
Il contributo di Annibale Raineri, che qui di seguito pubblichiamo, nasce a commento delle discussioni spicciole e quotidiane, ma non per questo meno serie, che attraversano periodicamente il nostro collettivo redazionale, come peraltro, immaginiamo, qualsiasi soggetto collettivo. Per la sua portata, tuttavia, e per l’orizzonte più ampio di tematiche che arriva a toccare, lo abbiamo ritenuto meritevole di una proiezione pubblica, convinti come siamo che i nervi scoperti toccati dalle sue considerazioni riguardino tutti coloro che vogliono ripensare il rapporto tra dimensione della militanza personale e quella dell’impegno nella sfera politica e, per questa via, desiderano creare le premesse per la realizzazione del comunismo del XXI secolo.
«Posso entrare?»
«Certamente, la mia casa è la tua casa»
«Posso entrare?»
«Si, ma prima dimmi: –Chi ti ha dato l’indirizzo? Qual è lo scopo che ti porta a casa mia?»
Lea Melandri, commentando il dialogo fra Emanuela Fraire e Rossana Rossanda, in margine al bellissimo libro La perdita, cita lo psicoanalista Elvio Fachinelli:
(…) rovesciare la prospettiva (…). Non inibizione, rimozione, negazione (…). Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida. Verso ciò che si profila all’orizzonte. Nausicaa. Ulisse. Le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese.
Non è cosa da psicoanalisti, riguarda tutti noi, e riguarda la insignificanza della sinistra di fronte alle istanza di liberazione del/nel nostro tempo. Sono parole che vanno lette assieme al testamento spirituale di Luigi Pintor (Senza confini, il manifesto del 24 aprile 2003, diciotto anni fa!)
Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere un’opzione fra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione del mondo e dell’esistenza quotidiana. Non una bandiera e un’idealità ma una pratica di vita. Se la parte di umanità oggi dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne farebbe dell’uccisione e della soggezione di sé e dell’altro la regola e la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni continuità con questo versante inconciliabile.
Una internazionale, un’altra parola antica che andrebbe anch’essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un’organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d'istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste.
Le parole di Lea Melandri che cita Fachinelli riguardano esattamente le ultime parole di Pintor «Ora è un’area senza confine (…) il suo scopo è reinventare la vita», riguardano la necessità di rovesciare la prospettiva millenaria, di tale profondità è il rivolgimento necessario che ci indicava Luigi Pintor scrivendo: «Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento».
E riguardano la prospettiva politica, il comunismo, perché riguardano il nostro agire quotidiano: «Posso entrare?»
Conosco Ida da bambino; ho conosciuto Marco parecchi anni fa con Chiara ai tempi della Fata zucchina, e poi nel ciclo di incontri organizzati da Giovanni Caronia, mio antichissimo amico e compagno, sulla decrescita; più di recente ho conosciuto Alfonso e Giovanni, mi sono sembrate persone ricche, molto diverse dal residuo di veterocomunisti che ancora si attardano in qualche nicchia pseudopolitica. Persone ricche nel vivere la vita come ricerca, come apertura.
Ed ho conosciuto il vostro seminario, e Palermograd, un piccolo gruppo di compagni, uso questa parola con parsimonia, che ha ormai una vita lunga. Non è poca cosa nella desertificazione del nostro mondo.
Sono, tutte queste cose (individui, gruppo/i) frammenti di vita, la vita che non si arrende, ma che rinasce ogni volta, nonostante il deserto che cresce.
Ma la vita ha bisogno di essere curata per non morire. Vi dico dal mio cuore, il cuore di un vecchio compagno che non si arrende a cercare strade di liberazione: «Abbiate cura della vita, della vita che cresce, ma che può crescere solo nell’apertura e fiducia nell’altro».
Dico cura, ma cosa deve essere curato, cosa ne costituisce la sostanza? Individui/gruppi, cosa ne fa sostanza comune? Hannah Arendt e il pensiero femminista mi hanno insegnato che la sostanza comune – quel comune che spesso si cerca nel luogo sbagliato – sta nella relazione, verità pensata, ma insieme nascosta, in antiche riflessioni teologiche. Ed ecco allora il punto: se riusciamo a vedere nella relazione il centro a partire dal quale far vivere la dimensione sociale dell'essere umano, ciò che lo fa propriamente umano, l'immagine del mondo muta, e abbiamo un punto al quale ancorare le nostre pratiche, e l'agire trasformativo del nostro – di ciascuno di noi – essere nel mondo, anzitutto sentimentale.
La «situazione del tempo» ci costringe a prendere sul serio il testamento di Lenin, più di quanto egli stesso verosimilmente non abbia fatto (ma su chi era Lenin ci sono molte cose da scoprire, a partire dalla sua relazione con Inessa Armand, che ci ha raccontato Ritanna Armeni): le “questioni di carattere”, cioè le modalità strutturate di essere-nella-relazione (quella già esistente o quella che si apre, insito: «Posso entrare?») sono questioni politiche, rimandano alla relazione – micro e macro – di potere e specialmente ai suoi fantasmi (essenzialmente paranoici).
Impariamo allora a guardare dentro noi stessi, a chiederci ogni volta, quando ci esce da dentro una domanda, una irritazione, un sospetto: «Che cosa sto provando? Perché lo sto provando? Di cosa ho paura che mi riguarda intimamente? Riattiva antiche ferite nascoste al fondo del mio essere?» e parallelamente: «Cosa mi ferisce? Cosa ferisce l'altro?» Impariamo a guardare il volto dell’altro che abbiamo innanzi, a vedere le sue ferite, a vedere le ferite che gli impartiamo in nome della verità e della necessità di decidere subito (ma l’accelerazione del tempo e la emergenzialità non sono forse forme del dominio capitalistico contemporaneo cui dovremmo imparare a sottrarci? ricordate cosa imparò Marcos dalla resistenza secolare degli indios, in materia di percorsi decisori?)
Ognuno ha un proprio racconto, una sua verità, ma forse la prima verità da con-dividere non è "il merito": se anzitutto si parlasse del proprio sentire, ognuno che parla di e per sé, che espone sé. Ed accoglie il sentimento dell'altro, senza giudicarlo, semplicemente ascoltandolo. Con fiducia e generando fiducia nell'altro.
È questa un'opera di "bonifica del terreno", va fatta prima, prima di confrontarsi con le questioni di merito, in modo da lasciare al merito della questione la sua dimensione reale, che solo in questo quadro può essere trasformata. Altrimenti continueremo ad essere dominati da fantasmi, di cui purtroppo la storia del novecento ci ha dato ampi esempi e che tornano con forza nei nostri giorni.
Non c’è presente per la parola comunismo, senza queste pratiche e questa esperienza di trasformazione soggettiva che tenti, se siamo ancora in tempo, di far vivere la dimensione collettiva dell’essere umano.
«Posso entrare?»
«Certamente, la mia casa è la tua casa»
«Posso entrare?»
«Si, ma prima dimmi: –Chi ti ha dato l’indirizzo? Qual è lo scopo che ti porta a casa mia?»
Lea Melandri, commentando il dialogo fra Emanuela Fraire e Rossana Rossanda, in margine al bellissimo libro La perdita, cita lo psicoanalista Elvio Fachinelli:
(…) rovesciare la prospettiva (…). Non inibizione, rimozione, negazione (…). Dalla foresta appuntita delle difese non si esce. Ma invece accoglimento, accettazione, fiducia intrepida. Verso ciò che si profila all’orizzonte. Nausicaa. Ulisse. Le regge di Creta aperte verso il mare, senza difese.
Non è cosa da psicoanalisti, riguarda tutti noi, e riguarda la insignificanza della sinistra di fronte alle istanza di liberazione del/nel nostro tempo. Sono parole che vanno lette assieme al testamento spirituale di Luigi Pintor (Senza confini, il manifesto del 24 aprile 2003, diciotto anni fa!)
Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere un’opzione fra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione del mondo e dell’esistenza quotidiana. Non una bandiera e un’idealità ma una pratica di vita. Se la parte di umanità oggi dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne farebbe dell’uccisione e della soggezione di sé e dell’altro la regola e la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni continuità con questo versante inconciliabile.
Una internazionale, un’altra parola antica che andrebbe anch’essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un’organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d'istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un’area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste.
Le parole di Lea Melandri che cita Fachinelli riguardano esattamente le ultime parole di Pintor «Ora è un’area senza confine (…) il suo scopo è reinventare la vita», riguardano la necessità di rovesciare la prospettiva millenaria, di tale profondità è il rivolgimento necessario che ci indicava Luigi Pintor scrivendo: «Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento».
E riguardano la prospettiva politica, il comunismo, perché riguardano il nostro agire quotidiano: «Posso entrare?»
Conosco Ida da bambino; ho conosciuto Marco parecchi anni fa con Chiara ai tempi della Fata zucchina, e poi nel ciclo di incontri organizzati da Giovanni Caronia, mio antichissimo amico e compagno, sulla decrescita; più di recente ho conosciuto Alfonso e Giovanni, mi sono sembrate persone ricche, molto diverse dal residuo di veterocomunisti che ancora si attardano in qualche nicchia pseudopolitica. Persone ricche nel vivere la vita come ricerca, come apertura.
Ed ho conosciuto il vostro seminario, e Palermograd, un piccolo gruppo di compagni, uso questa parola con parsimonia, che ha ormai una vita lunga. Non è poca cosa nella desertificazione del nostro mondo.
Sono, tutte queste cose (individui, gruppo/i) frammenti di vita, la vita che non si arrende, ma che rinasce ogni volta, nonostante il deserto che cresce.
Ma la vita ha bisogno di essere curata per non morire. Vi dico dal mio cuore, il cuore di un vecchio compagno che non si arrende a cercare strade di liberazione: «Abbiate cura della vita, della vita che cresce, ma che può crescere solo nell’apertura e fiducia nell’altro».
Dico cura, ma cosa deve essere curato, cosa ne costituisce la sostanza? Individui/gruppi, cosa ne fa sostanza comune? Hannah Arendt e il pensiero femminista mi hanno insegnato che la sostanza comune – quel comune che spesso si cerca nel luogo sbagliato – sta nella relazione, verità pensata, ma insieme nascosta, in antiche riflessioni teologiche. Ed ecco allora il punto: se riusciamo a vedere nella relazione il centro a partire dal quale far vivere la dimensione sociale dell'essere umano, ciò che lo fa propriamente umano, l'immagine del mondo muta, e abbiamo un punto al quale ancorare le nostre pratiche, e l'agire trasformativo del nostro – di ciascuno di noi – essere nel mondo, anzitutto sentimentale.
La «situazione del tempo» ci costringe a prendere sul serio il testamento di Lenin, più di quanto egli stesso verosimilmente non abbia fatto (ma su chi era Lenin ci sono molte cose da scoprire, a partire dalla sua relazione con Inessa Armand, che ci ha raccontato Ritanna Armeni): le “questioni di carattere”, cioè le modalità strutturate di essere-nella-relazione (quella già esistente o quella che si apre, insito: «Posso entrare?») sono questioni politiche, rimandano alla relazione – micro e macro – di potere e specialmente ai suoi fantasmi (essenzialmente paranoici).
Impariamo allora a guardare dentro noi stessi, a chiederci ogni volta, quando ci esce da dentro una domanda, una irritazione, un sospetto: «Che cosa sto provando? Perché lo sto provando? Di cosa ho paura che mi riguarda intimamente? Riattiva antiche ferite nascoste al fondo del mio essere?» e parallelamente: «Cosa mi ferisce? Cosa ferisce l'altro?» Impariamo a guardare il volto dell’altro che abbiamo innanzi, a vedere le sue ferite, a vedere le ferite che gli impartiamo in nome della verità e della necessità di decidere subito (ma l’accelerazione del tempo e la emergenzialità non sono forse forme del dominio capitalistico contemporaneo cui dovremmo imparare a sottrarci? ricordate cosa imparò Marcos dalla resistenza secolare degli indios, in materia di percorsi decisori?)
Ognuno ha un proprio racconto, una sua verità, ma forse la prima verità da con-dividere non è "il merito": se anzitutto si parlasse del proprio sentire, ognuno che parla di e per sé, che espone sé. Ed accoglie il sentimento dell'altro, senza giudicarlo, semplicemente ascoltandolo. Con fiducia e generando fiducia nell'altro.
È questa un'opera di "bonifica del terreno", va fatta prima, prima di confrontarsi con le questioni di merito, in modo da lasciare al merito della questione la sua dimensione reale, che solo in questo quadro può essere trasformata. Altrimenti continueremo ad essere dominati da fantasmi, di cui purtroppo la storia del novecento ci ha dato ampi esempi e che tornano con forza nei nostri giorni.
Non c’è presente per la parola comunismo, senza queste pratiche e questa esperienza di trasformazione soggettiva che tenti, se siamo ancora in tempo, di far vivere la dimensione collettiva dell’essere umano.
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