggio, quindi, di forzature allegoriche o di esibizionismi intellettualistici: “Le ostentate prodezze con la macchina da presa sono il segno di riconoscimento dei principianti, che s’innamorano delle angolazioni bizzarre e delle riprese mosse con la macchina a mano”. Sarebbe meglio invece che il regista amasse di più i suoi attori e rinunciasse alle vanità del tecnicismo.
Il talento di Capra è il frutto di una propensione ad assimilare e a cimentarsi nei problemi. E soprattutto di un’attenzione al modo in cui la “gente”, pur rimanendo composta da individui, si rapporta collettivamente nei confronti dei meccanismi del comico e del tragico. È da questa attenzione che scaturisce l’applicazione in forma di gag della paradossale teoria della “intransigenza degli oggetti” appresa all’università in un corso di letteratura. “C’è una cospirazione fra gli oggetti inanimati per frustrare gli sforzi degli uomini, specialmente di quelli antipatici”, affermava un certo professor Judy.
Capra costruisce su questo teorema uno sketch basato su una porta che si apre o resta chiusa secondo modalità e circostanze inspiegabili. Che l’arbitrio insondabile delle cose muova al riso è un dato di fatto che si può osservare e registrare. Il perché resta invece misterioso. Proprio com’è misteriosa la creazione poetica.
Capra è affascinato dal mondo emblematico del Krazy Kat di George Herriman: opera geniale e ineffabile, sospesa in modo enigmatico sull’assurdo del suo schema iterativo. Anche questa lezione, che promana dall’universo popolare dei comics, gli resta impressa: “Per quanto riguarda i valori estetici, ho sempre pensato che il mondo non può crollare fintanto che esistono uomini liberi in grado di vedere un arcobaleno, sentire la pioggia e ascoltare la risata di un bambino”.
È proprio quel tratto caratteristico dell’opera di Capra che una certa critica ha talora esecrato e dileggiato, definendolo “sentimentalismo”. Di certo, non si trattava di una edulcorazione artefatta. L’autobiografia di Capra dimostra che tale sentimentalismo era davvero un suo modo di pensare e di essere, nonché una piega imprevedibile che prende certe volte la realtà stessa.
Era stata proprio la gavetta a costruire il cosiddetto (e sedicente) ottimismo di Capra, cioè un’estetica “a effetto” che i detrattori denominavano “Pollyanna” (così come, all’inverso, un certo realismo sordido e pessimista veniva chiamato “Ashcan”, cioè cassonetto).
A un certo punto della sua carriera, Capra rischia effettivamente di indulgere troppo in un sentimentalismo stucchevole. È questa l’accusa che gli muove un intellettuale suo amico, Myles Connolly, per il quale Capra cerca soprattutto di creare prodotti che incontrano il favore del pubblico. Le sue parole sono taglienti.
“Tu non sei un artista. Sei un truffatore. Gli artisti muoiono e rinascono continuamente. Tu passi attraverso i tuoi filmetti senza neanche farti un graffio”.
Capra farà tesoro di questa umiliante provocazione, anche se in un primo tempo sembra prevalere il pessimismo della sua origine contadina. “Connolly feriva perché aveva ragione”, ammette. Ma ha paura di impegnarsi nel suo lavoro, di aderire totalmente ad esso. È la voce di un “buon senso” interiore, atavico, che continua a metterlo in guardia, a ricordagli che il successo potrebbe essere un’illusione passeggera, destinata a dissolversi come un sogno, giacché “gli artisti non sono costruiti dal caso o dall’ingegneria chimica”. Quindi, è forse più opportuno tenere “in mano il gioco” e portare “a casa i soldi, finché dura”.
Come sempre Capra si rivela un uomo spaccato a metà, il cui vitale ottimismo, ossia la fiducia innata nel proprio successo, la convinzione che, qualunque cosa potesse accadere, “tutto sarebbe finito per il meglio”, si accompagna sempre alla paura di fallire. Ogni successo, ogni trionfo, perfino l’agognato Oscar, da un lato gli conferma un oroscopo benevolo, ma dall’altro gli appare come un monito sulla precarietà dell’esistenza. E teme di essere giunto al vertice solo per precipitare più rovinosamente.
“Avevo sconfitto la povertà e il ridicolo, ma mi restava un nemico più grande da sconfiggere: me stesso. Esteriormente accettavo gli onori con eleganza. Ma nell’intimo tremavo: ero ossessionato dal terrore che il mio prossimo film sarebbe stato un fallimento. In breve, morivo di fifa”.
In quest’uomo coriaceo e instancabile c’è dunque una fragilità essenziale, una cupezza di fondo che traspare in molti suoi film, frettolosamente catalogati come ottimisti e spensierati. Così come nella coscienza scrupolosa di quest’uomo coraggioso, che ha sempre saputo rischiare in ogni campo, affiora spesso l’ombra di una codardia assecondata con scelte di comodo.
A dargli del vigliacco, in un periodo piuttosto fosco in cui Capra versa in uno stato di malattia che si direbbe psicosomatico, è un omino calvo e insignificante che inforca occhiali dalle lenti spesse, una specie di fantasmatica personificazione della coscienza.
Le sue parole sono autentiche sferzate. La vigliaccheria di Capra consisterebbe a suo parere nell’ignorare per interessi e fisime personali la voce di Hitler, che in quel momento sta farneticando alla radio; di ostinarsi a non sentire la minaccia all’umanità che quella voce esprime: “Quell’uomo malvagio sta disperatamente cercando di avvelenare il mondo con l’odio”.
Come quella di Connolly, anche questa lezione morale, benché non impartita da un intellettuale, avrà formidabili conseguenze. Ne sortisce infatti un Capra insolitamente umile che immediatamente guarisce dalla sua “eccezionale” malattia immaginaria e si getta nel lavoro con un nuovo impegno civile.
Uno tra i migliori risultati di questa presa di coscienza morale e civile è Mr Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità, 1936), con il suo semplice messaggio cristiano-socialista, l’utopia agricola della moltiplicazione dei campi e delle mucche.
Niente più che una favola filantropica, ma basata sul concetto scandaloso della redistribuzione del reddito in una società di forti sperequazioni.
Per la prima volta il nome di Capra sovrasta il titolo. Anche questo è un messaggio semplice, ma forte. È la filosofia che Capra definisce “un uomo, un film” (che è cosa del tutto diversa dalla presunzione di poter costruire un’opera cinematografica da solo). Capra segue il proprio istinto, nella consapevolezza che talento e istinto sono tutt’uno, le due facce di una medesima dote naturale. L’istinto lo guida verso l’uomo, per un cinema dalla parte dell’uomo.
“Quando quello sconosciuto insignificante omino mi aveva salvato dal fiume Stige, quelle poche parole tranquille che aveva mormorato erano state un sacro invito a impegnare il mio talento, poco o tanto che fosse, al servizio dell’uomo. Capii allora che fino all’ultimo dei miei giorni, e all’esaurimento del mio ingegno, mi sarei sentito impegnato. Non esserci sempre riuscito è una prova del fatto che la carne è debole”.
Prova di questo impegno umanistico è uno dei film più contestati di Capra: Mr Smith Goes to Washington, del 1939. Ancora un uomo qualunque, un candido campagnolo, che però ha la forza di scoperchiare il formicaio di interessi e corruzione del Senato, ingaggiando un’ impari lotta con i titani della politica. La stampa si divide tra detrattori inferociti, che accusano Capra di aver gettato fango sui valori della democrazia americana, e sostenitori entusiasti, che lo acclamano come uno dei più limpidi paladini proprio di quei valori. Il significato del film è fin troppo didascalico per essere frainteso: James Stewart/Jefferson Smith è un boy-scout disposto perfino a morire pur di fermare con un’eroica maratona ostruzionistica la criminale speculazione del senatore Paine (Claude Rains).
Nessun dubbio, quindi, sugli intenti di Capra, che da parte sua affronta le polemiche strumentali che investono il suo film con la più ferma convinzione: “Non è mai inopportuno sciogliere le campane della libertà”.
Le cose si complicano con il capolavoro (mancato?) Meet John Doe (Arriva John Doe, 1941), un film drammatico e irrisolto, il cui punto debole (o di forza?) è l’impossibilità di una catarsi finale. C’è il cinismo smascherato dei media, c’è la solitudine dell’individuo nella società massificata, c’è il vicolo cieco delle esistenze esasperate, c’è l’aut-aut tra suicidio e crocifissione. Un film nero e terribile, dunque, un groviglio doloroso che Capra e la sua “squadra” non sanno come sciogliere.
“Per convincere i critici importanti che non tutti i film di Capra erano scritti da Pollyanna, e che potevo affrontare la cruda realtà con tanto di calci nello stomaco, Riskin e io avevamo scritto fino a trovarci con le spalle al muro (…) Fino a un certo punto la storia si era scritta da sé. Da lì in poi non andava avanti”.
Il cul de sac in cui viene a trovarsi Gary Cooper/Long John Willoughby, ex giocatore di baseball senza futuro, è uno stallo irrisolvibile per il quale Capra e Riskin immaginano cinque finali!
Ma il senso del film consiste proprio nell’impossibilità di qualunque finale. Secondo Capra questo limite non ha consentito che Arriva John Doe diventasse “un classico del cinema”. Probabilmente, invece, è avvenuto il contrario. Arriva John Doe è un classico proprio perché racchiude il mistero della vita, l’indecifrabile e inevitabile sconfitta di ogni essere umano.
Capra nel frattempo è impegnato anche in un’aspra contesa contro “l’autocrazia economica di Hollywood” e fonda la Liberty Film.
Dopo la parentesi della guerra che lo ha visto impegnato in una serie di documentari destinati alle truppe americane, Capra sta per giungere all’apice della sua creatività, il suo capolavoro finto-ottimista It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946), cioè la perfetta sintesi del suo pensiero e del suo stile (“quello che io considero il mio film migliore”).
Stranamente l’autobiografia di Capra si sofferma poco, almeno rispetto ad altri film, sulla lavorazione de La vita è meravigliosa.
Eppure si tratta di un film estremamente autobiografico, seppure alla rovescia, in cui il regista inserì diversi episodi della sua vita con una forte identificazione con il protagonista.
Capra racconta che l’ispirazione fu casuale (un biglietto di auguri natalizi), che inizialmente il soggetto destò il suo entusiasmo (“Era la storia che avevo cercato per tutta la vita!”) ma successivamente gli parve troppo fragile e melenso. Nell’esporla a James Stewart, la storia sembra quasi dissolversi (“Maledizione, Jimmy! Non ce l’ho una storia! Questa è stucchevole, una delle cose più orrende che abbia mai sentito”).
I dubbi e le problematiche oscillazioni di Capra (“Ma che razza di lavoro è questo per cui un giorno sei convinto di avere tra le mani una storia solida come I miserabili e il giorno dopo la butteresti via?”) testimoniano chiaramente l’ambiguità essenziale di questa strana fiaba consolatoria e al tempo stesso disperata.
È, a ben vedere, l’ambiguità stessa di Capra: un democratico sui generis affascinato dalla personalità di Roosevelt, che però si lamenta a più riprese delle vessazioni fiscali che lo privano di gran parte dei suoi guadagni.
Tutti concordano su questa sua capacità di coinvolgimento della “gente”. Per Leonardo Sciascia, Il nome sopra il titolo, è “un libro che sembra, appunto, un film di Capra”. È assai difficile, infatti, staccarsi dalla sua narrazione sempre così vivida e dettagliata, così saliente e precisa, al punto che quasi vediamo le immagini e le scene del suo racconto.
Capra sapeva bene come farsi seguire, come catturare l’attenzione del pubblico.
Parla di sé, ovviamente, in questo libro di memorie. Del suo Io che a volte può sembrarci ipertrofico. Ma anche e forse soprattutto della composita società americana, e del mondo, crudele e insieme meraviglioso, del cinema. A volte, anzi, specie di fronte a certe disgrazie private, Capra stende un velo di autentica pietà e passa oltre, con pudore. Il dolore profondo, quello che ci strazia intimamente, è sempre inesprimibile.
Si concentra invece sul suo lavoro. E sulla dignità del lavoro. Sul valore collettivo di ogni film, che nasce sempre da un’unione di forze individuali, anche se in ultima analisi è l’opera di un solo artista.
L’individualismo incoercibile di Capra, infatti, è sempre plurale. Non possiamo essere liberi e indipendenti che assieme agli altri. Con gli altri e, anche, grazie agli altri.
Tutto il suo bildungsroman non è che una titanica lotta di autoaffermazione. In primo luogo, lotta per uscire dalla miseria. Ribellione contro la sua tirannide.
L’incipit è proprio l’affermazione di questo desiderio di fuga dall’indigenza: “Odiavo essere povero, essere un contadino e vivere alla giornata facendo lo strillone, intrappolato com’ero nello sporco ghetto siciliano di Los Angeles”.
Ma il romanzo – che tale è – di Capra comincia prima. Comincia in Sicilia, a Bisacquino, con una misteriosa lettera giunta dalla lontanissima America. È il destino che irrompe nella storia, o viceversa. La lettera reca una firma sconosciuta: Morris Orsatti.
Ma tutto il suo contenuto rimane sconosciuto per la famiglia Capra. Nessuno infatti sa leggere. Bisognerà quindi che il prete la legga per loro e ne spieghi l’enigma.
La lettera venuta dall’altro mondo, dal nuovo mondo oltre il mare e l’oceano, in realtà è di Ben, il fratello maggiore di Frank, che cinque anni prima, nel giorno del suo sedicesimo compleanno, si era imbarcato clandestinamente a Palermo a bordo di un mercantile greco diretto a Boston.
Ben racconta ai suoi familiari un lustro di terribili avventure: si è ammalato, è stato rapito, ridotto in schiavitù, è fuggito, è finalmente approdato a San Francisco dove ha trovato lavoro nella costruzione della linea ferrata. Una serie di peripezie romanzesche degne di un Defoe o di un Richardson!
Ora che si è sistemato chiama la famiglia a condividere il sogno americano.
È così che nel 1903 Salvatore Capra s’imbarca sul transatlantico “Germania” insieme alla moglie e quattro figli: Josephine di quattordici anni, Tony di dodici, Frank di sei (compiuti a bordo il 18 maggio) e Ann di appena tre. Rimangono invece a Bisacquino le figlie più grandi, già sposate, Luigia e Ignazia.
Il piccolo nucleo di emigranti siciliani già comincia a subire una prima metamorfosi onomastica, almeno nella ricostruzione memoriale di Frank. Il quale all’inizio è il meno entusiasta di un così travagliato sradicamento, ma sarà subito il più lesto a cogliere le opportunità che gli offre l’America.
L’episodio della lettera di Ben, indecifrabile per un’intera famiglia di analfabeti, gli ha fatto capire l’importanza dell’istruzione. Non c’è schiavitù maggiore dell’ignoranza.
Tutti tranne Frank cercano e trovano subito lavoro. Frank è diverso: “La mia famiglia mi considerava strano”. La sua stranezza consiste propriamente in una naturale predisposizione allo studio. Ovvero in una tenace volontà di apprendimento e di elevazione unita a una spiccata capacità di assimilare ogni contenuto che incontra nel suo percorso formativo.
“La determinazione della mia famiglia nell’accumulare soldi era uguagliata solo dalla mia ostinata determinazione a conseguire un titolo di studio”.
Frequenta quindi con impegno la scuola, benché la famiglia lo derida (“non potevano sapere quel che sapevo io: che certo ero nato contadino, ma che sicuramente non sarei morto tale”). Gli esiti brillanti confermano di anno in anno questa sicurezza interiore di appartenere a un destino di riscatto e successo. Nel tempo libero vende giornali. Poi si occupa delle pulizie nella sua scuola e suona pure la chitarra in un bistrò. Nonostante i molti impegni extrascolastici, è sempre uno studente modello che non si limita a seguire con eccellente profitto i propri corsi ma si interessa di tutto in modo famelico e onnivoro.
“Libri, libri, libri – li leggevo tutti, da quelli di scienza a quelli di storia e di poesia”.
È come se considerasse la sua istruzione alla stregua di un tirocinio abbastanza vasto da comprendere i più diversi sviluppi.
In ciò è favorito dalla sua prontezza d’apprendimento e dalla sua elasticità mentale.
“Mi riusciva così facile lo studio che finii la scuola superiore in tre anni e mezzo invece di quattro”.
Se anticipa i tempi, l’instancabile Frank, è solo per poter lavorare di più, mettere da parte un po’ di soldi e continuare quindi gli studi all’università.
I suoi sacrifici, peraltro sempre affrontati con vitale entusiasmo, gli consentono di laurearsi ingegnere chimico nel giugno del 1918.
A questo punto il figlio di un contadino siciliano analfabeta potrebbe dirsi realizzato fin oltre le più rosee aspettative. E invece il giovane Frank non ha ancora placato il suo rovello, la sua ricerca interiore.
La famiglia, che gli ha concesso il privilegio prezioso di una formazione specializzata, si aspetta da lui che diventi un presidente di banca.
“Essendo stati educati a adorare il denaro, era naturale per loro pensare che il premio di una lunga istruzione fosse dirigere il luogo dove il denaro era custodito”.
Ma Frank aspira ad altro, anche se non sa ancora cosa sia. Ed è disposto, pur di scoprire e seguire questa sua strada verso l’affermazione di sé stesso, ad affrontare la riprovazione e perfino il dileggio dell’intera comunità. Soprattutto “delle donne siciliane del quartiere”, per le quali la sua condizione inoperosa e sterile, specie dopo tanto inutile studio, era incomprensibile e inaccettabile.
“Un uomo adulto che non si sposava e che non lavorava era per loro uno scandalo e insieme una minaccia. Queste strane idee avrebbero potuto influenzare i loro uomini”.
Frank Capra comincia presto a fare i conti con la sua eresia, la sua follia, che egli definisce la sua “diserzione”, cioè il suo essere diverso, inassimilabile. Non ha ancora trovato una via di fuga, ma la cerca con inesauribili energie. Trova un primo lavoro come insegnante privato di un ragazzo ricco e svogliato grazie alle sue capacità musicali come chitarrista. Poi la mafia cerca di arruolarlo come chimico, senza riuscire a piegare la sua rettitudine. Nonostante il titolo di studio, è ancora disoccupato. Il suo mestiere consiste nell’imparare e tesaurizzare le conoscenze acquisite per uno scopo ancora indefinito. Quando casualmente (o fatalmente) incontra il mondo del cinema, mette a frutto nel campo delle emulsioni fotografiche le nozioni scientifiche apprese in intensi anni di studio (“… è strano come una cosa imparata a scuola, qualunque tipo di cosa imparata, possa poi tornare utile nei momenti più disparati”).
Se la tecnologia lo sorregge, prestissimo comincia a formare il gusto e i primi abbozzi di un’estetica a cui rimarrà sempre fedele.
Prima del suo fortuito e avventuroso esordio come regista, si documenta recandosi al cinema per familiarizzare con un linguaggio che ignora pressoché totalmente. Resta sconvolto da “donne truccate come bambole… uomini che sembrano omosessuali… finte parrucche, finte barbe”. Certo, nella sua reazione (“Cristo, io non lo farei mai”) c’è un fondo di moralismo provinciale. Ma c’è pure l’avvertimento, ancorché confuso, di un’esigenza di autenticità e di realismo che in seguito saprà diventare uno stile inconfondibile.
Partito dalle mansioni più elementari nel ribollente calderone di Hollywood, approda allo status di creativo dimostrando capacità nella pratica del montaggio. È ancora la tecnica a favorirlo nei primi passi della sua carriera, ma già si delinea un certo suo sguardo strabico, per un verso rivolto al lato pratico e oggettivo del lavoro cinematografico, per un altro ai suoi risvolti fiabeschi: “Mi sono avvicinato al cinema con la meraviglia di un bambino, ma anche con la razionalità di una mente scientifica”.
È quello che forse potremmo definire il realismo magico di Capra. Cioè il risultato di un doppio linguaggio che incrocia modernità e archetipi grazie all’apporto di una mentalità pragmatica basata su una straordinaria capacità di osservazione.
Un esempio: finita la lavorazione de La follia della metropoli, Capra analizza le reazioni del pubblico nelle anteprime, partendo dalla convinzione empirica che il comportamento di gruppo differisce sensibilmente da quello individuale. Si accorge allora che il film, proiettato in sala, presenta un difetto di ritmo, cioè un rallentamento che determina un calo di interesse e di coinvolgimento. Decide pertanto di accelerare la narrazione con una serie di interventi che sono al tempo stesso tecnici e stilistici: taglia le entrate e le uscite degli attori, di modo da farli “saltare direttamente nel cuore delle scene”; elimina le dissolvenze e sovrappone le battute, come accade naturalmente nei colloqui reali, in modo da rendere più concitato e vivo il sonoro; accelera di un terzo il passo delle scene. Muovendo da un dato psicologico sulla percezione collettiva dell’andamento del film, Capra ha introdotto una nuova sintassi. Si tratta, né più né meno, di sperimentalismo. Non quello d’avanguardia, ovviamente, bensì un metodo basato sul “provaci e sbaglia” adottato fin dagli esordi.
Nella scala di valori di Capra, la tecnica resta comunque subordinata alla comunicazione e all’atmosfera. A patto che le “necessarie” atmosfere “si impongano sottilmente, suggestivamente”. Nessuno sfoggio, quindi, di forzature allegoriche o di esibizionismi intellettualistici: “Le ostentate prodezze con la macchina da presa sono il segno di riconoscimento dei principianti, che s’innamorano delle angolazioni bizzarre e delle riprese mosse con la macchina a mano”. Sarebbe meglio invece che il regista amasse di più i suoi attori e rinunciasse alle vanità del tecnicismo.
Il talento di Capra è il frutto di una propensione ad assimilare e a cimentarsi nei problemi. E soprattutto di un’attenzione al modo in cui la “gente”, pur rimanendo composta da individui, si rapporta collettivamente nei confronti dei meccanismi del comico e del tragico. È da questa attenzione che scaturisce l’applicazione in forma di gag della paradossale teoria della “intransigenza degli oggetti” appresa all’università in un corso di letteratura. “C’è una cospirazione fra gli oggetti inanimati per frustrare gli sforzi degli uomini, specialmente di quelli antipatici”, affermava un certo professor Judy.
Capra costruisce su questo teorema uno sketch basato su una porta che si apre o resta chiusa secondo modalità e circostanze inspiegabili. Che l’arbitrio insondabile delle cose muova al riso è un dato di fatto che si può osservare e registrare. Il perché resta invece misterioso. Proprio com’è misteriosa la creazione poetica.
Capra è affascinato dal mondo emblematico del Krazy Kat di George Herriman: opera geniale e ineffabile, sospesa in modo enigmatico sull’assurdo del suo schema iterativo. Anche questa lezione, che promana dall’universo popolare dei comics, gli resta impressa: “Per quanto riguarda i valori estetici, ho sempre pensato che il mondo non può crollare fintanto che esistono uomini liberi in grado di vedere un arcobaleno, sentire la pioggia e ascoltare la risata di un bambino”.
È proprio quel tratto caratteristico dell’opera di Capra che una certa critica ha talora esecrato e dileggiato, definendolo “sentimentalismo”. Di certo, non si trattava di una edulcorazione artefatta. L’autobiografia di Capra dimostra che tale sentimentalismo era davvero un suo modo di pensare e di essere, nonché una piega imprevedibile che prende certe volte la realtà stessa.
Era stata proprio la gavetta a costruire il cosiddetto (e sedicente) ottimismo di Capra, cioè un’estetica “a effetto” che i detrattori denominavano “Pollyanna” (così come, all’inverso, un certo realismo sordido e pessimista veniva chiamato “Ashcan”, cioè cassonetto).
A un certo punto della sua carriera, Capra rischia effettivamente di indulgere troppo in un sentimentalismo stucchevole. È questa l’accusa che gli muove un intellettuale suo amico, Myles Connolly, per il quale Capra cerca soprattutto di creare prodotti che incontrano il favore del pubblico. Le sue parole sono taglienti.
“Tu non sei un artista. Sei un truffatore. Gli artisti muoiono e rinascono continuamente. Tu passi attraverso i tuoi filmetti senza neanche farti un graffio”.
Capra farà tesoro di questa umiliante provocazione, anche se in un primo tempo sembra prevalere il pessimismo della sua origine contadina. “Connolly feriva perché aveva ragione”, ammette. Ma ha paura di impegnarsi nel suo lavoro, di aderire totalmente ad esso. È la voce di un “buon senso” interiore, atavico, che continua a metterlo in guardia, a ricordagli che il successo potrebbe essere un’illusione passeggera, destinata a dissolversi come un sogno, giacché “gli artisti non sono costruiti dal caso o dall’ingegneria chimica”. Quindi, è forse più opportuno tenere “in mano il gioco” e portare “a casa i soldi, finché dura”.
Come sempre Capra si rivela un uomo spaccato a metà, il cui vitale ottimismo, ossia la fiducia innata nel proprio successo, la convinzione che, qualunque cosa potesse accadere, “tutto sarebbe finito per il meglio”, si accompagna sempre alla paura di fallire. Ogni successo, ogni trionfo, perfino l’agognato Oscar, da un lato gli conferma un oroscopo benevolo, ma dall’altro gli appare come un monito sulla precarietà dell’esistenza. E teme di essere giunto al vertice solo per precipitare più rovinosamente.
“Avevo sconfitto la povertà e il ridicolo, ma mi restava un nemico più grande da sconfiggere: me stesso. Esteriormente accettavo gli onori con eleganza. Ma nell’intimo tremavo: ero ossessionato dal terrore che il mio prossimo film sarebbe stato un fallimento. In breve, morivo di fifa”.
In quest’uomo coriaceo e instancabile c’è dunque una fragilità essenziale, una cupezza di fondo che traspare in molti suoi film, frettolosamente catalogati come ottimisti e spensierati. Così come nella coscienza scrupolosa di quest’uomo coraggioso, che ha sempre saputo rischiare in ogni campo, affiora spesso l’ombra di una codardia assecondata con scelte di comodo.
A dargli del vigliacco, in un periodo piuttosto fosco in cui Capra versa in uno stato di malattia che si direbbe psicosomatico, è un omino calvo e insignificante che inforca occhiali dalle lenti spesse, una specie di fantasmatica personificazione della coscienza.
Le sue parole sono autentiche sferzate. La vigliaccheria di Capra consisterebbe a suo parere nell’ignorare per interessi e fisime personali la voce di Hitler, che in quel momento sta farneticando alla radio; di ostinarsi a non sentire la minaccia all’umanità che quella voce esprime: “Quell’uomo malvagio sta disperatamente cercando di avvelenare il mondo con l’odio”.
Come quella di Connolly, anche questa lezione morale, benché non impartita da un intellettuale, avrà formidabili conseguenze. Ne sortisce infatti un Capra insolitamente umile che immediatamente guarisce dalla sua “eccezionale” malattia immaginaria e si getta nel lavoro con un nuovo impegno civile.
Uno tra i migliori risultati di questa presa di coscienza morale e civile è Mr Deeds Goes to Town (È arrivata la felicità, 1936), con il suo semplice messaggio cristiano-socialista, l’utopia agricola della moltiplicazione dei campi e delle mucche.
Niente più che una favola filantropica, ma basata sul concetto scandaloso della redistribuzione del reddito in una società di forti sperequazioni.
Per la prima volta il nome di Capra sovrasta il titolo. Anche questo è un messaggio semplice, ma forte. È la filosofia che Capra definisce “un uomo, un film” (che è cosa del tutto diversa dalla presunzione di poter costruire un’opera cinematografica da solo). Capra segue il proprio istinto, nella consapevolezza che talento e istinto sono tutt’uno, le due facce di una medesima dote naturale. L’istinto lo guida verso l’uomo, per un cinema dalla parte dell’uomo.
“Quando quello sconosciuto insignificante omino mi aveva salvato dal fiume Stige, quelle poche parole tranquille che aveva mormorato erano state un sacro invito a impegnare il mio talento, poco o tanto che fosse, al servizio dell’uomo. Capii allora che fino all’ultimo dei miei giorni, e all’esaurimento del mio ingegno, mi sarei sentito impegnato. Non esserci sempre riuscito è una prova del fatto che la carne è debole”.
Prova di questo impegno umanistico è uno dei film più contestati di Capra: Mr Smith Goes to Washington, del 1939. Ancora un uomo qualunque, un candido campagnolo, che però ha la forza di scoperchiare il formicaio di interessi e corruzione del Senato, ingaggiando un’ impari lotta con i titani della politica. La stampa si divide tra detrattori inferociti, che accusano Capra di aver gettato fango sui valori della democrazia americana, e sostenitori entusiasti, che lo acclamano come uno dei più limpidi paladini proprio di quei valori. Il significato del film è fin troppo didascalico per essere frainteso: James Stewart/Jefferson Smith è un boy-scout disposto perfino a morire pur di fermare con un’eroica maratona ostruzionistica la criminale speculazione del senatore Paine (Claude Rains).
Nessun dubbio, quindi, sugli intenti di Capra, che da parte sua affronta le polemiche strumentali che investono il suo film con la più ferma convinzione: “Non è mai inopportuno sciogliere le campane della libertà”.
Le cose si complicano con il capolavoro (mancato?) Meet John Doe (Arriva John Doe, 1941), un film drammatico e irrisolto, il cui punto debole (o di forza?) è l’impossibilità di una catarsi finale. C’è il cinismo smascherato dei media, c’è la solitudine dell’individuo nella società massificata, c’è il vicolo cieco delle esistenze esasperate, c’è l’aut-aut tra suicidio e crocifissione. Un film nero e terribile, dunque, un groviglio doloroso che Capra e la sua “squadra” non sanno come sciogliere.
“Per convincere i critici importanti che non tutti i film di Capra erano scritti da Pollyanna, e che potevo affrontare la cruda realtà con tanto di calci nello stomaco, Riskin e io avevamo scritto fino a trovarci con le spalle al muro (…) Fino a un certo punto la storia si era scritta da sé. Da lì in poi non andava avanti”.
Il cul de sac in cui viene a trovarsi Gary Cooper/Long John Willoughby, ex giocatore di baseball senza futuro, è uno stallo irrisolvibile per il quale Capra e Riskin immaginano cinque finali!
Ma il senso del film consiste proprio nell’impossibilità di qualunque finale. Secondo Capra questo limite non ha consentito che Arriva John Doe diventasse “un classico del cinema”. Probabilmente, invece, è avvenuto il contrario. Arriva John Doe è un classico proprio perché racchiude il mistero della vita, l’indecifrabile e inevitabile sconfitta di ogni essere umano.
Capra nel frattempo è impegnato anche in un’aspra contesa contro “l’autocrazia economica di Hollywood” e fonda la Liberty Film.
Dopo la parentesi della guerra che lo ha visto impegnato in una serie di documentari destinati alle truppe americane, Capra sta per giungere all’apice della sua creatività, il suo capolavoro finto-ottimista It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946), cioè la perfetta sintesi del suo pensiero e del suo stile (“quello che io considero il mio film migliore”).
Stranamente l’autobiografia di Capra si sofferma poco, almeno rispetto ad altri film, sulla lavorazione de La vita è meravigliosa.
Eppure si tratta di un film estremamente autobiografico, seppure alla rovescia, in cui il regista inserì diversi episodi della sua vita con una forte identificazione con il protagonista.
Capra racconta che l’ispirazione fu casuale (un biglietto di auguri natalizi), che inizialmente il soggetto destò il suo entusiasmo (“Era la storia che avevo cercato per tutta la vita!”) ma successivamente gli parve troppo fragile e melenso. Nell’esporla a James Stewart, la storia sembra quasi dissolversi (“Maledizione, Jimmy! Non ce l’ho una storia! Questa è stucchevole, una delle cose più orrende che abbia mai sentito”).
I dubbi e le problematiche oscillazioni di Capra (“Ma che razza di lavoro è questo per cui un giorno sei convinto di avere tra le mani una storia solida come I miserabili e il giorno dopo la butteresti via?”) testimoniano chiaramente l’ambiguità essenziale di questa strana fiaba consolatoria e al tempo stesso disperata.
È, a ben vedere, l’ambiguità stessa di Capra: un democratico sui generis affascinato dalla personalità di Roosevelt, che però si lamenta a più riprese delle vessazioni fiscali che lo privano di gran parte dei suoi guadagni.
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