
SRAFFA TRA TEORIA ECONOMICA E CULTURA EUROPEA
Scritto da Giovanni Di Benedetto 4 febbraio 2015
Scritto da Giovanni Di Benedetto 4 febbraio 2015
È sorprendente registrare
l’amnesia, forse sarebbe meglio dire la rimozione, che aleggia sulla figura e
l’opera intellettuale di Piero Sraffa. Eppure la sua personalità e la sua
figura di economista ed intellettuale
sono fuori dal comune, certamente tra le più significative di tutto il
Novecento. A fare da guida nel tentativo di riscoprire, alla luce dei problemi
della contemporaneità, l’opera di Sraffa, può essere utile tornare ad
accostarsi ad un libro che circa trent’anni fa tracciava una ricognizione ed un
bilancio complessivi del suo magistero.
Si tratta di un testo, oggi quasi introvabile, uscito per Franco Angeli nel 1986, curato da Riccardo Bellofiore e intitolato Sraffa tra teoria economica e cultura europea. È un testo che raccoglie le relazioni tenute ad un convegno sulla figura dello studioso tenuto a Torino ad opera dell’Istituto piemontese di scienze economiche e sociali intitolato a Antonio Gramsci. Nato a Torino alla fine dell’Ottocento, per l’esattezza il 5 agosto 1898, Sraffa entra ben presto a contatto con alcuni dei più importanti protagonisti della cultura europea, non solo economica, novecentesca, da Luigi Einaudi a John Maynard Keynes, da Ludwig Wittigenstein a Joan Robinson. Per non tacere della sua amicizia con Antonio Gramsci di cui diventa il più importante sostegno durante la carcerazione facendo da tramite tra lui e il Partito comunista. Tutta la sua avventura intellettuale appare segnata dalla necessità di operare una rottura radicale con la teoria economica dominante, dalla sua tesi di laurea discussa con Luigi Einaudi, allora ordinario di scienze delle finanze, su L’inflazione monetaria in Italia prima e durante la guerra, ai primi contributi sulla crisi bancaria che gli attirarono le minacciose rimostranze mussoliniane. Fin da subito lo stile di Sraffa si caratterizza per il rigore consequenziale, la fredda sobrietà, l’assenza della pur minima ostentazione del proprio spessore culturale.
Da qui alla critica della teoria marshalliana dell’equilibrio dell’impresa e dell’industria il passo sarà breve. Marshall aveva sottratto alla problematica della teoria classica del valore il costo di produzione e lo aveva riferito al fattore psicologico della disutilità. In un articolo pubblicato nel 1925 sugli Annali di economia, Sraffa attacca questa costruzione teorica che rinvia, nella determinazione dei prezzi, al livello d’equilibrio che si instaura tra domanda e offerta. Nella logica del marginalismo è la relazione fra preferenze dei soggetti economici e scarsità delle risorse a determinare i prezzi di ogni singola merce, secondo il libero gioco della domanda e dell’offerta. Secondo l’approccio di Sraffa, viceversa, vi sono difficoltà e contraddizioni insuperabili che rimandano alla pretesa di definire i costi come funzione della quantità prodotta attraverso un’unica legge dei rendimenti non proporzionali. Sraffa dimostra che Marshall ha elaborato una teoria parziale che, in regime di perfetta concorrenzialità, è valida esclusivamente per rendimenti costanti ma non per rendimenti crescenti o decrescenti.
Nel ‘32 Sraffa recensisce un libro di von Hayek, Prices and Production e anche qui torna l’esigenza di mettere in discussione i fondamenti del marginalismo, in particolare la scuola austriaca. L’obiettivo è quello di evidenziare la distanza incolmabile che separa il Trattato sulla moneta di Keynes dalla teoria della moneta e del ciclo di Hayek, quasi a scongiurare prima del tempo il tentativo posteriore di inglobare il keynesismo all’interno della cosiddetta sintesi neoclassica. Ma è con il lavoro prestato per l’edizione critica delle opere di Ricardo che Sraffa opera l’affondo più pesante nei confronti del pensiero economico mainstream: si tratta di liberare Ricardo dalla visione che ne fa il marginalismo per riproporre, per suo tramite, la maggiore validità e consonanza con i problemi della realtà dell’approccio degli economisti classici, approccio poi ulteriormente sviluppato da Marx. Non è cosa di poco conto, se è vero che il lavoro sugli scritti di Ricardo comincia nel 1930 e procede per quasi tre decenni. Commissionatogli dalla Royal Economic Society, il lavoro di raffinata indagine filologica con cui Sraffa disseziona l’intera opera di Ricardo non è fine a se stesso ma ha il compito di mostrare la superiorità dell’economia classica: a differenza del modello neoclassico che illustra la sfera dell’economia come un sistema armonico, una via a senso unico tra la produzione e il consumo, il modello dell’economia politica classica descrive il sistema economico come se si trattasse di un organismo che, come direbbe Ruffolo, cresce su se stesso, grazie non alla forza esogena dei bisogni ma a quella endogena della ricerca del profitto. Da qui la centralità della nozione di sovrappiù e dell’antagonismo tra le classi sociali per la distribuzione della ricchezza.
Saranno proprio questi i temi da cui, implicitamente, prende le mosse il capolavoro del 1960, Produzione di merci a mezzo di merci. In questo smilzo testo di appena un centinaio di pagine, ma al quale sembra che il nostro abbia lavorato per più di trent’anni, Sraffa abbandona la teoria del valore – lavoro quale fondamento di una teoria del prezzo e, di conseguenza, rinuncia a collegare la determinazione del salario con la nozione di sfruttamento e quella del profitto con la nozione di plusvalore. Dalla pubblicazione del libro si originerà un vasto e inconcluso dibattito che toccherà temi diversi e riguarderà interpretazioni disparate: dalla offensiva nei confronti del marginalismo alla messa in discussone delle capacità autoregolanti del mercato, dalla riattualizzazione dell’economia politica classica, ai legami con Marx e Keynes.
Al riguardo, le posizioni emerse dalle relazioni del convegno e raccolte nel volume esprimono una ricca e articolata varietà di punti di vista. Qui vale la pena accennare, per la storia importante che hanno rivestito all’interno del dibattito sul rapporto tra Sraffa e l’economia politica classica, a quelle di Pierangelo Garegnani e di Claudio Napoleoni. Nel caso di Garegnani si sostiene che Produzione di merci a mezzo di merci avrebbe avuto il merito di riprendere e perfezionare l’opera degli economisti classici e di Marx per dimostrare la validità dell’impostazione fondata sullo sfruttamento derivante dalla mancata appropriazione del plusprodotto da parte dei lavoratori. Dunque slegare la determinazione dei prezzi dal contesto concreto delle relazioni sociali non vuol dire disconoscere l’esistenza di rapporti di forza tra le due classi fondamentali, imprenditori e lavoratori. Al contrario, secondo Napoleoni, il contributo di Sraffa avrebbe prodotto una definizione del sovrappiù socialmente muta e teoricamente neutra, visto che Produzione di merci a mezzo di merci sarebbe stata compatibile tanto con la teoria neoclassica quanto con la marxiana.
Come si vede, posizioni fra loro anche duramente contrapposte, ma che evocano un dibattito intenso e proficuo, ricco di stimoli e contributi. Un dibattito di cui purtroppo oggi, nelle riflessioni della teoria economica dominante sulla crisi, sembra non restare traccia. Tuttavia, che Sraffa abbia dato molto all’Italia, che, come scrive Riccardo Faucci, uno degli autori delle relazioni contenute nel libro, il suo prestigio si sia riverberato sul suo paese d’origine è indubbio. Resta da chiedersi, piuttosto, quanto il nostro paese e la nostra società abbiano ricevuto e quanto possano ricevere ancora oggi dagli economisti che rappresentano la teoria dominante, che continuano dopo quasi dieci anni di recessione a propinare le loro ricette a base di austerità e deregulation e che fingono di misconoscere le conclusioni della critica sraffiana al processo economico.
Si tratta di un testo, oggi quasi introvabile, uscito per Franco Angeli nel 1986, curato da Riccardo Bellofiore e intitolato Sraffa tra teoria economica e cultura europea. È un testo che raccoglie le relazioni tenute ad un convegno sulla figura dello studioso tenuto a Torino ad opera dell’Istituto piemontese di scienze economiche e sociali intitolato a Antonio Gramsci. Nato a Torino alla fine dell’Ottocento, per l’esattezza il 5 agosto 1898, Sraffa entra ben presto a contatto con alcuni dei più importanti protagonisti della cultura europea, non solo economica, novecentesca, da Luigi Einaudi a John Maynard Keynes, da Ludwig Wittigenstein a Joan Robinson. Per non tacere della sua amicizia con Antonio Gramsci di cui diventa il più importante sostegno durante la carcerazione facendo da tramite tra lui e il Partito comunista. Tutta la sua avventura intellettuale appare segnata dalla necessità di operare una rottura radicale con la teoria economica dominante, dalla sua tesi di laurea discussa con Luigi Einaudi, allora ordinario di scienze delle finanze, su L’inflazione monetaria in Italia prima e durante la guerra, ai primi contributi sulla crisi bancaria che gli attirarono le minacciose rimostranze mussoliniane. Fin da subito lo stile di Sraffa si caratterizza per il rigore consequenziale, la fredda sobrietà, l’assenza della pur minima ostentazione del proprio spessore culturale.
Da qui alla critica della teoria marshalliana dell’equilibrio dell’impresa e dell’industria il passo sarà breve. Marshall aveva sottratto alla problematica della teoria classica del valore il costo di produzione e lo aveva riferito al fattore psicologico della disutilità. In un articolo pubblicato nel 1925 sugli Annali di economia, Sraffa attacca questa costruzione teorica che rinvia, nella determinazione dei prezzi, al livello d’equilibrio che si instaura tra domanda e offerta. Nella logica del marginalismo è la relazione fra preferenze dei soggetti economici e scarsità delle risorse a determinare i prezzi di ogni singola merce, secondo il libero gioco della domanda e dell’offerta. Secondo l’approccio di Sraffa, viceversa, vi sono difficoltà e contraddizioni insuperabili che rimandano alla pretesa di definire i costi come funzione della quantità prodotta attraverso un’unica legge dei rendimenti non proporzionali. Sraffa dimostra che Marshall ha elaborato una teoria parziale che, in regime di perfetta concorrenzialità, è valida esclusivamente per rendimenti costanti ma non per rendimenti crescenti o decrescenti.
Nel ‘32 Sraffa recensisce un libro di von Hayek, Prices and Production e anche qui torna l’esigenza di mettere in discussione i fondamenti del marginalismo, in particolare la scuola austriaca. L’obiettivo è quello di evidenziare la distanza incolmabile che separa il Trattato sulla moneta di Keynes dalla teoria della moneta e del ciclo di Hayek, quasi a scongiurare prima del tempo il tentativo posteriore di inglobare il keynesismo all’interno della cosiddetta sintesi neoclassica. Ma è con il lavoro prestato per l’edizione critica delle opere di Ricardo che Sraffa opera l’affondo più pesante nei confronti del pensiero economico mainstream: si tratta di liberare Ricardo dalla visione che ne fa il marginalismo per riproporre, per suo tramite, la maggiore validità e consonanza con i problemi della realtà dell’approccio degli economisti classici, approccio poi ulteriormente sviluppato da Marx. Non è cosa di poco conto, se è vero che il lavoro sugli scritti di Ricardo comincia nel 1930 e procede per quasi tre decenni. Commissionatogli dalla Royal Economic Society, il lavoro di raffinata indagine filologica con cui Sraffa disseziona l’intera opera di Ricardo non è fine a se stesso ma ha il compito di mostrare la superiorità dell’economia classica: a differenza del modello neoclassico che illustra la sfera dell’economia come un sistema armonico, una via a senso unico tra la produzione e il consumo, il modello dell’economia politica classica descrive il sistema economico come se si trattasse di un organismo che, come direbbe Ruffolo, cresce su se stesso, grazie non alla forza esogena dei bisogni ma a quella endogena della ricerca del profitto. Da qui la centralità della nozione di sovrappiù e dell’antagonismo tra le classi sociali per la distribuzione della ricchezza.
Saranno proprio questi i temi da cui, implicitamente, prende le mosse il capolavoro del 1960, Produzione di merci a mezzo di merci. In questo smilzo testo di appena un centinaio di pagine, ma al quale sembra che il nostro abbia lavorato per più di trent’anni, Sraffa abbandona la teoria del valore – lavoro quale fondamento di una teoria del prezzo e, di conseguenza, rinuncia a collegare la determinazione del salario con la nozione di sfruttamento e quella del profitto con la nozione di plusvalore. Dalla pubblicazione del libro si originerà un vasto e inconcluso dibattito che toccherà temi diversi e riguarderà interpretazioni disparate: dalla offensiva nei confronti del marginalismo alla messa in discussone delle capacità autoregolanti del mercato, dalla riattualizzazione dell’economia politica classica, ai legami con Marx e Keynes.
Al riguardo, le posizioni emerse dalle relazioni del convegno e raccolte nel volume esprimono una ricca e articolata varietà di punti di vista. Qui vale la pena accennare, per la storia importante che hanno rivestito all’interno del dibattito sul rapporto tra Sraffa e l’economia politica classica, a quelle di Pierangelo Garegnani e di Claudio Napoleoni. Nel caso di Garegnani si sostiene che Produzione di merci a mezzo di merci avrebbe avuto il merito di riprendere e perfezionare l’opera degli economisti classici e di Marx per dimostrare la validità dell’impostazione fondata sullo sfruttamento derivante dalla mancata appropriazione del plusprodotto da parte dei lavoratori. Dunque slegare la determinazione dei prezzi dal contesto concreto delle relazioni sociali non vuol dire disconoscere l’esistenza di rapporti di forza tra le due classi fondamentali, imprenditori e lavoratori. Al contrario, secondo Napoleoni, il contributo di Sraffa avrebbe prodotto una definizione del sovrappiù socialmente muta e teoricamente neutra, visto che Produzione di merci a mezzo di merci sarebbe stata compatibile tanto con la teoria neoclassica quanto con la marxiana.
Come si vede, posizioni fra loro anche duramente contrapposte, ma che evocano un dibattito intenso e proficuo, ricco di stimoli e contributi. Un dibattito di cui purtroppo oggi, nelle riflessioni della teoria economica dominante sulla crisi, sembra non restare traccia. Tuttavia, che Sraffa abbia dato molto all’Italia, che, come scrive Riccardo Faucci, uno degli autori delle relazioni contenute nel libro, il suo prestigio si sia riverberato sul suo paese d’origine è indubbio. Resta da chiedersi, piuttosto, quanto il nostro paese e la nostra società abbiano ricevuto e quanto possano ricevere ancora oggi dagli economisti che rappresentano la teoria dominante, che continuano dopo quasi dieci anni di recessione a propinare le loro ricette a base di austerità e deregulation e che fingono di misconoscere le conclusioni della critica sraffiana al processo economico.
Commento lasciato da Mario Guarino il 6 febbraio 2015
L'economia politica come si studiava ai miei tempi era di scuola prettamente marginalista. Ho ripreso il mio manuale di allora (1967) il Bresciani-Turroni, e ho riletto un capitoletto che allora mi colpì molto (appena cinque pagine su un'opera i due volumi di più di 1000 pagine) "la ripartizione dei beni di consumo in una economia collettivistica" dove si affermava che un'economia collettivistica potrebbe funzionare ma solo astrattamente... Questo per dire quanto fosse carente l'offerta formativa delle università di allora. Sraffa è lontano anni luce da quel mondo. Per quanto mi riguarda ha avuto il merito di rimettere in movimento quei pochi neuroni che mi sono rimasti...
Commento lasciato da Bernardo Brusca il 22 febbraio 2015
Non mi sembra che approfondire gli studi di Sraffa possa in qualche modo contribuire a trovare soluzioni alla crisi economica in cui si attanaglia l'Italia. Forse è per questo che, tranne gli addetti ai lavori, nessuno sa chi sia. Tra l'altro non mi pare che tra gli esperti ci sia unanimità di giudizio sulla sua opera e ciò vuol dire che il discorso di Sraffa non è esaustivo. Per affrontare la crisi, meglio ricorrere all'economia aziendale: bisogna produrre merci e fornire servizi a prezzi che possano battere la concorrenza. E siccome siamo in un mercato aperto, le aziende devono vincere non solo la concorrenza nazionale, ma sopratutto quella estera. Se tra due o più aziende nazionali, ne prevale una, poco male: il lavoro e la ricchezza prodotte restano in Italia. Quando invece vincono le aziende straniere si perde tutto: posti di lavoro e ricchezza. Caso emblematico è quello della FIAT che prima ha assorbito tutte le aziende automolbilistiche italiane è poi si è trasferita all'estero. Le statistiche ci dicono che in 10 anni di crisi abbiamo perso il 25% della capacità produttiva, con conseguente calo dell'occupazione e del PIL. Le aziende sono le cellule produttive di una Nazione. Quando un'azienda chiude non è un fatto che riguarda solo quell'azienda, ma è un fatto che riguarda la comunità intera. Per cui un governo che si rispetti, la prima cosa che deve fare è creare le condizioni affinchè le aziende esistenti restino in Italia e altre ne nascano. Se un'azienda non riesce a fare utili non può fare altro che chiudere o spostarsi all'estero in paesi dove i costi di produzione sono più bassi. Chiaramente bisognerebbe distinguere tra chi delocalizza per necessità da chi lo fa per avidità di guadagno; ma è una cosa quasi impossibile. Comunque, per le aziende in difficoltà, rimane il fatto che non potendo cambiare le condizioni di contesto o si arrendono e chiudono o delocalizzano. A questo punto l'unico che può intervenire è il governo, ovviamente in accordo con il parlamento, per modificare le condizioni esterne all'azienda, alleggerendo tutti quei costi di sua competenza: credito, energia, tassazione, burocrazia ecc.. E' chiaro che questo può accadere solo abbassando la spesa pubblica. Si spera solo quella improduttiva. In ultima analisi uno stato deve tenere in equilibrio la bilancia commerciale e quella dei capitali pena prima o poi la bancarotta. Il guaio è che poi il danno viene fatto pagare alle aziende e ai lavoratori.
Non mi sembra che approfondire gli studi di Sraffa possa in qualche modo contribuire a trovare soluzioni alla crisi economica in cui si attanaglia l'Italia. Forse è per questo che, tranne gli addetti ai lavori, nessuno sa chi sia. Tra l'altro non mi pare che tra gli esperti ci sia unanimità di giudizio sulla sua opera e ciò vuol dire che il discorso di Sraffa non è esaustivo. Per affrontare la crisi, meglio ricorrere all'economia aziendale: bisogna produrre merci e fornire servizi a prezzi che possano battere la concorrenza. E siccome siamo in un mercato aperto, le aziende devono vincere non solo la concorrenza nazionale, ma sopratutto quella estera. Se tra due o più aziende nazionali, ne prevale una, poco male: il lavoro e la ricchezza prodotte restano in Italia. Quando invece vincono le aziende straniere si perde tutto: posti di lavoro e ricchezza. Caso emblematico è quello della FIAT che prima ha assorbito tutte le aziende automolbilistiche italiane è poi si è trasferita all'estero. Le statistiche ci dicono che in 10 anni di crisi abbiamo perso il 25% della capacità produttiva, con conseguente calo dell'occupazione e del PIL. Le aziende sono le cellule produttive di una Nazione. Quando un'azienda chiude non è un fatto che riguarda solo quell'azienda, ma è un fatto che riguarda la comunità intera. Per cui un governo che si rispetti, la prima cosa che deve fare è creare le condizioni affinchè le aziende esistenti restino in Italia e altre ne nascano. Se un'azienda non riesce a fare utili non può fare altro che chiudere o spostarsi all'estero in paesi dove i costi di produzione sono più bassi. Chiaramente bisognerebbe distinguere tra chi delocalizza per necessità da chi lo fa per avidità di guadagno; ma è una cosa quasi impossibile. Comunque, per le aziende in difficoltà, rimane il fatto che non potendo cambiare le condizioni di contesto o si arrendono e chiudono o delocalizzano. A questo punto l'unico che può intervenire è il governo, ovviamente in accordo con il parlamento, per modificare le condizioni esterne all'azienda, alleggerendo tutti quei costi di sua competenza: credito, energia, tassazione, burocrazia ecc.. E' chiaro che questo può accadere solo abbassando la spesa pubblica. Si spera solo quella improduttiva. In ultima analisi uno stato deve tenere in equilibrio la bilancia commerciale e quella dei capitali pena prima o poi la bancarotta. Il guaio è che poi il danno viene fatto pagare alle aziende e ai lavoratori.
Commento lasciato da Angelo Foscari il 26 febbraio 2015
Ciao Bernardo,
permettimi un paio di obiezioni "alla buona":
1) Nemmeno riguardo alle opere di Shakespeare (non parliamo poi di Smith, Ricardo, Marx eccetera) c'è "unanimità di giudizio": ma non per questo "nessuno sa chi sia".
2) "Abbassare la spesa pubblica" è quello che viene fatto da anni con l'austerità; ma non mi pare affatto che abbia giovato all'economia italiana e soprattutto ai lavoratori.
Ciao Bernardo,
permettimi un paio di obiezioni "alla buona":
1) Nemmeno riguardo alle opere di Shakespeare (non parliamo poi di Smith, Ricardo, Marx eccetera) c'è "unanimità di giudizio": ma non per questo "nessuno sa chi sia".
2) "Abbassare la spesa pubblica" è quello che viene fatto da anni con l'austerità; ma non mi pare affatto che abbia giovato all'economia italiana e soprattutto ai lavoratori.
Commento lasciato da Bernardo Brusca il 7 marzo 2015
Ciao Angelo
Dicendo, riferendomi a Sraffa ", nessuno sa chi sia" volevo solo puntualizzare che in effetti non è per nulla noto al grande pubblico, al contrario per esempio di Marx o Keynes. Per quanto riguarda la riduzione della spesa pubblica, hai ragione nel dire che in questi anni, nonostante i tagli effettuati non è cambiato nulla. Il perché è semplice: non basta fare tagli generici senza tenere conto della produttività delle aziende che sono le sole che producono ricchezza. E noi sappiamo che la ricchezza se prima non si produce non la si può ripartire. Se per esempio la politica assorbe una quota esagerata del pil nazionale, questa va finanziata o tagliando il sociale o aumentando il debito. Se anziché aumentare le spese per la politica si fossero aumentate quelle per la ricerca o per incentivare le aziende a diventare più produttive oggi saremmo davanti alla Germania. In trent'anni abbiamo creato 18 consigli regionali con annessi e connessi vari, comunità montane, nuove province, parlamentari europei, consigli di quartiere, numerose authority, anziché ridurre i parlamentari li abbiamo pure dotati di portaborse, ecc. ecc.. Tutto questo ha reso lo Stato più efficiente? Assolutamente no! Abbiamo più corruzione, più evasione e più debito pubblico. Avessimo investito nelle aziende, nelle infrastrutture, nella ricerca oggi staremmo sicuramente meglio.
Ciao Angelo
Dicendo, riferendomi a Sraffa ", nessuno sa chi sia" volevo solo puntualizzare che in effetti non è per nulla noto al grande pubblico, al contrario per esempio di Marx o Keynes. Per quanto riguarda la riduzione della spesa pubblica, hai ragione nel dire che in questi anni, nonostante i tagli effettuati non è cambiato nulla. Il perché è semplice: non basta fare tagli generici senza tenere conto della produttività delle aziende che sono le sole che producono ricchezza. E noi sappiamo che la ricchezza se prima non si produce non la si può ripartire. Se per esempio la politica assorbe una quota esagerata del pil nazionale, questa va finanziata o tagliando il sociale o aumentando il debito. Se anziché aumentare le spese per la politica si fossero aumentate quelle per la ricerca o per incentivare le aziende a diventare più produttive oggi saremmo davanti alla Germania. In trent'anni abbiamo creato 18 consigli regionali con annessi e connessi vari, comunità montane, nuove province, parlamentari europei, consigli di quartiere, numerose authority, anziché ridurre i parlamentari li abbiamo pure dotati di portaborse, ecc. ecc.. Tutto questo ha reso lo Stato più efficiente? Assolutamente no! Abbiamo più corruzione, più evasione e più debito pubblico. Avessimo investito nelle aziende, nelle infrastrutture, nella ricerca oggi staremmo sicuramente meglio.
Commento lasciato da Marco il 9 marzo 2015
Caro Bernardo,
preciso velocemente su qualche tua affermazione.
Sraffa non è noto al grande pubblico, ma nemmeno Hayek, Schumpeter, Leontiev, Kaldor, Robinson, Sweezy, Myrdal, Minsky, e potrei continuare per molto. Ciò non significa che ognuno dei suddetti non abbia fornito contributi importanti alla scienza economica. Lo stesso paragone si potrebbe fare per altre scienze. O per la letteratura. E così via.
Il resto delle tue affermazioni mi pare parta da concetti di base da approfondire e da chiarire. Ecco perché facciamo i seminari anche sulla teoria, come quello sulla storia del valore-lavoro, per smontare luoghi comuni come quello secondo il quale le aziende creano ricchezza. Su questo aspetto perfino i liberali che discendono da Smith e Ricardo la pensano diversamente. Poi continui sulla quota esagerata del PIL nazionale della politica. Se per “politica” intendi il costo della burocrazia, noi siamo al di sotto della media europea per spesa pubblica/PIL e se scomponiamo per categorie economiche (come la spesa pubblica “improduttiva”), noterai che siamo al di sotto delle tanto invidiate Francia, Germania e altri paesi “virtuosi”. Puoi leggerti ad esempio le tabelle della RGS qui.
Ecco cominciamo a pensare che i problemi economici non derivano solo dall’auto frustrazione e dal vittimismo italico. L’austerità ha dimostrato che i problemi sono altri. Ad esempio potresti leggerti l’ultimo libro di Varoufakis che discuteremo mercoledì per capire che il mondo è più complesso di come lo disegnano gli editorialisti del CorSera o Repubblica. Attenzione non dico che questi non siano problemi, ma noi che siamo “di sinistra” pensiamo che questa sia sovrastruttura, la struttura è altra.
Caro Bernardo,
preciso velocemente su qualche tua affermazione.
Sraffa non è noto al grande pubblico, ma nemmeno Hayek, Schumpeter, Leontiev, Kaldor, Robinson, Sweezy, Myrdal, Minsky, e potrei continuare per molto. Ciò non significa che ognuno dei suddetti non abbia fornito contributi importanti alla scienza economica. Lo stesso paragone si potrebbe fare per altre scienze. O per la letteratura. E così via.
Il resto delle tue affermazioni mi pare parta da concetti di base da approfondire e da chiarire. Ecco perché facciamo i seminari anche sulla teoria, come quello sulla storia del valore-lavoro, per smontare luoghi comuni come quello secondo il quale le aziende creano ricchezza. Su questo aspetto perfino i liberali che discendono da Smith e Ricardo la pensano diversamente. Poi continui sulla quota esagerata del PIL nazionale della politica. Se per “politica” intendi il costo della burocrazia, noi siamo al di sotto della media europea per spesa pubblica/PIL e se scomponiamo per categorie economiche (come la spesa pubblica “improduttiva”), noterai che siamo al di sotto delle tanto invidiate Francia, Germania e altri paesi “virtuosi”. Puoi leggerti ad esempio le tabelle della RGS qui.
Ecco cominciamo a pensare che i problemi economici non derivano solo dall’auto frustrazione e dal vittimismo italico. L’austerità ha dimostrato che i problemi sono altri. Ad esempio potresti leggerti l’ultimo libro di Varoufakis che discuteremo mercoledì per capire che il mondo è più complesso di come lo disegnano gli editorialisti del CorSera o Repubblica. Attenzione non dico che questi non siano problemi, ma noi che siamo “di sinistra” pensiamo che questa sia sovrastruttura, la struttura è altra.
Commento lasciato da Bernardo Brusca il 23 marzo 2015
Non voglio polemizzare ma solo chiarire e capire. Come si può affermare che le aziende non producono ricchezza? E allora la ricchezza chi la produce? A me sembra logico pensare che la produttività del singolo sia limitata, mentre in una azienda, dove interviene l'organizzazione tra più lavoratori e con l'apporto di macchine essa venga moltiplicata.
Non voglio polemizzare ma solo chiarire e capire. Come si può affermare che le aziende non producono ricchezza? E allora la ricchezza chi la produce? A me sembra logico pensare che la produttività del singolo sia limitata, mentre in una azienda, dove interviene l'organizzazione tra più lavoratori e con l'apporto di macchine essa venga moltiplicata.
Commento lasciato da Angelo Foscari il 24 marzo 2015
Ciao Bernardo,
innanzitutto voglio dire che siamo qui proprio per discutere e se necessario per polemizzare: nessun problema dunque !
Io dico che le aziende non producono "ricchezza": le aziende producono...prodotti, dotati di valore d'uso e valore di scambio. "Ricchezza" etimologicamente indica "potere", "prevalere", "dominare"; e, nell'insuperata - a mio modesto parere - definizione di Adamo Smith, "La ricchezza... è il potere di acquistare una certa disponibilità su tutto il lavoro o su tutto il prodotto del lavoro, che in quel momento è sul mercato". Ricchezza significa Poter Disporre. Nel mondo in cui viviamo, a "poter disporre" del lavoro o del prodotto del lavoro sono imprenditori e boiardi di stato (dove esiste un settore di capitalismo di stato), nonché, limitatamente alla possibilità di disporre del prodotto del lavoro, i "ricchi" (per l'appunto) cioè, oggi come oggi, in primo luogo la finanza. Ne dispongono, ma non mi sembra che la creino (se non in quanto certi imprenditori lavorano anche loro, ma questo è un altro discorso): Fonte della ricchezza (cosa diversa dalla destinazione finale della ricchezza, di cui sopra) sono in tutta evidenza la natura ed il lavoro. L'organizzazione del lavoro oggi - come sottolinei giustamente tu - è quella dell'impresa capitalistica (per cui mette capo appunto alla "ricchezza" - almeno potenziale - dell'imprenditore) ma nulla vieta di organizzarsi per lavorare in una logica diversa da quella dell'azienda, ed arricchire tutti anziché pochi.
Ciao Bernardo,
innanzitutto voglio dire che siamo qui proprio per discutere e se necessario per polemizzare: nessun problema dunque !
Io dico che le aziende non producono "ricchezza": le aziende producono...prodotti, dotati di valore d'uso e valore di scambio. "Ricchezza" etimologicamente indica "potere", "prevalere", "dominare"; e, nell'insuperata - a mio modesto parere - definizione di Adamo Smith, "La ricchezza... è il potere di acquistare una certa disponibilità su tutto il lavoro o su tutto il prodotto del lavoro, che in quel momento è sul mercato". Ricchezza significa Poter Disporre. Nel mondo in cui viviamo, a "poter disporre" del lavoro o del prodotto del lavoro sono imprenditori e boiardi di stato (dove esiste un settore di capitalismo di stato), nonché, limitatamente alla possibilità di disporre del prodotto del lavoro, i "ricchi" (per l'appunto) cioè, oggi come oggi, in primo luogo la finanza. Ne dispongono, ma non mi sembra che la creino (se non in quanto certi imprenditori lavorano anche loro, ma questo è un altro discorso): Fonte della ricchezza (cosa diversa dalla destinazione finale della ricchezza, di cui sopra) sono in tutta evidenza la natura ed il lavoro. L'organizzazione del lavoro oggi - come sottolinei giustamente tu - è quella dell'impresa capitalistica (per cui mette capo appunto alla "ricchezza" - almeno potenziale - dell'imprenditore) ma nulla vieta di organizzarsi per lavorare in una logica diversa da quella dell'azienda, ed arricchire tutti anziché pochi.
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