
Il pretesto per scrivere questo articolo è stato un incontro di qualche mese fa a Palermo avente come argomento le donne e il lavoro, organizzato da donne e uomini per una platea mista. Alcuni temi riguardanti le problematiche delle donne nel mondo del lavoro e le relazioni tra i sessi sono stati messi sul piatto con il desiderio di discuterli insieme. Ma ciò è avvenuto solo parzialmente. Considero l’occasione in cui donne e uomini si incontrano per confrontarsi sul tema del lavoro un momento simbolicamente e materialmente necessario ad uno scambio di prospettive, intrecciando differenti modi per stare all’interno di relazioni di potere (economiche, sociali e culturali) che condizionano fortemente il mondo del lavoro e dunque le vite di donne e uomini. Uno stare che è un sapersi muovere resistendo e trasformando. Occasioni di scambio che considerano anche le differenti appartenenze sociali, razziali etc. ampliando e differenziando la visuale da cui osservare ed analizzare i problemi.
Tuttavia è anche frequente, e questa recente occasione non l’ha smentito, che contesti multipli generino riflessioni con pesi e misure differenti, sbilanciate a favore o a detrimento di parti dei discorsi. Soprattutto dove si affrontano questioni che pongono problemi e soluzioni riguardo a finanza, economia o politica. Sembra, infatti, che introdurre anche la differenza di genere per dare una lettura degli eventi, in alcuni casi, crei imbarazzo, soprattutto alle interlocutrici donne, in particolare se “specialiste della materia”.Come se il parlarne sminuisse il valore dell’argomentazione, la rendesse meno “scientifica”, andasse a detrimento dell’immagine professionale della conferenziera.
Voglio dire che molte sollecitazioni che andavano nella direzione di un approfondimento degli effetti sulle scelte e sulla condizione lavorativa delle donne, a causa di una visione parziale e poco attenta al lavoro riproduttivo, non sono state colte probabilmente perché non gli è stato riconosciuto il meritato valore. E il contesto non lo si riteneva adeguato, nonostante l’incontro fosse focalizzato sul genere. Ne deduco che il non assumere uno sguardo universale neutro in un contesto pubblico venga ancora percepito come una “colpa”, come se ci si allontanasse dalla verità e si assumesse un punto di vista troppo particolare (sguardi particolari suscitano il venir meno della scientificità del discorso!). Di contro, tutto ciò viene altresì percepito, a mio parere, da una prospettiva parziale di soggetti “situati”, come un tradimento fatto ai soggetti “incarnati”, a sguardi condizionati da una materialità del discorso che non può oggettivarsi ma collocarsi in una posizione corporea e vitale, dove i corpi si strutturano in un sistema in cui natura e cultura non sono più distinguibili ma in cui le parti non possono essere assorbite e sintetizzate in un oggettivo discorso teorico scientifico che ripropone il “vero”del “Dio” neutro universale.
Mi chiedo, il problema è di auto-riconoscimento e valorizzazione di ciò che si è e delle differenze che non sono visibili, che continuano a non poter esprimersi con altri linguaggi in alcuni contesti? Sicuramente la consapevolezza o la costituzione di alleanze con altre donne hanno incoraggiato il volere o sapere “abitare la propria casa”(la frase è di Francesca Artista, segretaria regionale Fisac-CGIL, pronunciata in un’intervista rilasciatami), il prendersi di coraggio ed anche da sole riuscire a condurre delle battaglie. Tutto ciò in luoghi in cui è tuttora difficile per una donna farsi ascoltare, prendere la parola e ignorare sorrisini o frasi ammiccanti che a volte mirano a ricondurla alla condizione di oggetto-corpo, emotività-irrazionalità, metafora di confusione, vuoto o assenza di parola. Stereotipi del femminile che lo considerano non adeguata ad affrontare discorsi teorici riguardo a questioni pubbliche o di stato.
Il trovare parole e modalità “altre” per essere visibili pubblicamente non è scontato e necessita percorsi di autoriconoscimento e autodeterminazione non sempre facili e non per tutte allo stesso modo. Infatti non è scontato che amiche/compagne ci concedano (per loro insicurezze o per paura di essere “oscurata” dal successo dell’altra) quello spazio che serve a riconoscerci o un’altra occasione per affrontare senza vergogna questi limiti che ci poniamo spesso noi donne nei contesti misti; pur considerando che non partiamo tutte con le stesse possibilità socialmente accreditate e gli strumenti adatti per raggiungere pari riconoscimenti delle nostre rispettive differenze.
Quello di cui ho appena trattato mi serve per parlare del modo di vivere delle donne i diversi contesti lavorativi? Sì, se rivolgo l’attenzione a leggi di mercato che ci impongono prestazioni in cui dobbiamo continuamente essere “tutto” e “al meglio”, o anche di più. Leggi e criteri di valutazione che ci costringono in ruoli naturalizzati (lavori di cura) e mai valorizzati oppure ci negano abilità e competenze acquisite ma non riconosciute, di fatto, al nostro sesso. Le ripercussioni sui differenti soggetti, a causa delle soluzioni prese per arginare gli effetti della crisi, mettono in luce i costi pagati ed i benefici realmente ottenuti nei tempi di produzione e nei tempi di riproduzione della nostra società. E’ importante mettere l’accento sulle modalità competitive e poco collaborative del sistema capitalistico/neoliberista che tende a posizionarci l’una-o contro l’altro-a, puntando soprattutto alla produttività e molto poco alla qualità della nostra vita. Qualità della vita che implica l’avere uno spazio/tempo per sé e un tempo da dedicare al lavoro adeguatamente retribuito, dove io donna o uomo possiamo disporre di servizi che non ci obbligano a sacrificare aspetti importanti che riguardano la cura di noi stessi e di coloro cui siamo legati affettivamente.
In un momento storico in cui i tagli alla spesa pubblica colpiscono soprattutto le possibilità di ricevere quell’assistenza che sempre più viene scaricata sul lavoro gratuito e non sempre volontario delle donne, è sempre più impellente un confronto su quali pratiche sono necessarie per facilitare (in modo paritario) l’accesso alle possibilità di formazione e l’entrata/permanenza nel mondo del lavoro. In Italia, in questi ultimi quaranta anni, sembra essere avvenuta una maggiore apertura alle istanze delle donne. Ci sono state delle conquiste importanti da parte dei movimenti femministi e differenti soggetti hanno raggiunto una maggiore visibilità (mi riferisco anche alle istanze dei soggetti Lgbtqi) e in Italia si parla ultimamente anche di leggi sulle Unioni Civili. Queste aperture e contraddizioni, il mettere in discussione i ruoli sociali tra i generi connessi anche alla conquista da parte delle donne di libertà e di accesso ad alcuni diritti, ha causato al genere maschile la perdita di punti di riferimento e in molti casi le difficolta ad affrontare il cambiamento (aumento dei casi di femminicidio e violenze omofobiche). Una delle cause che sta trasformando il nostro modo di pensare si può individuare in una reale, ma spesso rifiutata idealmente, frantumazione anche nell’immaginario collettivo del modello normativo dominante del maschio bianco, di classe media, abile, adulto, eterosessuale e produttivo.
Le reazioni sociali refrattarie a quest’ultima rottura con un immaginario classico sono state anche quelle di riaffermare un concetto di natura che ingabbia le persone, soprattutto le donne ma anche gli uomini, in ruoli e comportamenti prestabiliti, rassicuranti, attraverso i quali giustificare e far apparire effetto di naturali propensioni il ritorno delle donne entro le mura domestiche. Ai nuovi programmi educativi nelle scuole, come reazioni a questa involuzione dell’immagine della donna, sono seguite risposte pretestuose di accusa da parte di alcune figure istituzionali e da personaggi del mondo estremista cattolico di voler diffondere la cosiddetta 'Ideologia gender' tra gli adolescenti per indurli a comportamenti 'innaturali'(nei confronti di quella che viene chiamata ‘lobby gay’ e di alcuni gruppi del femminismo formatisi sui GenderStudies).
Allo stesso tempo, in questi ultimi anni, le aziende, in una loro logica della conciliazione, hanno esaltato i ruoli della donna multitasking: brava mamma, moglie e lavoratrice. Sono nati anche progetti che prospettano facili soluzioni per la conciliazione vita-lavoro. Nuove prospettive che sembrano andare incontro all'esigenza delle donne, ma in realtà le obbligano a svolgere più compiti, ad aumentare il carico di lavoro, dentro e fuori casa, oltre a far gravare sulle stesse aspettative e ansie per prestazioni che non possono essere deluse. Una lotta continua per affermare il proprio valore in ambito professionale, senza mettere veramente in discussione i ruoli “naturali” di genere, e senza scalfire una idea di femminilità rassicurante soprattutto per un modello sociale che mira ad esaltare un sistema produttivo, individualista e non collaborativo. Un sistema di produzione che rinforza dinamiche interne alla nostra società e che sistematicamente porta avanti in ogni rapporto sociale, culturale, economico ed interpersonale quegli atteggiamenti di prevaricazione e di sfruttamento dei più deboli che vengono condotti con metodicità dalle società rette da sistemi capitalisti.
Le stesse società e sistemi, tengo a sottolinearlo, che definiscono, tramite operazioni sociali e culturali quindi costituite anche secondo meccanismi giuridici, economici, etc., l'appartenenza sessuale delle persone, la delimitazione e la numerazione dei sessi, la definizione biologica e/o genetica del sesso. Motivo per cui un'interpretazione della crisi economica che consideri solo la dimensione di classe rischia di cancellare l'impatto sul sistema di riproduzione sociale della forza-lavoro, lasciando quindi invisibili i costi pagati dalle donne in termini di lavoro domestico/di cura. L’assumere anche una prospettiva riproduttiva del lavoro permette di individuare l’intervallo spazio-temporale che separa valorizzazione per il profitto altrui e pratiche e istituzioni di auto valorizzazione (Federica Giardini e Anna Simoni, La riproduzione come paradigma. Elementi per una economia politica femminista, pubblicato su www.globalproject 8/1/2015).
Continuano ad esserci forti disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro: lo dicono i dati Istat. Solo dal 2013 sembra che sia aumentata la richiesta di occupazione da parte delle donne vicine all’età pensionabile; ricoprono incarichi di basso profilo per compensare la crescita di disoccupazione degli uomini. Nel lavoro esiste ancora una forte segregazione orizzontale e verticale: le donne sono concentrate in un ristretto numero di attività (esistono tuttora “lavori da uomini e lavori da donne”) e concentrate ai livelli più bassi della scala gerarchica (risultato di stereotipi di genere, il fenomeno del ‘soffitto di cristallo’); insomma le donne faticano il doppio per dare libera espressione alle loro capacità. I dati indicano ancora una disuguaglianza contrattuale, es. l’occupazione femminile è più concentrata nelle posizioni dipendenti, anziché indipendenti. Il part-time è fortemente femminilizzato. Concepito per facilitare la conciliazione tra lavoro e famiglia, penalizza le lavoratrici dal punto di vista salariale, rispetto ai lavoro full-time, e dà loro scarsa possibilità di carriera: spesso non è una scelta volontaria. La segregazione occupazionale e la disuguaglianza contrattuale sono le cause principali della disuguaglianza retributiva(Alcune delle problematiche legate alle differenze di genere nel mercato del lavoro sono trattate nel volume ‘La costruzione del Genere’ curato da Barbara Pizzini e nell’articolo di Giovanna Vertova ‘Il mercato del lavoro in un’ottica di genere’).
Sia il sistema di produzione delle merci che il sistema di riproduzione sociale della forza-lavoro fanno parte di quel sistema capitalistico di produzione delle merci che tende ad inglobare in sé e mercificare lo spazio dei diritti. Un esempio riguarda la “femminilizzazione del lavoro” che ha ridiscusso i tempi del lavoro aumentando la flessibilità e dunque la precarietà del lavoro. Secondo le economiste femministe le condizioni di vita delle persone dipendono dall’interazione di due sistemi: il sistema della produzione di mercato che riguarda acquisto di beni e servizi prodotti dal lavoro salariato di lavoratori e lavoratrici e il sistema di riproduzione sociale della forza lavoro che riguarda i bisogni materiali (lavoro domestico e/o lavoro di cura) tutto ciò che serve anche a riprodurre nuova forza lavoro. Questo secondo sistema si basa sul lavoro non pagato delle persone che se ne fanno carico dentro la famiglia. E’ risaputo che in tutti i paesi europei sono le donne a farsene più carico. Ad esempio il lavoro in casa e il lavoro delle madri è stato sempre nascosto dietro concetti ideologici come “l'amore materno” o “la natura femminile” e mai questi lavori sono stati apprezzati e considerati come lavoro reale, cui si è riconosciuto un valore non solo morale. Il modello di famiglia che tende a prevalere in Italia e le conseguenti divisioni di ruoli relativi ai generi fanno persistere il divario tra uomini e donne riguardo alle ore investite per i lavori di cura interni alla famiglia e quelle dedicate al lavoro retribuito.
Mi sono chiesta se il reddito di base così discusso in questi mesi riuscirebbe a ridurre il divario dei generi nel lavoro riproduttivo. Come influenzare un sistema di produzione e dei modelli relazionali che sono andati sempre felicemente a braccetto?I rapporti di classe, le differenti visioni delle relazioni tra i sessi e dei ruoli tra i generi, insieme ad una concezione tradizionale di cosa è famiglia, condizionano le scelte di welfare, le leggi sul lavoro e la volontà che esista un reddito minimo per tutti. Come,viceversa, il welfare incide attraverso le sue norme e convenzioni sociali e culturali ad accrescere le disuguaglianze di genere. Dunque, come aiutare i differenti soggetti a poter essere più autonomi nel decidere e nel rifiutare situazioni di sfruttamento? Le circostanze sfavorevoli di questi ultimi tempi, unite alla riduzione della spesa sociale e alle misure di consolidamento fiscale varate nell'ultimo decennio dal governo italiano e non solo, hanno contribuito a segnare una battuta d'arresto nel processo emancipatorio di accesso ai diritti e di realizzazione delle differenze femminili, ma hanno anche accelerato il percorso involutivo di un ritorno delle donne nel privato. Il momento storico, politico ed economico che stiamo attraversando necessita di maggiori garanzie per l’accesso ai diritti e allo stesso tempo alla possibilità di autodeterminarci, nella libertà di scegliere: ci si autodetermina a partire da un particolare posizionamento, il luogo in cui si è situati, così come le differenze che ci attraversano e costituiscono come soggetti ci condizionano e costituiscono i nostri percorsi conflittuali, mai lineari e sintetizzabili in una unica e replicabile via. Ma per realizzare ognuna/o il suo percorso si ha bisogno di un lavoro, di mezzi di autosostentamento che ci consentano l’accesso a beni e servizi, che permettano anche una più equa redistribuzione dei carichi di lavoro di cura. Quali consigli su come intervenire? Quali effetti può avere un reddito minimo per tutti-e le cittadine e i cittadini? In che modo i criteri differenti di gestione del tempo di lavoro e del tempo di vita, da parte delle donne, possono contrastare una struttura capitalistica, mettere in discussione l’ordine sociale sessista, razzista, classista, eteronormato, etc?
Oggi molte donne vogliono che le problematiche del lavoro siano affrontate da punti di vista non strettamente economicisti, fuori da una logica solo produttiva, oltre uno sguardo universalistico e sinottico di un “soggetto senza corpo” che è dappertutto ed in nessun luogo. Pensiamo sia necessario considerare i differenti posizionamenti dei soggetti attraverso il riconoscimento dell’implicazione dei corpi, della loro parzialità e pluralità. Qui la posta in gioco è riappropriarsi non del valore, bensì dei criteri e delle misure di attribuzione del valore. In buona sostanza, chi decide e come in cosa consiste il sentirsi bene?
Tuttavia è anche frequente, e questa recente occasione non l’ha smentito, che contesti multipli generino riflessioni con pesi e misure differenti, sbilanciate a favore o a detrimento di parti dei discorsi. Soprattutto dove si affrontano questioni che pongono problemi e soluzioni riguardo a finanza, economia o politica. Sembra, infatti, che introdurre anche la differenza di genere per dare una lettura degli eventi, in alcuni casi, crei imbarazzo, soprattutto alle interlocutrici donne, in particolare se “specialiste della materia”.Come se il parlarne sminuisse il valore dell’argomentazione, la rendesse meno “scientifica”, andasse a detrimento dell’immagine professionale della conferenziera.
Voglio dire che molte sollecitazioni che andavano nella direzione di un approfondimento degli effetti sulle scelte e sulla condizione lavorativa delle donne, a causa di una visione parziale e poco attenta al lavoro riproduttivo, non sono state colte probabilmente perché non gli è stato riconosciuto il meritato valore. E il contesto non lo si riteneva adeguato, nonostante l’incontro fosse focalizzato sul genere. Ne deduco che il non assumere uno sguardo universale neutro in un contesto pubblico venga ancora percepito come una “colpa”, come se ci si allontanasse dalla verità e si assumesse un punto di vista troppo particolare (sguardi particolari suscitano il venir meno della scientificità del discorso!). Di contro, tutto ciò viene altresì percepito, a mio parere, da una prospettiva parziale di soggetti “situati”, come un tradimento fatto ai soggetti “incarnati”, a sguardi condizionati da una materialità del discorso che non può oggettivarsi ma collocarsi in una posizione corporea e vitale, dove i corpi si strutturano in un sistema in cui natura e cultura non sono più distinguibili ma in cui le parti non possono essere assorbite e sintetizzate in un oggettivo discorso teorico scientifico che ripropone il “vero”del “Dio” neutro universale.
Mi chiedo, il problema è di auto-riconoscimento e valorizzazione di ciò che si è e delle differenze che non sono visibili, che continuano a non poter esprimersi con altri linguaggi in alcuni contesti? Sicuramente la consapevolezza o la costituzione di alleanze con altre donne hanno incoraggiato il volere o sapere “abitare la propria casa”(la frase è di Francesca Artista, segretaria regionale Fisac-CGIL, pronunciata in un’intervista rilasciatami), il prendersi di coraggio ed anche da sole riuscire a condurre delle battaglie. Tutto ciò in luoghi in cui è tuttora difficile per una donna farsi ascoltare, prendere la parola e ignorare sorrisini o frasi ammiccanti che a volte mirano a ricondurla alla condizione di oggetto-corpo, emotività-irrazionalità, metafora di confusione, vuoto o assenza di parola. Stereotipi del femminile che lo considerano non adeguata ad affrontare discorsi teorici riguardo a questioni pubbliche o di stato.
Il trovare parole e modalità “altre” per essere visibili pubblicamente non è scontato e necessita percorsi di autoriconoscimento e autodeterminazione non sempre facili e non per tutte allo stesso modo. Infatti non è scontato che amiche/compagne ci concedano (per loro insicurezze o per paura di essere “oscurata” dal successo dell’altra) quello spazio che serve a riconoscerci o un’altra occasione per affrontare senza vergogna questi limiti che ci poniamo spesso noi donne nei contesti misti; pur considerando che non partiamo tutte con le stesse possibilità socialmente accreditate e gli strumenti adatti per raggiungere pari riconoscimenti delle nostre rispettive differenze.
Quello di cui ho appena trattato mi serve per parlare del modo di vivere delle donne i diversi contesti lavorativi? Sì, se rivolgo l’attenzione a leggi di mercato che ci impongono prestazioni in cui dobbiamo continuamente essere “tutto” e “al meglio”, o anche di più. Leggi e criteri di valutazione che ci costringono in ruoli naturalizzati (lavori di cura) e mai valorizzati oppure ci negano abilità e competenze acquisite ma non riconosciute, di fatto, al nostro sesso. Le ripercussioni sui differenti soggetti, a causa delle soluzioni prese per arginare gli effetti della crisi, mettono in luce i costi pagati ed i benefici realmente ottenuti nei tempi di produzione e nei tempi di riproduzione della nostra società. E’ importante mettere l’accento sulle modalità competitive e poco collaborative del sistema capitalistico/neoliberista che tende a posizionarci l’una-o contro l’altro-a, puntando soprattutto alla produttività e molto poco alla qualità della nostra vita. Qualità della vita che implica l’avere uno spazio/tempo per sé e un tempo da dedicare al lavoro adeguatamente retribuito, dove io donna o uomo possiamo disporre di servizi che non ci obbligano a sacrificare aspetti importanti che riguardano la cura di noi stessi e di coloro cui siamo legati affettivamente.
In un momento storico in cui i tagli alla spesa pubblica colpiscono soprattutto le possibilità di ricevere quell’assistenza che sempre più viene scaricata sul lavoro gratuito e non sempre volontario delle donne, è sempre più impellente un confronto su quali pratiche sono necessarie per facilitare (in modo paritario) l’accesso alle possibilità di formazione e l’entrata/permanenza nel mondo del lavoro. In Italia, in questi ultimi quaranta anni, sembra essere avvenuta una maggiore apertura alle istanze delle donne. Ci sono state delle conquiste importanti da parte dei movimenti femministi e differenti soggetti hanno raggiunto una maggiore visibilità (mi riferisco anche alle istanze dei soggetti Lgbtqi) e in Italia si parla ultimamente anche di leggi sulle Unioni Civili. Queste aperture e contraddizioni, il mettere in discussione i ruoli sociali tra i generi connessi anche alla conquista da parte delle donne di libertà e di accesso ad alcuni diritti, ha causato al genere maschile la perdita di punti di riferimento e in molti casi le difficolta ad affrontare il cambiamento (aumento dei casi di femminicidio e violenze omofobiche). Una delle cause che sta trasformando il nostro modo di pensare si può individuare in una reale, ma spesso rifiutata idealmente, frantumazione anche nell’immaginario collettivo del modello normativo dominante del maschio bianco, di classe media, abile, adulto, eterosessuale e produttivo.
Le reazioni sociali refrattarie a quest’ultima rottura con un immaginario classico sono state anche quelle di riaffermare un concetto di natura che ingabbia le persone, soprattutto le donne ma anche gli uomini, in ruoli e comportamenti prestabiliti, rassicuranti, attraverso i quali giustificare e far apparire effetto di naturali propensioni il ritorno delle donne entro le mura domestiche. Ai nuovi programmi educativi nelle scuole, come reazioni a questa involuzione dell’immagine della donna, sono seguite risposte pretestuose di accusa da parte di alcune figure istituzionali e da personaggi del mondo estremista cattolico di voler diffondere la cosiddetta 'Ideologia gender' tra gli adolescenti per indurli a comportamenti 'innaturali'(nei confronti di quella che viene chiamata ‘lobby gay’ e di alcuni gruppi del femminismo formatisi sui GenderStudies).
Allo stesso tempo, in questi ultimi anni, le aziende, in una loro logica della conciliazione, hanno esaltato i ruoli della donna multitasking: brava mamma, moglie e lavoratrice. Sono nati anche progetti che prospettano facili soluzioni per la conciliazione vita-lavoro. Nuove prospettive che sembrano andare incontro all'esigenza delle donne, ma in realtà le obbligano a svolgere più compiti, ad aumentare il carico di lavoro, dentro e fuori casa, oltre a far gravare sulle stesse aspettative e ansie per prestazioni che non possono essere deluse. Una lotta continua per affermare il proprio valore in ambito professionale, senza mettere veramente in discussione i ruoli “naturali” di genere, e senza scalfire una idea di femminilità rassicurante soprattutto per un modello sociale che mira ad esaltare un sistema produttivo, individualista e non collaborativo. Un sistema di produzione che rinforza dinamiche interne alla nostra società e che sistematicamente porta avanti in ogni rapporto sociale, culturale, economico ed interpersonale quegli atteggiamenti di prevaricazione e di sfruttamento dei più deboli che vengono condotti con metodicità dalle società rette da sistemi capitalisti.
Le stesse società e sistemi, tengo a sottolinearlo, che definiscono, tramite operazioni sociali e culturali quindi costituite anche secondo meccanismi giuridici, economici, etc., l'appartenenza sessuale delle persone, la delimitazione e la numerazione dei sessi, la definizione biologica e/o genetica del sesso. Motivo per cui un'interpretazione della crisi economica che consideri solo la dimensione di classe rischia di cancellare l'impatto sul sistema di riproduzione sociale della forza-lavoro, lasciando quindi invisibili i costi pagati dalle donne in termini di lavoro domestico/di cura. L’assumere anche una prospettiva riproduttiva del lavoro permette di individuare l’intervallo spazio-temporale che separa valorizzazione per il profitto altrui e pratiche e istituzioni di auto valorizzazione (Federica Giardini e Anna Simoni, La riproduzione come paradigma. Elementi per una economia politica femminista, pubblicato su www.globalproject 8/1/2015).
Continuano ad esserci forti disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro: lo dicono i dati Istat. Solo dal 2013 sembra che sia aumentata la richiesta di occupazione da parte delle donne vicine all’età pensionabile; ricoprono incarichi di basso profilo per compensare la crescita di disoccupazione degli uomini. Nel lavoro esiste ancora una forte segregazione orizzontale e verticale: le donne sono concentrate in un ristretto numero di attività (esistono tuttora “lavori da uomini e lavori da donne”) e concentrate ai livelli più bassi della scala gerarchica (risultato di stereotipi di genere, il fenomeno del ‘soffitto di cristallo’); insomma le donne faticano il doppio per dare libera espressione alle loro capacità. I dati indicano ancora una disuguaglianza contrattuale, es. l’occupazione femminile è più concentrata nelle posizioni dipendenti, anziché indipendenti. Il part-time è fortemente femminilizzato. Concepito per facilitare la conciliazione tra lavoro e famiglia, penalizza le lavoratrici dal punto di vista salariale, rispetto ai lavoro full-time, e dà loro scarsa possibilità di carriera: spesso non è una scelta volontaria. La segregazione occupazionale e la disuguaglianza contrattuale sono le cause principali della disuguaglianza retributiva(Alcune delle problematiche legate alle differenze di genere nel mercato del lavoro sono trattate nel volume ‘La costruzione del Genere’ curato da Barbara Pizzini e nell’articolo di Giovanna Vertova ‘Il mercato del lavoro in un’ottica di genere’).
Sia il sistema di produzione delle merci che il sistema di riproduzione sociale della forza-lavoro fanno parte di quel sistema capitalistico di produzione delle merci che tende ad inglobare in sé e mercificare lo spazio dei diritti. Un esempio riguarda la “femminilizzazione del lavoro” che ha ridiscusso i tempi del lavoro aumentando la flessibilità e dunque la precarietà del lavoro. Secondo le economiste femministe le condizioni di vita delle persone dipendono dall’interazione di due sistemi: il sistema della produzione di mercato che riguarda acquisto di beni e servizi prodotti dal lavoro salariato di lavoratori e lavoratrici e il sistema di riproduzione sociale della forza lavoro che riguarda i bisogni materiali (lavoro domestico e/o lavoro di cura) tutto ciò che serve anche a riprodurre nuova forza lavoro. Questo secondo sistema si basa sul lavoro non pagato delle persone che se ne fanno carico dentro la famiglia. E’ risaputo che in tutti i paesi europei sono le donne a farsene più carico. Ad esempio il lavoro in casa e il lavoro delle madri è stato sempre nascosto dietro concetti ideologici come “l'amore materno” o “la natura femminile” e mai questi lavori sono stati apprezzati e considerati come lavoro reale, cui si è riconosciuto un valore non solo morale. Il modello di famiglia che tende a prevalere in Italia e le conseguenti divisioni di ruoli relativi ai generi fanno persistere il divario tra uomini e donne riguardo alle ore investite per i lavori di cura interni alla famiglia e quelle dedicate al lavoro retribuito.
Mi sono chiesta se il reddito di base così discusso in questi mesi riuscirebbe a ridurre il divario dei generi nel lavoro riproduttivo. Come influenzare un sistema di produzione e dei modelli relazionali che sono andati sempre felicemente a braccetto?I rapporti di classe, le differenti visioni delle relazioni tra i sessi e dei ruoli tra i generi, insieme ad una concezione tradizionale di cosa è famiglia, condizionano le scelte di welfare, le leggi sul lavoro e la volontà che esista un reddito minimo per tutti. Come,viceversa, il welfare incide attraverso le sue norme e convenzioni sociali e culturali ad accrescere le disuguaglianze di genere. Dunque, come aiutare i differenti soggetti a poter essere più autonomi nel decidere e nel rifiutare situazioni di sfruttamento? Le circostanze sfavorevoli di questi ultimi tempi, unite alla riduzione della spesa sociale e alle misure di consolidamento fiscale varate nell'ultimo decennio dal governo italiano e non solo, hanno contribuito a segnare una battuta d'arresto nel processo emancipatorio di accesso ai diritti e di realizzazione delle differenze femminili, ma hanno anche accelerato il percorso involutivo di un ritorno delle donne nel privato. Il momento storico, politico ed economico che stiamo attraversando necessita di maggiori garanzie per l’accesso ai diritti e allo stesso tempo alla possibilità di autodeterminarci, nella libertà di scegliere: ci si autodetermina a partire da un particolare posizionamento, il luogo in cui si è situati, così come le differenze che ci attraversano e costituiscono come soggetti ci condizionano e costituiscono i nostri percorsi conflittuali, mai lineari e sintetizzabili in una unica e replicabile via. Ma per realizzare ognuna/o il suo percorso si ha bisogno di un lavoro, di mezzi di autosostentamento che ci consentano l’accesso a beni e servizi, che permettano anche una più equa redistribuzione dei carichi di lavoro di cura. Quali consigli su come intervenire? Quali effetti può avere un reddito minimo per tutti-e le cittadine e i cittadini? In che modo i criteri differenti di gestione del tempo di lavoro e del tempo di vita, da parte delle donne, possono contrastare una struttura capitalistica, mettere in discussione l’ordine sociale sessista, razzista, classista, eteronormato, etc?
Oggi molte donne vogliono che le problematiche del lavoro siano affrontate da punti di vista non strettamente economicisti, fuori da una logica solo produttiva, oltre uno sguardo universalistico e sinottico di un “soggetto senza corpo” che è dappertutto ed in nessun luogo. Pensiamo sia necessario considerare i differenti posizionamenti dei soggetti attraverso il riconoscimento dell’implicazione dei corpi, della loro parzialità e pluralità. Qui la posta in gioco è riappropriarsi non del valore, bensì dei criteri e delle misure di attribuzione del valore. In buona sostanza, chi decide e come in cosa consiste il sentirsi bene?
Lascia un commento