
[Una graditissima ‘coda’ alla serie di Benfante su vita, morte e trasfigurazione dei generi letterari che abbiamo pubblicato tra il 2016 e il 2018. Le puntate precedenti sono: Pericolo Giallo - 29/11/2016; Solo per i tuoi occhi - 10/1/2017; Mary per sempre 7/2/2017; La lezione è finita 14/3/2017; Ma un giorno, cara stella 4/4/2017; Non capisco perché tutti quanti continuano – insistentemente – a chiamarlo ‘Graphic Novel’ - 4/7/2017; Il cappello noir 7/11/2017; Viene avanti il cretino - 6/2/2018; Un sacco di astronavi in questa libreria - 10/7/2018; Non ho l’età - 12/9/2018 e Dopo l’Uomo Ombra -12/10/ 2018 ]
“È mai possibile creare esseri umani solo scrivendone? E che genere di esistenza è la loro? Shakespeare aveva saputo la notizia della morte di Duncan in una taverna o aveva udito bussare alla porta della sua camera da letto subito dopo aver terminato il Macbeth?”
Graham Greene, Il nostro agente all’Avana
A un certo punto - invero piuttosto precoce - della mia modesta carriera di lettore mi sono trovato pienamente d’accordo con l’opinione sferzante del Mr. Pond di Chesterton:
“Ho sempre trovato i racconti spionistici il più noioso tra tutti i generi di narrativa poliziesca, e nel corso delle mie modeste ricerche nel campo della modesta letteratura dell’omicidio, li evito costantemente” (1).
Ovviamente, questo impietoso quanto generico parere dell’ineffabile Mr. Pond è da ascrivere alla categoria dei paradossi, di cui il personaggio chestertoniano è un singolare e contraddittorio campione. Ovvero a quelle verità un po’ bizzarre che sembrano in lampante contrapposizione col buon senso, l’esperienza comune e i principi basilari della logica, ma che, se sottoposte a un’analisi critica, risultano essenzialmente valide e vere.
Qualcuno potrebbe chiedersi come possano sembrare tediose certe storie avvincenti, aggrovigliate e misteriose, piene di suspense e di emozioni forti, di missioni rocambolesche e mozzafiato, di meraviglie tecnologiche e veneri al fulmicotone, di fascino e seduzione, di pericolo, violenza, eccezionale ardimento.
William Somerset Maugham pensava, al contrario, che la noia riguardasse piuttosto il lavoro reale della spia, e non quello che lo scrittore doveva riadattarvi ad arte per farlo sembrare più appetibile e accettabile ai lettori:
“Il lavoro di un agente del Servizio Informazioni, o Intelligence, è nel complesso quanto mai monotono. In buona parte è di una straordinaria inutilità. Il materiale che offre per un racconto è scucito e infecondo: tocca all’autore renderlo coerente, drammatico e probabile” (2).
Tocca all’autore, è il suo mestiere. E tocca anche alla sensibilità e alla disponibilità del lettore. Se a qualcuno i racconti spionistici potranno sembrare soporiferi, ad altri sembreranno invece entusiasmanti. Tutto dipende da chi li consuma. Talvolta da chi li produce, e soprattutto da come si consumano e si producono.
In realtà, per quanto riguarda la mia personale apatia, si trattava di un mero pregiudizio che non ha retto a più vaste e approfondite letture. Con tutto il rispetto per le sottigliezze di Mr. Pond e gli aforismi di Mr. Chesterton, o viceversa, il genere spionistico ha una sua specifica autonomia e soprattutto una notevole importanza. Cioè un’innegabile dignità letteraria.
Va da sé che al suo interno annoveri roba pessima, mediocre oppure pregevolissima, come sempre accade in ogni tipo di letteratura.
Ma nel complesso si tratta di un genere di grande interesse, di cui mi appresto volentieri a fare un elogio e un’analisi (ancorché non sistematica e non specialistica).
Si può anche convenire sul fatto che racconto di spionaggio e racconto poliziesco abbiano diversi tratti in comune, insieme a fondamentali divergenze, e che si possano perfino intendere come cugini di primo grado.
Fin dagli esordi del detective-novel, d’altronde, Dupin (in modo più distaccato) e soprattutto Sherlock Holmes si cimentano brillantemente in intrighi spionistici o para-spionistici.
Quasi tutti i grandi giallisti, d’altronde, si sono confrontati più o meno episodicamente con la spy-story: da Edgar Wallace ad Agatha Christie, da John Dickson Carr a Erle Stanley Gardner, da Donald E. Westlake a Ellery Queen, da Mignon G. Eberhart allo stesso Chesterton e così via con rare eccezioni.
Innegabilmente, nella spy-story si sviluppa una componente di investigazione che non è da considerare del tutto secondaria, anche se non è il vero motore della narrazione e dell’intrattenimento.
Tuttavia a me pare che la narrativa spionistica partecipi piuttosto del filone avventuroso e abbia radici molto antiche.
Senza regredire fino ai miti greci - dove peraltro può reperirsi ogni cosa - ne trovo traccia, per esempio, nella Gerusalemme liberata (1559-1581) di Torquato Tasso. In particolare nel personaggio di Vafrino:
“ A l’esercito avverso eletto in spia,
già dechinando il sol, partì Vafrino;
e corse oscura e solitaria via
notturno e sconosciuto peregrino”
(Canto diciannovesimo, LVII)
Vafrino, protagonista di un cameo novellistico nell’ambito del poema, è un campione di arguzia e spirito di osservazione, dotato di singolari virtù di simulazione e di estroversione. È poliglotta, diplomatico, astuto. Sa farsi piacere, è simpatico, sa cavarsi d’impiccio con rapido senso pratico.
È un personaggio tipico della commedia cinquecentesca, della cui spavalderia e improntitudine resteranno scorie fin nel racconto popolare moderno.
Se faccio ancora ricorso alle mie esperienze di lettore, trovo verosimile che la figura dell’agente segreto con licenza di uccidere si trovi già bell’e fatta ne I tre moschettieri (1844) di Alexandre Dumas. Una spia e un killer agli ordini di Richelieu è infatti, ancorché ante litteram, la perfida Milady de Winter, con la sua laconica e aberrante concessione cardinalizia:
“È per mio ordine e per il bene dello stato che il latore della presente ha fatto quello che ha fatto”.
È la terribile “ragion di stato”, che dai tempi della monarchia assoluta si protrae fino a quelli della “guerra fredda” e all’attuale neo-protezionismo.
Ma già nel 1821 James Fenimore Cooper, con La spia, aveva dato la stura, nei modi del romanzo storico, al genere. E con esso alla figura stessa della spia, conferendole alcuni tratti caratteristici: la sua insanabile diversità e separatezza, la sua solitudine irredimibile, la sua romantica malinconia, l’ambiguità della sua condizione sospesa tra eroismo e infamia, patriottismo e tradimento.
Secondo Laura Grimaldi e Marco Tropea, curatori dell’antologia Gli eroi dell’ombra ( Mondadori, 1981), la prima vera spy-story è The Riddle of the Sands (1903) di Erskine Childers, storia di una casuale esplorazione marittima che sventa un progetto di invasione tedesca dell’Inghilterra.
Passano appena quattro anni e già nel 1907 con L’agente segreto di Joseph Conrad si raggiunge una vetta pressoché ineguagliabile, dando vita a un prototipo che contiene in sé la negazione del genere stesso e anticipa esiti narrativi demistificanti che saranno propri di autori come Ambler, Greene o Le Carrè.
Con Mr. Verloc, la spia, fin quasi al suo apparire in veste ufficiale, è subito un impostore che si autoproduce, un fingitore che si è perfettamente adattato ai nonsensi di un mondo di segreti e bugie, inganni e millanterie.
L’intuizione di Conrad risiede nell’equivoco pseudo-scientifico rappresentato dal Meridiano di Greenwich (“Il feticcio sacrosanto del nostro tempo è la scienza”), il cui Osservatorio londinese, insidiato da ipotetiche bombe anarchiche, funziona in chiave terroristica come un simbolo mitopoietico.
È la rivoluzione industriale e l’era delle invenzioni scientifiche, di cui occorre tutelare i brevetti e i proventi, ad alimentare il nuovo genere letterario spionistico. Genere che agli inizi si confonde con il racconto bellico e naturalmente trova nelle guerre il suo carburante fondamentale.
La matrice avventurosa tende progressivamente a sbiadirsi e subentra un protocollo statolatrico di asettica brutalità.
Umberto Eco nel saggio “Le strutture narrative in Fleming” (3) accosta James Bond a Mike Hammer, rilevando per “almeno due elementi caratteristici” (abbastanza comuni peraltro a tutta la letteratura d’appendice) una corrispondenza tra Ian Fleming e Mickey Spillane. Vi sono sostanziali differenze, certo, ma Fleming si muove parzialmente nel solco dell’hard boiled e ne accentua anzi le semplificazioni psicologiche. Bond esegue le sue micidiali missioni con un cinismo più burocratico e senza particolari turbamenti interiori. È una macchina per uccidere (o per amare) il cui doppio zero funziona come la licenza pre-assolutoria e convertibile di Richelieu.
La spia può essere anche amabile e seducente, ma il suo statuto è ambivalente: da un lato è lo straniero sotto mentite spoglie, il nemico, il traditore, l’ebreo; dall’altro è il braccio operativo di una pratica d’ufficio, di un iter amministrativo dagli impietosi e cruenti risvolti.
Questa biforcazione tende peraltro a unificarsi: chiunque non solo può essere, ma di fatto è, l’altro, l’infiltrato, il diverso. Il Caso (o il Fato) governa questa dialettica di inclusione/esclusione. E la violenza è insita nel processo burocratico medesimo, nel suo ridurre la complessità del mondo e dell’esperienza morale a dossier, a schedario, a cifrario. A pratica da assolvere (in tutti i sensi) e archiviare.
È peraltro uno sviluppo che travalica l’ambito letterario e in generale della fiction, investendo la realtà nella sua accezione più concreta e immediata; invadendo la dimensione quotidiana, soprattutto in tempi di fantasmizzazione telematica.
Che la burocrazia sia letale non è soltanto un’iperbole retorica.
Tuttavia, lungi dall’essere distrutta dalla sua prosaicizzazione fattuale, l’immagine mediatica della spia assurge a forma emblematica e suadente delle ambiguità contemporanee e del carattere inafferrabile delle sue fenomenologie burocratiche e fiscali in senso lato. Rappresenta cioè il volto affascinante ed eslege dello squallore ufficiale della norma e quello rassicurante dell’inquietudine per l’essenza inesprimibile del Potere.
La spia che un tempo era perturbante e/o fatale (come Dreyfus e Mata Hari) assume le funzioni di garante supremo dell’ordine mondiale, cioè di uno status quo che tende a eternarsi.
In questo senso mi pare particolarmente rilevante un’osservazione di Hans Magnus Enzensberger:
“Come si spiega il fatto che, del tutto all’opposto di altri apparati burocratici, come gli uffici delle imposte, i servizi segreti affascinino il pubblico? Perché tanta gente è convinta che la loro vita quotidiana presenti rischi e avventure, e perché guardano alla loro attività con un misto di brivido e di piacere? Questo lo dobbiamo all’instancabile zelo con cui i media li ossequiano. Titoli a caratteri cubitali, copertine, innumerevoli film e romanzi vivono sull’invenzione di leggende simili. In questo senso non si può comunque non riconoscere ai servizi un certo valore, perché in ogni caso vivacizzano la situazione. In compenso giova il fatto che il segreto, proprio come la famosa formula che sta a cuore alle spie perché pare che solo da loro dipenda la salvezza, viene di solito semplicemente affermato. Ciò non riduce il tasso d’intrattenimento delle fiction. Il più acuto autore di questo genere, John Le Carré, sapeva per quale motivo aveva chiamato Circus il quartier generale del suo gruppo. Persino le parodie, nelle quali un certo James Bond prendeva in giro l’intero mondo degli agenti, per il pubblico si sono dimostrate indistruttibili magneti”. (4)
Alla letteratura spionistica è spesso accaduto un disguido che è intrinseco alla sua stessa natura. Si tratta di un equivoco che Graham Greene ha evidenziato in un celebre qui pro quo nel suo romanzo Il terzo uomo.
Lo scrittore Rollo Martins, autore di racconti western che narrano le gesta dell’eroico Buck Dexter, invitato a tenere una conferenza nella disastrata Vienna post-bellica, viene scambiato per il ben più autorevole Benjamin Dexter, il cui stile “è stato messo sullo stesso piano di Henry James” (5).
Il malinteso ovviamente produce una situazione di imbarazzo dagli effetti piuttosto comici, non diversamente da certi altri scambi e fraintendimenti che ricorrono nei film di Hitchcock, ma con implicazioni meno importanti sullo svolgimento della trama.
L’equivoco del “terzo uomo”, basato su una sorta di spuria omonimia, serve qui a chiarire un più generale travisamento: il racconto di spionaggio, con i suoi intrighi politici e il suo primato dell’azione violenta, i suoi risvolti erotici e superomistici, il suo narcisismo edonistico, spesso somiglia molto a certa narrativa popolare, di massa, come si diceva un tempo, tanto da poterlo scambiare per essa, da poter confondere i generi e livelli. Ma è sostanzialmente tutt’altra cosa. Nei sui esempi migliori è piuttosto un tipo di racconto esistenzialista, con più o meno implicite derivazioni psicologiche, filosofiche e perfino teologiche. Un racconto che ha al suo centro l’uomo, il “fattore umano”, l’oneroso “fardello della segretezza” (6) e delle sue insicurezze, sovraccarico com’è delle fondamentali questioni morali, a partire dai dilemmi etico-politici sulle discrasie tra individuo e Stato, Legge e Potere, nazionalismo e cosmopolitismo.
Eroe e antieroe, il suo protagonista non è l’uomo (o meglio, il semidio) super-addestrato e specializzato, dotato di capacità straordinarie e di poteri quasi soprannaturali, bensì l’uomo comune e insignificante, casualmente incappato in un meccanismo ineludibile, in una fatale trappola per topi.
La spy-story, quindi, articola un discorso sulla fragilità della persona, sulla sua vulnerabilità e impotenza in un mondo pervicacemente ostile e incomprensibile di imboscate e tradimenti trasversali.
Ai suoi livelli più significativi, la letteratura spionistica è sempre una perlustrazione tremebonda dei mali della storia, le insidie della società, gli inesplicabili giochi (immancabilmente truccati) del potere.
Un “viaggio nella paura”, insomma, per usare il titolo di un bel romanzo di Eric Ambler. Una catabasi nell’incubo. Con la sensazione opprimente, scrive Ambler, di essere “un uomo solo, trasportato in una terra sconosciuta, con la morte per frontiera” (7).
La solitudine della spia (che spesso è costretta suo malgrado a essere tale) implica una sua non appartenenza a qualsivoglia schieramento. Un suo robinsoniano naufragio fuori dal mondo. Se facesse davvero parte di qualcosa, non sarebbe sola. La spia è essenzialmente apolide, benché al servizio, temporaneo o stabile, di uno stato e di una nazione. Non è in discussione la sua fedeltà o lealtà alla causa o alla bandiera, bensì un’intrinseca e intima comunione con alcunché di collettivo e plurale. La spia è sempre l’altro, l’alieno, l’anomalo, il diverso. La sua disappartenenza è in primo luogo culturale e soprattutto linguistica. Il piano della sua esistenza è infatti incomunicabile. Ciò spiega la sua frequente poliglossia, la sua versatilità espressiva. La spia comprende e usa molte lingue proprio perché non riesce a comunicare la sua esperienza interiore, non riesce a stabilire un autentico contatto, se non nelle forme di per sé infide di un codice cifrato.
L’agente segreto non appartiene, peraltro, nemmeno a se stesso. Costretto a indossare sempre una maschera, e una maschera sulla maschera, in un’eterna finzione mimetica, ha infine smarrito il suo stesso volto. Tanto che si riconosce talora negli altri, soprattutto se morti, e s’intravede, come in controluce, in certe facce sgualcite, angosciate e tristi. In una sorta di Ecce Homo e nella sua passione.
Ridotto a una fuorviante trasparenza, la spia si guarda ciecamente allo specchio, come a chiedergli una conferma da opporre alla sua inesistenza, e indugia a farvi smorfie di autodenigrazione, come il Wormond di Graham Greene (8).
È una condizione pirandelliana di smarrimento e di crisi interiore che nasce dal suo essere frequentemente umiliato dal potere che lo tiene in pugno e che in ogni istante può stritolarlo sotto il proprio tallone d’acciaio.
Anche quando si inventa da sé e inventa il mondo del suo spionaggio, come l’oblomovista Verloc di Conrad, l’uomo inutile e improduttivo che sfrutta le sue meschine fandonie, o come il nostro agente all’Avana di Greene, l’uomo vuoto che galleggia nel suo puerile fannullismo, la spia rimane succube della sua visionaria immaginazione, di questi suoi ipotetici personaggi che crescono nell’ombra autonomamente e acquisiscono un’esistenza minacciosa e destabilizzante.
Succede dunque che egli provi un senso di sgomento di fronte alla propria irrealtà, alla sua apparente e fin quasi spiritica interazione col mondo.
“A volte gli capitava di trovarsi di fronte alla propria immagine come un uomo si trova di fronte a una vallata deserta”, scrive John Le Carrè (9). E in questo deserto gli tocca fuggire disperatamente, correndo incontro al nemico, e “abdicare alla propria coscienza per scoprire Dio”.
C’è in ogni spia una vocazione al martirio, un annullamento di sé scandito da una liturgia inflessibile e da una fede spietata, talora nichilista.
Dalla scomparsa dell’io a quella di Dio il passo, si sa, è breve. E tuttavia, l’uno e l’altro risorgono incessantemente, con caparbia ostinazione.
Lo Stato assoluto, il Leviatano, non può mai sbarazzarsi completamente dell’uomo, dell’individuo. Proprio come la spia, benché abilmente travestita e occultata, non può mai sfuggire all’occhio di Dio. Soprattutto se si tratta di un occhio interno.
A leggerla tra le righe, la migliore narrativa spionistica risulta un genere ad alta gradazione metafisica. Il tema religioso vi è spesso implicito. E talora, come in Greene, è uno dei temi portanti.
Per quanto devotamente al servizio del Re e della Patria, in ossequio micidiale della più nascoste ed esecrabili istituzioni, la spia, per intima elezione, resta tuttavia una figura anarchica e inaffidabile, sempre alla ricerca di una più sacra verità che possa dare un senso autentico alla sua meccanica e aberrante esistenza.
Un burattinesco Don Giovanni, insomma, in acrobatico equilibrio tra botole e capestri. E un Sisifo/Superman ciclicamente alle prese con la missione impossibile di salvare il pianeta dall’apocalisse.
Il che, in ultima analisi, fa della spy-story un genere che tende a sublimarsi nel fiabesco e nel cavalleresco. Un genere tendenzialmente irrealistico e fantastico, in cui la missione dello scrittore (poiché, come scrisse W. Somerset Maugham, la “realtà è una novelliera mediocre”) è quella di trasformare la noia inconcludente della routine spionistica in una distillata angoscia esistenziale.
1. Gilbert Keith Chesterton, I paradossi di Mr. Pond, Milano, Valiardi-Garzanti, 1994, traduzione di Manuela Giasi, p. 145
2. William Somerset Maugham, Ashenden o l’agente inglese, Gedi, Roma, 2019, traduzione di Franco Salvatorelli, p. 8
3. In Umberto Eco, Il superuomo di massa, Milano, Bompiani 1976 (Tascabili Bompiani 1978), p. 145.
4. Hans Magnus Enzensberger, “Cosmic Secret” in Panoptcon. Venti saggi da leggere in dieci minuti, Torino, Einaudi, 2019, traduzione di Palma Severi, pp. 104-105
5. Graham Greene, Il terzo uomo, Milano, Mondadori (Oscar), 1971, traduzione di Gabriele Baldini, p. 51
6. Graham Greene, Il fattore umano, Palermo, Sellerio, 2020, traduzione di Adriana Bottini, p. 203
7. Eric Ambler, Viaggio nella paura, Adelphi, Milano, 2015, traduzione di Mariagrazia Gini, p. 135
8. In Graham Greene, Il nostro agente all’avana, Milano, Mondadori (Oscar), 1965, traduzione di Bruno Oddera, p. 42
9. John Le Carrè, Lo specchio delle spie, Milano, Rizzoli (BUR), 1981, traduzione di Adriana Pellegrini, p. 112
“È mai possibile creare esseri umani solo scrivendone? E che genere di esistenza è la loro? Shakespeare aveva saputo la notizia della morte di Duncan in una taverna o aveva udito bussare alla porta della sua camera da letto subito dopo aver terminato il Macbeth?”
Graham Greene, Il nostro agente all’Avana
A un certo punto - invero piuttosto precoce - della mia modesta carriera di lettore mi sono trovato pienamente d’accordo con l’opinione sferzante del Mr. Pond di Chesterton:
“Ho sempre trovato i racconti spionistici il più noioso tra tutti i generi di narrativa poliziesca, e nel corso delle mie modeste ricerche nel campo della modesta letteratura dell’omicidio, li evito costantemente” (1).
Ovviamente, questo impietoso quanto generico parere dell’ineffabile Mr. Pond è da ascrivere alla categoria dei paradossi, di cui il personaggio chestertoniano è un singolare e contraddittorio campione. Ovvero a quelle verità un po’ bizzarre che sembrano in lampante contrapposizione col buon senso, l’esperienza comune e i principi basilari della logica, ma che, se sottoposte a un’analisi critica, risultano essenzialmente valide e vere.
Qualcuno potrebbe chiedersi come possano sembrare tediose certe storie avvincenti, aggrovigliate e misteriose, piene di suspense e di emozioni forti, di missioni rocambolesche e mozzafiato, di meraviglie tecnologiche e veneri al fulmicotone, di fascino e seduzione, di pericolo, violenza, eccezionale ardimento.
William Somerset Maugham pensava, al contrario, che la noia riguardasse piuttosto il lavoro reale della spia, e non quello che lo scrittore doveva riadattarvi ad arte per farlo sembrare più appetibile e accettabile ai lettori:
“Il lavoro di un agente del Servizio Informazioni, o Intelligence, è nel complesso quanto mai monotono. In buona parte è di una straordinaria inutilità. Il materiale che offre per un racconto è scucito e infecondo: tocca all’autore renderlo coerente, drammatico e probabile” (2).
Tocca all’autore, è il suo mestiere. E tocca anche alla sensibilità e alla disponibilità del lettore. Se a qualcuno i racconti spionistici potranno sembrare soporiferi, ad altri sembreranno invece entusiasmanti. Tutto dipende da chi li consuma. Talvolta da chi li produce, e soprattutto da come si consumano e si producono.
In realtà, per quanto riguarda la mia personale apatia, si trattava di un mero pregiudizio che non ha retto a più vaste e approfondite letture. Con tutto il rispetto per le sottigliezze di Mr. Pond e gli aforismi di Mr. Chesterton, o viceversa, il genere spionistico ha una sua specifica autonomia e soprattutto una notevole importanza. Cioè un’innegabile dignità letteraria.
Va da sé che al suo interno annoveri roba pessima, mediocre oppure pregevolissima, come sempre accade in ogni tipo di letteratura.
Ma nel complesso si tratta di un genere di grande interesse, di cui mi appresto volentieri a fare un elogio e un’analisi (ancorché non sistematica e non specialistica).
Si può anche convenire sul fatto che racconto di spionaggio e racconto poliziesco abbiano diversi tratti in comune, insieme a fondamentali divergenze, e che si possano perfino intendere come cugini di primo grado.
Fin dagli esordi del detective-novel, d’altronde, Dupin (in modo più distaccato) e soprattutto Sherlock Holmes si cimentano brillantemente in intrighi spionistici o para-spionistici.
Quasi tutti i grandi giallisti, d’altronde, si sono confrontati più o meno episodicamente con la spy-story: da Edgar Wallace ad Agatha Christie, da John Dickson Carr a Erle Stanley Gardner, da Donald E. Westlake a Ellery Queen, da Mignon G. Eberhart allo stesso Chesterton e così via con rare eccezioni.
Innegabilmente, nella spy-story si sviluppa una componente di investigazione che non è da considerare del tutto secondaria, anche se non è il vero motore della narrazione e dell’intrattenimento.
Tuttavia a me pare che la narrativa spionistica partecipi piuttosto del filone avventuroso e abbia radici molto antiche.
Senza regredire fino ai miti greci - dove peraltro può reperirsi ogni cosa - ne trovo traccia, per esempio, nella Gerusalemme liberata (1559-1581) di Torquato Tasso. In particolare nel personaggio di Vafrino:
“ A l’esercito avverso eletto in spia,
già dechinando il sol, partì Vafrino;
e corse oscura e solitaria via
notturno e sconosciuto peregrino”
(Canto diciannovesimo, LVII)
Vafrino, protagonista di un cameo novellistico nell’ambito del poema, è un campione di arguzia e spirito di osservazione, dotato di singolari virtù di simulazione e di estroversione. È poliglotta, diplomatico, astuto. Sa farsi piacere, è simpatico, sa cavarsi d’impiccio con rapido senso pratico.
È un personaggio tipico della commedia cinquecentesca, della cui spavalderia e improntitudine resteranno scorie fin nel racconto popolare moderno.
Se faccio ancora ricorso alle mie esperienze di lettore, trovo verosimile che la figura dell’agente segreto con licenza di uccidere si trovi già bell’e fatta ne I tre moschettieri (1844) di Alexandre Dumas. Una spia e un killer agli ordini di Richelieu è infatti, ancorché ante litteram, la perfida Milady de Winter, con la sua laconica e aberrante concessione cardinalizia:
“È per mio ordine e per il bene dello stato che il latore della presente ha fatto quello che ha fatto”.
È la terribile “ragion di stato”, che dai tempi della monarchia assoluta si protrae fino a quelli della “guerra fredda” e all’attuale neo-protezionismo.
Ma già nel 1821 James Fenimore Cooper, con La spia, aveva dato la stura, nei modi del romanzo storico, al genere. E con esso alla figura stessa della spia, conferendole alcuni tratti caratteristici: la sua insanabile diversità e separatezza, la sua solitudine irredimibile, la sua romantica malinconia, l’ambiguità della sua condizione sospesa tra eroismo e infamia, patriottismo e tradimento.
Secondo Laura Grimaldi e Marco Tropea, curatori dell’antologia Gli eroi dell’ombra ( Mondadori, 1981), la prima vera spy-story è The Riddle of the Sands (1903) di Erskine Childers, storia di una casuale esplorazione marittima che sventa un progetto di invasione tedesca dell’Inghilterra.
Passano appena quattro anni e già nel 1907 con L’agente segreto di Joseph Conrad si raggiunge una vetta pressoché ineguagliabile, dando vita a un prototipo che contiene in sé la negazione del genere stesso e anticipa esiti narrativi demistificanti che saranno propri di autori come Ambler, Greene o Le Carrè.
Con Mr. Verloc, la spia, fin quasi al suo apparire in veste ufficiale, è subito un impostore che si autoproduce, un fingitore che si è perfettamente adattato ai nonsensi di un mondo di segreti e bugie, inganni e millanterie.
L’intuizione di Conrad risiede nell’equivoco pseudo-scientifico rappresentato dal Meridiano di Greenwich (“Il feticcio sacrosanto del nostro tempo è la scienza”), il cui Osservatorio londinese, insidiato da ipotetiche bombe anarchiche, funziona in chiave terroristica come un simbolo mitopoietico.
È la rivoluzione industriale e l’era delle invenzioni scientifiche, di cui occorre tutelare i brevetti e i proventi, ad alimentare il nuovo genere letterario spionistico. Genere che agli inizi si confonde con il racconto bellico e naturalmente trova nelle guerre il suo carburante fondamentale.
La matrice avventurosa tende progressivamente a sbiadirsi e subentra un protocollo statolatrico di asettica brutalità.
Umberto Eco nel saggio “Le strutture narrative in Fleming” (3) accosta James Bond a Mike Hammer, rilevando per “almeno due elementi caratteristici” (abbastanza comuni peraltro a tutta la letteratura d’appendice) una corrispondenza tra Ian Fleming e Mickey Spillane. Vi sono sostanziali differenze, certo, ma Fleming si muove parzialmente nel solco dell’hard boiled e ne accentua anzi le semplificazioni psicologiche. Bond esegue le sue micidiali missioni con un cinismo più burocratico e senza particolari turbamenti interiori. È una macchina per uccidere (o per amare) il cui doppio zero funziona come la licenza pre-assolutoria e convertibile di Richelieu.
La spia può essere anche amabile e seducente, ma il suo statuto è ambivalente: da un lato è lo straniero sotto mentite spoglie, il nemico, il traditore, l’ebreo; dall’altro è il braccio operativo di una pratica d’ufficio, di un iter amministrativo dagli impietosi e cruenti risvolti.
Questa biforcazione tende peraltro a unificarsi: chiunque non solo può essere, ma di fatto è, l’altro, l’infiltrato, il diverso. Il Caso (o il Fato) governa questa dialettica di inclusione/esclusione. E la violenza è insita nel processo burocratico medesimo, nel suo ridurre la complessità del mondo e dell’esperienza morale a dossier, a schedario, a cifrario. A pratica da assolvere (in tutti i sensi) e archiviare.
È peraltro uno sviluppo che travalica l’ambito letterario e in generale della fiction, investendo la realtà nella sua accezione più concreta e immediata; invadendo la dimensione quotidiana, soprattutto in tempi di fantasmizzazione telematica.
Che la burocrazia sia letale non è soltanto un’iperbole retorica.
Tuttavia, lungi dall’essere distrutta dalla sua prosaicizzazione fattuale, l’immagine mediatica della spia assurge a forma emblematica e suadente delle ambiguità contemporanee e del carattere inafferrabile delle sue fenomenologie burocratiche e fiscali in senso lato. Rappresenta cioè il volto affascinante ed eslege dello squallore ufficiale della norma e quello rassicurante dell’inquietudine per l’essenza inesprimibile del Potere.
La spia che un tempo era perturbante e/o fatale (come Dreyfus e Mata Hari) assume le funzioni di garante supremo dell’ordine mondiale, cioè di uno status quo che tende a eternarsi.
In questo senso mi pare particolarmente rilevante un’osservazione di Hans Magnus Enzensberger:
“Come si spiega il fatto che, del tutto all’opposto di altri apparati burocratici, come gli uffici delle imposte, i servizi segreti affascinino il pubblico? Perché tanta gente è convinta che la loro vita quotidiana presenti rischi e avventure, e perché guardano alla loro attività con un misto di brivido e di piacere? Questo lo dobbiamo all’instancabile zelo con cui i media li ossequiano. Titoli a caratteri cubitali, copertine, innumerevoli film e romanzi vivono sull’invenzione di leggende simili. In questo senso non si può comunque non riconoscere ai servizi un certo valore, perché in ogni caso vivacizzano la situazione. In compenso giova il fatto che il segreto, proprio come la famosa formula che sta a cuore alle spie perché pare che solo da loro dipenda la salvezza, viene di solito semplicemente affermato. Ciò non riduce il tasso d’intrattenimento delle fiction. Il più acuto autore di questo genere, John Le Carré, sapeva per quale motivo aveva chiamato Circus il quartier generale del suo gruppo. Persino le parodie, nelle quali un certo James Bond prendeva in giro l’intero mondo degli agenti, per il pubblico si sono dimostrate indistruttibili magneti”. (4)
Alla letteratura spionistica è spesso accaduto un disguido che è intrinseco alla sua stessa natura. Si tratta di un equivoco che Graham Greene ha evidenziato in un celebre qui pro quo nel suo romanzo Il terzo uomo.
Lo scrittore Rollo Martins, autore di racconti western che narrano le gesta dell’eroico Buck Dexter, invitato a tenere una conferenza nella disastrata Vienna post-bellica, viene scambiato per il ben più autorevole Benjamin Dexter, il cui stile “è stato messo sullo stesso piano di Henry James” (5).
Il malinteso ovviamente produce una situazione di imbarazzo dagli effetti piuttosto comici, non diversamente da certi altri scambi e fraintendimenti che ricorrono nei film di Hitchcock, ma con implicazioni meno importanti sullo svolgimento della trama.
L’equivoco del “terzo uomo”, basato su una sorta di spuria omonimia, serve qui a chiarire un più generale travisamento: il racconto di spionaggio, con i suoi intrighi politici e il suo primato dell’azione violenta, i suoi risvolti erotici e superomistici, il suo narcisismo edonistico, spesso somiglia molto a certa narrativa popolare, di massa, come si diceva un tempo, tanto da poterlo scambiare per essa, da poter confondere i generi e livelli. Ma è sostanzialmente tutt’altra cosa. Nei sui esempi migliori è piuttosto un tipo di racconto esistenzialista, con più o meno implicite derivazioni psicologiche, filosofiche e perfino teologiche. Un racconto che ha al suo centro l’uomo, il “fattore umano”, l’oneroso “fardello della segretezza” (6) e delle sue insicurezze, sovraccarico com’è delle fondamentali questioni morali, a partire dai dilemmi etico-politici sulle discrasie tra individuo e Stato, Legge e Potere, nazionalismo e cosmopolitismo.
Eroe e antieroe, il suo protagonista non è l’uomo (o meglio, il semidio) super-addestrato e specializzato, dotato di capacità straordinarie e di poteri quasi soprannaturali, bensì l’uomo comune e insignificante, casualmente incappato in un meccanismo ineludibile, in una fatale trappola per topi.
La spy-story, quindi, articola un discorso sulla fragilità della persona, sulla sua vulnerabilità e impotenza in un mondo pervicacemente ostile e incomprensibile di imboscate e tradimenti trasversali.
Ai suoi livelli più significativi, la letteratura spionistica è sempre una perlustrazione tremebonda dei mali della storia, le insidie della società, gli inesplicabili giochi (immancabilmente truccati) del potere.
Un “viaggio nella paura”, insomma, per usare il titolo di un bel romanzo di Eric Ambler. Una catabasi nell’incubo. Con la sensazione opprimente, scrive Ambler, di essere “un uomo solo, trasportato in una terra sconosciuta, con la morte per frontiera” (7).
La solitudine della spia (che spesso è costretta suo malgrado a essere tale) implica una sua non appartenenza a qualsivoglia schieramento. Un suo robinsoniano naufragio fuori dal mondo. Se facesse davvero parte di qualcosa, non sarebbe sola. La spia è essenzialmente apolide, benché al servizio, temporaneo o stabile, di uno stato e di una nazione. Non è in discussione la sua fedeltà o lealtà alla causa o alla bandiera, bensì un’intrinseca e intima comunione con alcunché di collettivo e plurale. La spia è sempre l’altro, l’alieno, l’anomalo, il diverso. La sua disappartenenza è in primo luogo culturale e soprattutto linguistica. Il piano della sua esistenza è infatti incomunicabile. Ciò spiega la sua frequente poliglossia, la sua versatilità espressiva. La spia comprende e usa molte lingue proprio perché non riesce a comunicare la sua esperienza interiore, non riesce a stabilire un autentico contatto, se non nelle forme di per sé infide di un codice cifrato.
L’agente segreto non appartiene, peraltro, nemmeno a se stesso. Costretto a indossare sempre una maschera, e una maschera sulla maschera, in un’eterna finzione mimetica, ha infine smarrito il suo stesso volto. Tanto che si riconosce talora negli altri, soprattutto se morti, e s’intravede, come in controluce, in certe facce sgualcite, angosciate e tristi. In una sorta di Ecce Homo e nella sua passione.
Ridotto a una fuorviante trasparenza, la spia si guarda ciecamente allo specchio, come a chiedergli una conferma da opporre alla sua inesistenza, e indugia a farvi smorfie di autodenigrazione, come il Wormond di Graham Greene (8).
È una condizione pirandelliana di smarrimento e di crisi interiore che nasce dal suo essere frequentemente umiliato dal potere che lo tiene in pugno e che in ogni istante può stritolarlo sotto il proprio tallone d’acciaio.
Anche quando si inventa da sé e inventa il mondo del suo spionaggio, come l’oblomovista Verloc di Conrad, l’uomo inutile e improduttivo che sfrutta le sue meschine fandonie, o come il nostro agente all’Avana di Greene, l’uomo vuoto che galleggia nel suo puerile fannullismo, la spia rimane succube della sua visionaria immaginazione, di questi suoi ipotetici personaggi che crescono nell’ombra autonomamente e acquisiscono un’esistenza minacciosa e destabilizzante.
Succede dunque che egli provi un senso di sgomento di fronte alla propria irrealtà, alla sua apparente e fin quasi spiritica interazione col mondo.
“A volte gli capitava di trovarsi di fronte alla propria immagine come un uomo si trova di fronte a una vallata deserta”, scrive John Le Carrè (9). E in questo deserto gli tocca fuggire disperatamente, correndo incontro al nemico, e “abdicare alla propria coscienza per scoprire Dio”.
C’è in ogni spia una vocazione al martirio, un annullamento di sé scandito da una liturgia inflessibile e da una fede spietata, talora nichilista.
Dalla scomparsa dell’io a quella di Dio il passo, si sa, è breve. E tuttavia, l’uno e l’altro risorgono incessantemente, con caparbia ostinazione.
Lo Stato assoluto, il Leviatano, non può mai sbarazzarsi completamente dell’uomo, dell’individuo. Proprio come la spia, benché abilmente travestita e occultata, non può mai sfuggire all’occhio di Dio. Soprattutto se si tratta di un occhio interno.
A leggerla tra le righe, la migliore narrativa spionistica risulta un genere ad alta gradazione metafisica. Il tema religioso vi è spesso implicito. E talora, come in Greene, è uno dei temi portanti.
Per quanto devotamente al servizio del Re e della Patria, in ossequio micidiale della più nascoste ed esecrabili istituzioni, la spia, per intima elezione, resta tuttavia una figura anarchica e inaffidabile, sempre alla ricerca di una più sacra verità che possa dare un senso autentico alla sua meccanica e aberrante esistenza.
Un burattinesco Don Giovanni, insomma, in acrobatico equilibrio tra botole e capestri. E un Sisifo/Superman ciclicamente alle prese con la missione impossibile di salvare il pianeta dall’apocalisse.
Il che, in ultima analisi, fa della spy-story un genere che tende a sublimarsi nel fiabesco e nel cavalleresco. Un genere tendenzialmente irrealistico e fantastico, in cui la missione dello scrittore (poiché, come scrisse W. Somerset Maugham, la “realtà è una novelliera mediocre”) è quella di trasformare la noia inconcludente della routine spionistica in una distillata angoscia esistenziale.
1. Gilbert Keith Chesterton, I paradossi di Mr. Pond, Milano, Valiardi-Garzanti, 1994, traduzione di Manuela Giasi, p. 145
2. William Somerset Maugham, Ashenden o l’agente inglese, Gedi, Roma, 2019, traduzione di Franco Salvatorelli, p. 8
3. In Umberto Eco, Il superuomo di massa, Milano, Bompiani 1976 (Tascabili Bompiani 1978), p. 145.
4. Hans Magnus Enzensberger, “Cosmic Secret” in Panoptcon. Venti saggi da leggere in dieci minuti, Torino, Einaudi, 2019, traduzione di Palma Severi, pp. 104-105
5. Graham Greene, Il terzo uomo, Milano, Mondadori (Oscar), 1971, traduzione di Gabriele Baldini, p. 51
6. Graham Greene, Il fattore umano, Palermo, Sellerio, 2020, traduzione di Adriana Bottini, p. 203
7. Eric Ambler, Viaggio nella paura, Adelphi, Milano, 2015, traduzione di Mariagrazia Gini, p. 135
8. In Graham Greene, Il nostro agente all’avana, Milano, Mondadori (Oscar), 1965, traduzione di Bruno Oddera, p. 42
9. John Le Carrè, Lo specchio delle spie, Milano, Rizzoli (BUR), 1981, traduzione di Adriana Pellegrini, p. 112
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