
Lo scritto che pubblichiamo qui di seguito è intitolato Ritornare a Marx. È stato recuperato scartabellando tra documenti, carte e libri conservati alla rinfusa e di cui avevamo quasi perso traccia. Strano destino quello di questo testo, destinato più volte all’oblio, e che invece continua periodicamente a circolare. Vale la pena allora ripercorrerne la genesi, visto che esso è il frutto singolare di un’elaborazione collettiva che, pur risalendo oramai a più di quindici anni fa, mantiene intatta una certa originalità e una significativa attualità.
Tra il 2001 e il 2003 un piccolo gruppo di attivisti e attiviste decide a Palermo di dedicarsi alla lettura e allo studio del primo libro de Il Capitale. Si dà pure un nome, Collettivo di fabbricato, evocando ironicamente la pellicola di Wolfgang Becker Good Bye Lenin: forse perché in quel gruppo c’era qualcuno particolarmente affezionato alla Berlino dei tempi andati, o forse perché già allora la vittoria del capitalismo suscitava quel sentimento, un misto di rabbia e rassegnazione che, dopo l’annessione della DDR, l’Anschluss, è stato definito Ostalgie.
Il Collettivo di fabbricato si proponeva di affiancare lo studio e l’elaborazione teorica all’impegno militante, coniugando, per così dire, teoria e prassi. Al contempo costituiva uno spazio di elaborazione teorica al di fuori dei tradizionali circuiti culturali accademici e dell’establishment, anche quello di sinistra.Anzi, la sua stessa esistenza si configurava implicitamente come una critica, radicale e spietata, a quei luoghi dell’elaborazione del sapere, in primis l’università, che già allora manifestavano quei segni di imbalsamata sclerosi e mummificata inutilità e immobilismo oggigiorno diventati scandalosamente evidenti.
Il collettivo si riuniva ogni due settimane nelle case dei vari componenti, si discuteva un capitolo alla volta, periodicamente ci si dedicava alla lettura di testi critici, e di volta in volta si decideva come proseguire. Quella dei seminari autogestiti era una pratica che era già stata abbondantemente sperimentata negli anni ’90 nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, a partire dal movimento della Pantera. Per anni vennero strutturati cicli di seminari, che talvolta riportavano lo stesso nome delle materie ufficiali, che spesso erano più frequentati dei corsi universitari stessi e il più delle volte anche più interessanti. Si trattava di sperimentare forme di produzione e circolazione del sapere nuove, che mettessero in discussione l’autorità dell'istituzione universitaria e dessero vita a pratiche dialogiche. In quegli anni i testi dell’ecologia della mente, la filosofia poststrutturalista, il pensiero della differenza e l’epistemologia critica, tenuti rigidamente a distanza dai programmi universitari, divennero patrimonio comune di diverse generazioni di studenti e attivisti.
Il Collettivo di fabbricato utilizzò quella metodologia con un testo che sentivamo essere assolutamente vivo. Il Capitale, in quegli anni più che mai, era avvolto, però, da una doppia aurea di ereticità e sacralità. Era necessario, allora, sottrarre quel testo alla doppia morsa che vedeva da un lato i teorici della fine della storia ansiosi di metterlo al bando, dall’altro i nostalgici dell’esperienza sovietica proporne una lettura dogmatica e reducista. Questo testo rappresenta un tentativo di ritornare a Marx, per comprendere le linee di fuga possibili da un presente letto nella sua determinazione storica, per comprendere cioè la natura conflittuale anche del nostro sistema sociale, tutt’altro che pacificato.
La natura corsara di quell’esperienza non impedì, tuttavia, agli estensori del piccolo saggio che pubblichiamo in due puntate, di essere invitati a un convegno di studi che si tenne alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo il 19 e il 20 Maggio del 2003, intitolato “Marx e la filosofia: rivisitazioni e prospettive”. Questo testo fu scritto in occasione di quel convegno. Vale la pena ricordare che quella partecipazione fu oggetto in qualche modo di scandalo e ampie controversie tra gli organizzatori. La partecipazione non comparve in nessun documento o locandina, i relatori non furono invitati al pranzo ufficiale e, addirittura, furono fatti dei tentativi per non fare leggere la relazione che, ovviamente, non fu inclusa nella pubblicazione che ne seguì. Poco male, il Collettivo di fabbricato pubblicò in 10 copie un opuscoletto autoprodotto, certi che la diffusione non si sarebbe fermata. Nella quarta di copertina era riportata la foto del gruppo (dalla quale era stato cancellato con photoshop l’organizzatore del convegno) e in esergo si riportavano queste righe:
Questo testo è un fantasma.
La sua apparizione è
dovuta alla sua scomparsa.
Queste pagine erano state scritte
come una cosa triviale, ovvia.
Ma la loro pubblicazione è risultata
una cosa imbrogliatissima,
piena di sottigliezza metafisica
e di capricci teologici.
Ma nel suo oblio questo testo
continua a disseminare effetti ottici.
Ogni nuova apparizione comporta
una scomparsa inedita.
Eguale ed opposta.
Ci piace ricordare, in ordine rigorosamente alfabetico, oramai a più di quindici anni di distanza dalla conclusione di quell’esperienza, coloro che vi presero parte e l’immutato legame di amicizia e di affetto reciproco che ancora li lega: Marco Assennato, Loriana Cavaleri, Totò Cavaleri, Giovanni Di Benedetto, Sandro Gulì, Marcella Maisano. (T .C., G. D. B.)
RITORNARE A MARX
1. Ritornare in francese si dice revenir, revenant è il fantasma. Marx è il fantasma. Nel Mariageforcé di Moliére, il filosofo Pancrazio è il personaggio contrario al matrimonio, che viene escluso, ricacciato in un angolo. Ma egli ritorna sempre, egli è il revenant che continua ad opporsi, a dire no, fino a quando non appare, nella scena finale, come un fantasma. Leggere Marx significa leggere i testi di un fantasma, l’espressione di un pensiero dopo la fine, la fine del suo esser stato pensato, agito, esperito.
Non si può recidere il nesso inestricabile di teoria e effetti della teoria che ormai sono diventati storia effettiva (Wirkungen effetti che si sono fatti Wirklichkeit realtà). E tuttavia, è una realtà, combattuta, rimossa, forse sconfitta e in alcuni casi tramontata. Che cosa allora possiamo leggere? Possiamo andare alla cosa stessa, al testo. Quel che noi leggiamo è il testo e quasi non possiamo esimerci dal confronto, perché noi siamo quel testo e noi ne siamo una parte di senso.
Il testo di Marx potrebbe essere, in questo senso, un superstite. In latino ci sono due modi di dire testimone: uno è testis, da terstis, colui che è terzo in una lite tra contendenti e l’altro è superstes, colui che ha vissuto qualcosa, ha visto e può rendere testimonianza. In questo senso il testo di Marx è oggi un superstite.
È possibile, allora, provocare il testo di Marx, oggi? Chiamarlo in causa, come superstes, testimone di un processo che molti vorrebbero chiuso ma che è ancora in corso? Si può leggerlo, mettendolo in discussione?
Probabilmente non è più possibile, né tanto meno utile, leggere il testo di Marx continuando a rivestirlo dell’aura rivelatrice e didascalica da cui spesso è stato avvolto. Possiamo ipotizzare, però, che insieme alle radicali trasformazioni che hanno attraversato la nostra società nell’ultimo secolo, sia mutato contemporaneamente anche il ruolo che lo stesso testo di Marx può trovarsi a rivestire. Forse si tratta di smettere di interrogare Marx per iniziare a farci interrogare da lui. Non possiamo aspettarci, quindi, che Marx direttamente ci indichi e ci descriva gli odierni conflitti ed i soggetti che li compongono, d’altro canto però proprio la lettura della sua opera risulta un invito fondamentale ad interrogarci noi stessi sui conflitti, i soggetti e le categorie attraverso cui interpretarli.
L’invito da raccogliere è allora quello di continuare ad investigare sulle forme e sul ruolo che assumono nel nostro contesto l’economia, la produzione, il lavoro ed il conflitto. Questo invito è tanto più pressante poiché da più parti sentiamo oggi parlare di fine del lavoro, uscita dalla società del lavoro, fine dell’economia politica, metamorfosi del lavoro [1], ecc. Ma proprio questa necessità diffusa di abbandonare o superare determinate categorie ci fa pensare che la critica dell’economia politica sia ancora un ambito di ricerca dal quale non è possibile prescindere. Anzi, proprio perché nella nostra società la sfera dell’economico è in continua trasformazione, riteniamo importante ritornare allo studioso che più di ogni altro ne ha disvelato l’importanza e descritto il mutamento.
Questo invito, del resto, lo fa esplicitamente lo stesso Marx, in un celebre passo dell’Introduzione del ’57 dei Grundrisse, in cui ci esorta, nelle nostre analisi, a tenere in considerazione i contesti più generali e ci invita a riconsiderare il ruolo stesso della struttura economica nel suo divenire storico: “Le questioni sollevate sopra si riducono tutte in ultima istanza al modo in cui le condizioni storiche generali incidono sulla produzione e al rapporto che questa ha con il movimento storico in genere. La questione rientra evidentemente nella discussione e nell’analisi della produzione stessa.”[2] Questo passo risulta ancora più importante se si va a leggere poco più avanti: “Il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell’ambito di un’unità. La produzione assume l’egemonia tanto su se stessa, nella sua determinazione antitetica, quanto sugli altri momenti.”[3]
Marx ci dice che è necessario analizzare gli elementi di un sistema come parti di un tutto, leggere la loro dipendenza reciproca analizzando i rapporti di egemonia, inquadrare il tutto nel contesto storico più generale. Ed è proprio questo che noi dobbiamo ascoltare: riteniamo, infatti, che per comprendere le trasformazioni dell’economia non possiamo esimerci dall’analizzare il rapporto in continuo divenire che passa tra produzione, distribuzione, scambio, consumo e tutti gli altri elementi che caratterizzano il contesto generale. Ed ecco, allora, che si tratta di insistere, di allargare, di riconoscere la connessione, di andare oltre ogni fenomeno considerato in maniera singolare; si tratta di spostare, mutare fino a spezzare le catene dell’isolamento e raggiungere un’immagine esplicativa.
Marx non descrive il rapporto tra struttura economica ed organizzazione sociale semplicisticamente in termini di dipendenza lineare, quanto piuttosto mira a vedere come elementi economici fondino direttamente il sociale, ovvero in che modo i rapporti sociali sono mediati da essi. Per questo la merce, il denaro ed il lavoro sono sempre astratti dal loro valore d’uso e analizzati come forme, forme del rapporto sociale. Nella provocatoria visione del Capitale, ad esempio, tutto comincia con la merce, con un piccolo e oscuro oggetto triviale, il quale però, nella sua apparente semplicità, cela addirittura una connessione di elementi e di rapporti.
Marx analizza il carattere di «feticcio» della merce, vale a dire il fatto che la dimensione sociale, che è propria del lavoro umano, appare solamente come dimensione della merce: le merci diventano tali perché sono prodotti del lavoro, l’insieme dei lavori costituisce il lavoro sociale complessivo, i produttori, però, entrano in contatto sociale, solamente mediante lo scambio di prodotti. Quindi, le relazioni private di questi lavori appaiono non come rapporti immediatamente sociali fra persone, ma come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose. “A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che essa soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. (…) Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. (…) L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose.”[4]
Tener dentro l’idea di considerare oggi il pensiero di un fantasma è anche accostarsi problematicamente all’intreccio di visibilità e di invisibilità, di apparenza e di manifestazione, di cose e fenomeni che il testo ci ha offerto. Ancora nel Capitale, nel capitolo dedicato a La cosiddetta accumulazione originaria, Marx afferma: “Il lino ha sempre l’aspetto di prima. Non ne è cambiata nessuna fibra, ma gli è entrata in corpo una nuova anima sociale.”[5]
La fruttuosa visione gioca sull’apparente nascosto, laddove Marx allarga il semplice, lo mette in relazione, affinché l’oggetto scelto si componga in una visione nuova. La conoscenza materialistica è conoscenza che fa prender corpo e anima agli oggetti. Questa è la contraddizione operante nel testo. Marx insiste sull’oggetto, lo agguanta, lo spinge al di là della sua stessa vita fino a quando esso non trova la sua disposizione. Uno dei fini di questa insistenza è la dissoluzione dei contesti di accecamento, la possibilità di disvelare i nessi, insistere per far ex-sistere, portare a esistenza, dar corpo e voce all’implicito, al singolare, all’apparente in quiete, negare la possibilità di uno stato di quiete originario e naturale per marcare la relazione, la negazione.
Si tratti di dimostrare l’enigma del feticcio della merce, si tratti di smascherare il meccanismo della riproduzione semplice, dal momento che è divenuto invisibile, Marx tenta, energicamente, di ricostruire il visibile o l’evidente contro l’abbagliamento che rende ciechi. Si tratta di vedere là dove non si vede, di guardare con un colpo d’occhio là dove l’occhio è cieco. “Quindi l’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio.”[6] Se non ci si rende conto di questo, allora la merce-tavolo resta quel che non è, una semplice cosa. La merce è triviale,essa fa capricci teologici e sottigliezze metafisiche. La merce, il lino, diventano sovrasensibili e per comprenderli ci vuole una visione-costruzione. “Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo del nervo ottico stesso ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio.”[7] La contraddizione, questo scarto intangibile fra visibile e sovrasensibile, diventa importante per suscitare, per allargare, in funzione di una superiore visione dei nessi. C’è lo specchio che è la forma merce ma d’un tratto non rinvia più l’immagine propria e quelli che la cercano non la trovano più. Non si troverà, quindi, una realtà vera, una pre-visione, una verità disvelata, ma il dispositivo della produzione di una logica e la possibile costruzione di una conoscenza trasformatrice. Lo speculare diventa il limite visibile di questa falsa naturalizzazione ma, anche, l’immanente necessità di svelare rende visibile il carattere coattivo della de-naturalizzazione.
2. Nel Manifesto del Partito Comunista Marx ed Engels scrivono: “Alla società borghese, con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentrerà una associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.”[8]Da quanto letto sembrerebbe emergere un punto di vista evoluzionista e deterministico: la contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive e l’assetto dei rapporti di produzione, secondo questa prospettiva, includerebbe necessariamente l’idea teleologica della naturale, diremmo quasi scontata, transizione dal capitalismo al comunismo. Nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica Marx scrive che “a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.”[9] Come se la teoria marxista, facendo propria la categoria di scopo finale, introducesse profeticamente la virtuale possibilità di pensare non solo il divenire della storia ma anche il suo compimento. Una considerazione analoga potrebbe emergere dall’analisi del capitolo XXIV del primo libro del Capitale dove il comunismo sembra configurarsi come la forma immanente dell’alternativa al capitalismo ed al suo paradigma dello sviluppo della produttività sociale. Il capitolo dedicato alla cosiddetta accumulazione originaria, in cui Marx ci offre un meraviglioso affresco del punto di partenza del modo di produzione capitalistico, fondato sulla conquista, il soggiogamento, l’assassinio e la rapina, e della derivazione di questo dalla società feudale, si chiude con il paragrafo intitolatoTendenza storica dell’accumulazione capitalistica. Scrive Marx in questa sezione: “Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.”[10] E ancora, qualche rigo più sotto: “la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione.”[11] Sulla base di quanto è stato appena scritto, e procedendo ad una lettura superficiale della teoria marxista, il capitalismo si configurerebbe come una condizione necessaria che presuppone il proprio completo dispiegarsi prima di essere a sua volta superato. In base a questa filosofia della storia, tutti i popoli, indipendentemente dalla situazione concreta nella quale si trovano, sarebbero destinanti a ripercorrere tutte le tappe evolutive che portano da un modo di produzione più arretrato ad un altro più sviluppato, con la necessità, però, di attraversarli tutti. Il comunismo sarebbe la risoluzione della contraddittorietà insita al capitale che da un lato produce la socializzazione delle forze produttive e dall’altro le assoggetta alle istanze della valorizzazione del capitale. Dentro questo contesto teorico, il lavoratore è oggetto di questa dinamica ma anche soggetto nella misura in cui è in grado di pervenire ad un livello di socializzazione prefigurante un più elevato modo di vita in comune.
Posto tutto questo, non è un caso però che Marx intitoli il paragrafo facendo riferimento ad una tendenza storica. Risulta infatti abbastanza agevole constatare come tutta l’opera di analisi dello studioso di Treviri non faccia che lavorare sulle tendenze contraddittorie di un processo storico, senza volerne necessariamente prefigurare lo sbocco finale. Non si tratta dunque di dare un contenuto positivo al futuro, né di pensare ad una forma determinata in cui si dà e si fa realtà una società liberata. Pensare in questi termini significherebbe presupporre che Marx, dotato di una particolare capacità visionaria, abbia potuto non solo pensare problemi che non appartenevano al suo tempo storico, ma che abbia anche avuto la capacità di anticiparne arbitrariamente la soluzione. Ma porre in questo modo i termini del problema, non significa forse chiedere a Marx l’impossibile? Eppure non si può negare che, ponendo la questione dell’interpretazione di Marx in questo senso, si sia riusciti non solo a mistificarne e demonizzarne il contenuto, ma anche a disinnescarne tutto il potenziale teorico di fecondità analitica ed euristica. Per andare al di là di un approccio che fa della teoria marxista una filosofia della storia, occorre dunque pensarla, per dirla con Althusser, come una teoria finita, ossia limitata all’analisi del modo di produzione capitalistico ed alle sue tendenze contraddittorie. Scrive Althusser: “l’idea che la teoria marxista è «finita» esclude totalmente l’idea che sia una teoria «chiusa». Chiusa è la filosofia della storia, giacché racchiude in sé e in anticipo tutto il corso della storia. Solo una teoria «finita» può essere realmente «aperta» alle tendenze contraddittorie che scopre nella società capitalistica, ed aperta al loro avvenire aleatorio, aperta alle imprevedibili sorprese che non hanno cessato di segnare la storia del movimento operaio.”[12] La ragione profonda per la quale nella teoria di Marx non c’è nessuna filosofia della storia che pretenda, attraverso il pensiero, di inglobare il fine e la fine del processo storico nel quale è situata l’umanità intera, risiede, probabilmente, nel modo stesso con cui Marx definisce il proprio metodo teorico. Il merito del metodo marxiano, infatti, consiste proprio nel riuscire a pensare in modo non lineare ma contraddittorio lo sviluppo economico e sociale della società, sviluppo che produce emancipazione dai vecchi vincoli da un lato e, nello stesso tempo, nuove forme di assoggettamento e di relazioni di potere.[13]
Marco Assennato
Loriana Cavaleri
Salvatore Cavaleri
Giovanni Di Benedetto
Sandro Gulì
Marcella Maisano
Note:
1. Queste espressioni si riferiscono rispettivamente a Jeremy Rifkin, La fine del lavoro, Baldini&Castoldi Milano, 1995, Pietro Barcellona, Il Capitale come puro spirito, Editori Riuniti, 1990, Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli Milano, 1979, Andrè Gorz, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri Torino, 1992.
2. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia Firenze, 1978, p.23.
3. K. Marx, Ibidem,p.25.
4. K. Marx, Il Capitale, Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti Roma, 1989, pp.103-104.
5. K. Marx, Ibidem, p.809.
6. K. Marx, Ibidem, p.125.
7. K. Marx, Ibidem,p.104.
8. K. Marx , F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Mursia Milano, 1987, p.69.
9. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti Roma, 1974, p.5.
10. K. Marx, Il Capitale, Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti Roma, 1989, p.826.
11. K. Marx, Ibidem,p.826.
12. L. Althusser, Il marxismo come teoria «finita», in Discutere lo Stato. Posizioni a confronto su una tesi di Louis Althusser, De Donato Bari, 1978, pp.8-9.
13. “La dimensione teoretica del suo approccio – il suo essere una teoria piuttosto che una filosofia della storia – ci suggerisce viceversa un altro modo di procedere, basato da un lato sulla costruzione di modelli formali in cui l’insieme viene analizzato solo come totalità sistemica autoriproducentesi e ogni soggettività «critica» viene eliminata, e dall’altro sulla costante verifica della capacità di tali modelli di «spiegare» eventi storici, dove al contrario entrano in gioco soggetti reali, potenzialmente dotati di consapevolezza e volontà idonee ad alterare le strutture entro cui la loro azione si sviluppa.” (A. Burgio, L. Cavallaro, Attualità di un Discorso in K. Marx, Discorso sul libero scambio, DeriveApprodi Roma, 2002, p.16).
Tra il 2001 e il 2003 un piccolo gruppo di attivisti e attiviste decide a Palermo di dedicarsi alla lettura e allo studio del primo libro de Il Capitale. Si dà pure un nome, Collettivo di fabbricato, evocando ironicamente la pellicola di Wolfgang Becker Good Bye Lenin: forse perché in quel gruppo c’era qualcuno particolarmente affezionato alla Berlino dei tempi andati, o forse perché già allora la vittoria del capitalismo suscitava quel sentimento, un misto di rabbia e rassegnazione che, dopo l’annessione della DDR, l’Anschluss, è stato definito Ostalgie.
Il Collettivo di fabbricato si proponeva di affiancare lo studio e l’elaborazione teorica all’impegno militante, coniugando, per così dire, teoria e prassi. Al contempo costituiva uno spazio di elaborazione teorica al di fuori dei tradizionali circuiti culturali accademici e dell’establishment, anche quello di sinistra.Anzi, la sua stessa esistenza si configurava implicitamente come una critica, radicale e spietata, a quei luoghi dell’elaborazione del sapere, in primis l’università, che già allora manifestavano quei segni di imbalsamata sclerosi e mummificata inutilità e immobilismo oggigiorno diventati scandalosamente evidenti.
Il collettivo si riuniva ogni due settimane nelle case dei vari componenti, si discuteva un capitolo alla volta, periodicamente ci si dedicava alla lettura di testi critici, e di volta in volta si decideva come proseguire. Quella dei seminari autogestiti era una pratica che era già stata abbondantemente sperimentata negli anni ’90 nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, a partire dal movimento della Pantera. Per anni vennero strutturati cicli di seminari, che talvolta riportavano lo stesso nome delle materie ufficiali, che spesso erano più frequentati dei corsi universitari stessi e il più delle volte anche più interessanti. Si trattava di sperimentare forme di produzione e circolazione del sapere nuove, che mettessero in discussione l’autorità dell'istituzione universitaria e dessero vita a pratiche dialogiche. In quegli anni i testi dell’ecologia della mente, la filosofia poststrutturalista, il pensiero della differenza e l’epistemologia critica, tenuti rigidamente a distanza dai programmi universitari, divennero patrimonio comune di diverse generazioni di studenti e attivisti.
Il Collettivo di fabbricato utilizzò quella metodologia con un testo che sentivamo essere assolutamente vivo. Il Capitale, in quegli anni più che mai, era avvolto, però, da una doppia aurea di ereticità e sacralità. Era necessario, allora, sottrarre quel testo alla doppia morsa che vedeva da un lato i teorici della fine della storia ansiosi di metterlo al bando, dall’altro i nostalgici dell’esperienza sovietica proporne una lettura dogmatica e reducista. Questo testo rappresenta un tentativo di ritornare a Marx, per comprendere le linee di fuga possibili da un presente letto nella sua determinazione storica, per comprendere cioè la natura conflittuale anche del nostro sistema sociale, tutt’altro che pacificato.
La natura corsara di quell’esperienza non impedì, tuttavia, agli estensori del piccolo saggio che pubblichiamo in due puntate, di essere invitati a un convegno di studi che si tenne alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo il 19 e il 20 Maggio del 2003, intitolato “Marx e la filosofia: rivisitazioni e prospettive”. Questo testo fu scritto in occasione di quel convegno. Vale la pena ricordare che quella partecipazione fu oggetto in qualche modo di scandalo e ampie controversie tra gli organizzatori. La partecipazione non comparve in nessun documento o locandina, i relatori non furono invitati al pranzo ufficiale e, addirittura, furono fatti dei tentativi per non fare leggere la relazione che, ovviamente, non fu inclusa nella pubblicazione che ne seguì. Poco male, il Collettivo di fabbricato pubblicò in 10 copie un opuscoletto autoprodotto, certi che la diffusione non si sarebbe fermata. Nella quarta di copertina era riportata la foto del gruppo (dalla quale era stato cancellato con photoshop l’organizzatore del convegno) e in esergo si riportavano queste righe:
Questo testo è un fantasma.
La sua apparizione è
dovuta alla sua scomparsa.
Queste pagine erano state scritte
come una cosa triviale, ovvia.
Ma la loro pubblicazione è risultata
una cosa imbrogliatissima,
piena di sottigliezza metafisica
e di capricci teologici.
Ma nel suo oblio questo testo
continua a disseminare effetti ottici.
Ogni nuova apparizione comporta
una scomparsa inedita.
Eguale ed opposta.
Ci piace ricordare, in ordine rigorosamente alfabetico, oramai a più di quindici anni di distanza dalla conclusione di quell’esperienza, coloro che vi presero parte e l’immutato legame di amicizia e di affetto reciproco che ancora li lega: Marco Assennato, Loriana Cavaleri, Totò Cavaleri, Giovanni Di Benedetto, Sandro Gulì, Marcella Maisano. (T .C., G. D. B.)
RITORNARE A MARX
1. Ritornare in francese si dice revenir, revenant è il fantasma. Marx è il fantasma. Nel Mariageforcé di Moliére, il filosofo Pancrazio è il personaggio contrario al matrimonio, che viene escluso, ricacciato in un angolo. Ma egli ritorna sempre, egli è il revenant che continua ad opporsi, a dire no, fino a quando non appare, nella scena finale, come un fantasma. Leggere Marx significa leggere i testi di un fantasma, l’espressione di un pensiero dopo la fine, la fine del suo esser stato pensato, agito, esperito.
Non si può recidere il nesso inestricabile di teoria e effetti della teoria che ormai sono diventati storia effettiva (Wirkungen effetti che si sono fatti Wirklichkeit realtà). E tuttavia, è una realtà, combattuta, rimossa, forse sconfitta e in alcuni casi tramontata. Che cosa allora possiamo leggere? Possiamo andare alla cosa stessa, al testo. Quel che noi leggiamo è il testo e quasi non possiamo esimerci dal confronto, perché noi siamo quel testo e noi ne siamo una parte di senso.
Il testo di Marx potrebbe essere, in questo senso, un superstite. In latino ci sono due modi di dire testimone: uno è testis, da terstis, colui che è terzo in una lite tra contendenti e l’altro è superstes, colui che ha vissuto qualcosa, ha visto e può rendere testimonianza. In questo senso il testo di Marx è oggi un superstite.
È possibile, allora, provocare il testo di Marx, oggi? Chiamarlo in causa, come superstes, testimone di un processo che molti vorrebbero chiuso ma che è ancora in corso? Si può leggerlo, mettendolo in discussione?
Probabilmente non è più possibile, né tanto meno utile, leggere il testo di Marx continuando a rivestirlo dell’aura rivelatrice e didascalica da cui spesso è stato avvolto. Possiamo ipotizzare, però, che insieme alle radicali trasformazioni che hanno attraversato la nostra società nell’ultimo secolo, sia mutato contemporaneamente anche il ruolo che lo stesso testo di Marx può trovarsi a rivestire. Forse si tratta di smettere di interrogare Marx per iniziare a farci interrogare da lui. Non possiamo aspettarci, quindi, che Marx direttamente ci indichi e ci descriva gli odierni conflitti ed i soggetti che li compongono, d’altro canto però proprio la lettura della sua opera risulta un invito fondamentale ad interrogarci noi stessi sui conflitti, i soggetti e le categorie attraverso cui interpretarli.
L’invito da raccogliere è allora quello di continuare ad investigare sulle forme e sul ruolo che assumono nel nostro contesto l’economia, la produzione, il lavoro ed il conflitto. Questo invito è tanto più pressante poiché da più parti sentiamo oggi parlare di fine del lavoro, uscita dalla società del lavoro, fine dell’economia politica, metamorfosi del lavoro [1], ecc. Ma proprio questa necessità diffusa di abbandonare o superare determinate categorie ci fa pensare che la critica dell’economia politica sia ancora un ambito di ricerca dal quale non è possibile prescindere. Anzi, proprio perché nella nostra società la sfera dell’economico è in continua trasformazione, riteniamo importante ritornare allo studioso che più di ogni altro ne ha disvelato l’importanza e descritto il mutamento.
Questo invito, del resto, lo fa esplicitamente lo stesso Marx, in un celebre passo dell’Introduzione del ’57 dei Grundrisse, in cui ci esorta, nelle nostre analisi, a tenere in considerazione i contesti più generali e ci invita a riconsiderare il ruolo stesso della struttura economica nel suo divenire storico: “Le questioni sollevate sopra si riducono tutte in ultima istanza al modo in cui le condizioni storiche generali incidono sulla produzione e al rapporto che questa ha con il movimento storico in genere. La questione rientra evidentemente nella discussione e nell’analisi della produzione stessa.”[2] Questo passo risulta ancora più importante se si va a leggere poco più avanti: “Il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell’ambito di un’unità. La produzione assume l’egemonia tanto su se stessa, nella sua determinazione antitetica, quanto sugli altri momenti.”[3]
Marx ci dice che è necessario analizzare gli elementi di un sistema come parti di un tutto, leggere la loro dipendenza reciproca analizzando i rapporti di egemonia, inquadrare il tutto nel contesto storico più generale. Ed è proprio questo che noi dobbiamo ascoltare: riteniamo, infatti, che per comprendere le trasformazioni dell’economia non possiamo esimerci dall’analizzare il rapporto in continuo divenire che passa tra produzione, distribuzione, scambio, consumo e tutti gli altri elementi che caratterizzano il contesto generale. Ed ecco, allora, che si tratta di insistere, di allargare, di riconoscere la connessione, di andare oltre ogni fenomeno considerato in maniera singolare; si tratta di spostare, mutare fino a spezzare le catene dell’isolamento e raggiungere un’immagine esplicativa.
Marx non descrive il rapporto tra struttura economica ed organizzazione sociale semplicisticamente in termini di dipendenza lineare, quanto piuttosto mira a vedere come elementi economici fondino direttamente il sociale, ovvero in che modo i rapporti sociali sono mediati da essi. Per questo la merce, il denaro ed il lavoro sono sempre astratti dal loro valore d’uso e analizzati come forme, forme del rapporto sociale. Nella provocatoria visione del Capitale, ad esempio, tutto comincia con la merce, con un piccolo e oscuro oggetto triviale, il quale però, nella sua apparente semplicità, cela addirittura una connessione di elementi e di rapporti.
Marx analizza il carattere di «feticcio» della merce, vale a dire il fatto che la dimensione sociale, che è propria del lavoro umano, appare solamente come dimensione della merce: le merci diventano tali perché sono prodotti del lavoro, l’insieme dei lavori costituisce il lavoro sociale complessivo, i produttori, però, entrano in contatto sociale, solamente mediante lo scambio di prodotti. Quindi, le relazioni private di questi lavori appaiono non come rapporti immediatamente sociali fra persone, ma come rapporti materiali fra persone e rapporti sociali fra le cose. “A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che essa soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto di lavoro umano. (…) Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro appena assume forma di merce? Evidentemente, proprio da tale forma. (…) L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose.”[4]
Tener dentro l’idea di considerare oggi il pensiero di un fantasma è anche accostarsi problematicamente all’intreccio di visibilità e di invisibilità, di apparenza e di manifestazione, di cose e fenomeni che il testo ci ha offerto. Ancora nel Capitale, nel capitolo dedicato a La cosiddetta accumulazione originaria, Marx afferma: “Il lino ha sempre l’aspetto di prima. Non ne è cambiata nessuna fibra, ma gli è entrata in corpo una nuova anima sociale.”[5]
La fruttuosa visione gioca sull’apparente nascosto, laddove Marx allarga il semplice, lo mette in relazione, affinché l’oggetto scelto si componga in una visione nuova. La conoscenza materialistica è conoscenza che fa prender corpo e anima agli oggetti. Questa è la contraddizione operante nel testo. Marx insiste sull’oggetto, lo agguanta, lo spinge al di là della sua stessa vita fino a quando esso non trova la sua disposizione. Uno dei fini di questa insistenza è la dissoluzione dei contesti di accecamento, la possibilità di disvelare i nessi, insistere per far ex-sistere, portare a esistenza, dar corpo e voce all’implicito, al singolare, all’apparente in quiete, negare la possibilità di uno stato di quiete originario e naturale per marcare la relazione, la negazione.
Si tratti di dimostrare l’enigma del feticcio della merce, si tratti di smascherare il meccanismo della riproduzione semplice, dal momento che è divenuto invisibile, Marx tenta, energicamente, di ricostruire il visibile o l’evidente contro l’abbagliamento che rende ciechi. Si tratta di vedere là dove non si vede, di guardare con un colpo d’occhio là dove l’occhio è cieco. “Quindi l’enigma del feticcio denaro è soltanto l’enigma del feticcio merce divenuto visibile e che abbaglia l’occhio.”[6] Se non ci si rende conto di questo, allora la merce-tavolo resta quel che non è, una semplice cosa. La merce è triviale,essa fa capricci teologici e sottigliezze metafisiche. La merce, il lino, diventano sovrasensibili e per comprenderli ci vuole una visione-costruzione. “Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. Proprio come l’impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico non si presenta come stimolo del nervo ottico stesso ma quale forma oggettiva di una cosa al di fuori dell’occhio.”[7] La contraddizione, questo scarto intangibile fra visibile e sovrasensibile, diventa importante per suscitare, per allargare, in funzione di una superiore visione dei nessi. C’è lo specchio che è la forma merce ma d’un tratto non rinvia più l’immagine propria e quelli che la cercano non la trovano più. Non si troverà, quindi, una realtà vera, una pre-visione, una verità disvelata, ma il dispositivo della produzione di una logica e la possibile costruzione di una conoscenza trasformatrice. Lo speculare diventa il limite visibile di questa falsa naturalizzazione ma, anche, l’immanente necessità di svelare rende visibile il carattere coattivo della de-naturalizzazione.
2. Nel Manifesto del Partito Comunista Marx ed Engels scrivono: “Alla società borghese, con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe, subentrerà una associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno sarà la condizione del libero sviluppo di tutti.”[8]Da quanto letto sembrerebbe emergere un punto di vista evoluzionista e deterministico: la contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive e l’assetto dei rapporti di produzione, secondo questa prospettiva, includerebbe necessariamente l’idea teleologica della naturale, diremmo quasi scontata, transizione dal capitalismo al comunismo. Nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica Marx scrive che “a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale.”[9] Come se la teoria marxista, facendo propria la categoria di scopo finale, introducesse profeticamente la virtuale possibilità di pensare non solo il divenire della storia ma anche il suo compimento. Una considerazione analoga potrebbe emergere dall’analisi del capitolo XXIV del primo libro del Capitale dove il comunismo sembra configurarsi come la forma immanente dell’alternativa al capitalismo ed al suo paradigma dello sviluppo della produttività sociale. Il capitolo dedicato alla cosiddetta accumulazione originaria, in cui Marx ci offre un meraviglioso affresco del punto di partenza del modo di produzione capitalistico, fondato sulla conquista, il soggiogamento, l’assassinio e la rapina, e della derivazione di questo dalla società feudale, si chiude con il paragrafo intitolatoTendenza storica dell’accumulazione capitalistica. Scrive Marx in questa sezione: “Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.”[10] E ancora, qualche rigo più sotto: “la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione.”[11] Sulla base di quanto è stato appena scritto, e procedendo ad una lettura superficiale della teoria marxista, il capitalismo si configurerebbe come una condizione necessaria che presuppone il proprio completo dispiegarsi prima di essere a sua volta superato. In base a questa filosofia della storia, tutti i popoli, indipendentemente dalla situazione concreta nella quale si trovano, sarebbero destinanti a ripercorrere tutte le tappe evolutive che portano da un modo di produzione più arretrato ad un altro più sviluppato, con la necessità, però, di attraversarli tutti. Il comunismo sarebbe la risoluzione della contraddittorietà insita al capitale che da un lato produce la socializzazione delle forze produttive e dall’altro le assoggetta alle istanze della valorizzazione del capitale. Dentro questo contesto teorico, il lavoratore è oggetto di questa dinamica ma anche soggetto nella misura in cui è in grado di pervenire ad un livello di socializzazione prefigurante un più elevato modo di vita in comune.
Posto tutto questo, non è un caso però che Marx intitoli il paragrafo facendo riferimento ad una tendenza storica. Risulta infatti abbastanza agevole constatare come tutta l’opera di analisi dello studioso di Treviri non faccia che lavorare sulle tendenze contraddittorie di un processo storico, senza volerne necessariamente prefigurare lo sbocco finale. Non si tratta dunque di dare un contenuto positivo al futuro, né di pensare ad una forma determinata in cui si dà e si fa realtà una società liberata. Pensare in questi termini significherebbe presupporre che Marx, dotato di una particolare capacità visionaria, abbia potuto non solo pensare problemi che non appartenevano al suo tempo storico, ma che abbia anche avuto la capacità di anticiparne arbitrariamente la soluzione. Ma porre in questo modo i termini del problema, non significa forse chiedere a Marx l’impossibile? Eppure non si può negare che, ponendo la questione dell’interpretazione di Marx in questo senso, si sia riusciti non solo a mistificarne e demonizzarne il contenuto, ma anche a disinnescarne tutto il potenziale teorico di fecondità analitica ed euristica. Per andare al di là di un approccio che fa della teoria marxista una filosofia della storia, occorre dunque pensarla, per dirla con Althusser, come una teoria finita, ossia limitata all’analisi del modo di produzione capitalistico ed alle sue tendenze contraddittorie. Scrive Althusser: “l’idea che la teoria marxista è «finita» esclude totalmente l’idea che sia una teoria «chiusa». Chiusa è la filosofia della storia, giacché racchiude in sé e in anticipo tutto il corso della storia. Solo una teoria «finita» può essere realmente «aperta» alle tendenze contraddittorie che scopre nella società capitalistica, ed aperta al loro avvenire aleatorio, aperta alle imprevedibili sorprese che non hanno cessato di segnare la storia del movimento operaio.”[12] La ragione profonda per la quale nella teoria di Marx non c’è nessuna filosofia della storia che pretenda, attraverso il pensiero, di inglobare il fine e la fine del processo storico nel quale è situata l’umanità intera, risiede, probabilmente, nel modo stesso con cui Marx definisce il proprio metodo teorico. Il merito del metodo marxiano, infatti, consiste proprio nel riuscire a pensare in modo non lineare ma contraddittorio lo sviluppo economico e sociale della società, sviluppo che produce emancipazione dai vecchi vincoli da un lato e, nello stesso tempo, nuove forme di assoggettamento e di relazioni di potere.[13]
Marco Assennato
Loriana Cavaleri
Salvatore Cavaleri
Giovanni Di Benedetto
Sandro Gulì
Marcella Maisano
Note:
1. Queste espressioni si riferiscono rispettivamente a Jeremy Rifkin, La fine del lavoro, Baldini&Castoldi Milano, 1995, Pietro Barcellona, Il Capitale come puro spirito, Editori Riuniti, 1990, Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli Milano, 1979, Andrè Gorz, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri Torino, 1992.
2. K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia Firenze, 1978, p.23.
3. K. Marx, Ibidem,p.25.
4. K. Marx, Il Capitale, Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti Roma, 1989, pp.103-104.
5. K. Marx, Ibidem, p.809.
6. K. Marx, Ibidem, p.125.
7. K. Marx, Ibidem,p.104.
8. K. Marx , F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Mursia Milano, 1987, p.69.
9. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti Roma, 1974, p.5.
10. K. Marx, Il Capitale, Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti Roma, 1989, p.826.
11. K. Marx, Ibidem,p.826.
12. L. Althusser, Il marxismo come teoria «finita», in Discutere lo Stato. Posizioni a confronto su una tesi di Louis Althusser, De Donato Bari, 1978, pp.8-9.
13. “La dimensione teoretica del suo approccio – il suo essere una teoria piuttosto che una filosofia della storia – ci suggerisce viceversa un altro modo di procedere, basato da un lato sulla costruzione di modelli formali in cui l’insieme viene analizzato solo come totalità sistemica autoriproducentesi e ogni soggettività «critica» viene eliminata, e dall’altro sulla costante verifica della capacità di tali modelli di «spiegare» eventi storici, dove al contrario entrano in gioco soggetti reali, potenzialmente dotati di consapevolezza e volontà idonee ad alterare le strutture entro cui la loro azione si sviluppa.” (A. Burgio, L. Cavallaro, Attualità di un Discorso in K. Marx, Discorso sul libero scambio, DeriveApprodi Roma, 2002, p.16).
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