
IL FRONTE CULTURALE
PICCOLE CITTÀ NON SCHERZANO
Gli anni Settanta secondo Vanessa Roghi
di Gilda Terranova 22 gennaio 2019
PICCOLE CITTÀ NON SCHERZANO
Gli anni Settanta secondo Vanessa Roghi
di Gilda Terranova 22 gennaio 2019
Suo padre ha “una storia comune condivisa dalla sua generazione”. Lui fa la politica come gli altri maschi mentre Lei, sua madre, fa il femminismo con le sue amiche. Sono “storie di ieri”, degli anni Settanta. A raccontarcele è Vanessa Roghi che, quando le cose accadono a lei, dice che non sa come raccontarle e per questo fa la storica, per “raccontare le cose che accadono agli altri”.
Per fortuna mente, o almeno fa un’eccezione virtuosa a questa regola e decide, aiutata dalla distanza, che una “sua” storia la deve raccontare: quella dell’arresto di suo padre per spaccio di eroina, quando l’autrice aveva 15 anni e frequentava il ginnasio dell’unico liceo classico di Grosseto.
Piccola città (collana ‘I Robinson, Storie di questo mondo’, Laterza editore) è un memoir che si legge d’un fiato come il più avvincente dei romanzi e si studia come un libro di storia contemporanea; in libreria non l’ho trovato, come credevo, negli scaffali di narrativa e nemmeno in quelli di storia ma nel reparto di psicologia, settore dipendenze anzi tossicodipendenze. Angusta collocazione per un libro che è molte cose insieme e non solo una “storia comune di eroina” che squarcia un muro di silenzio su decine di migliaia di tossicodipendenti, su una generazione scomparsa su cui si è steso un velo di oblio. È un libro matrioska: non si smette mai di andare avanti e indietro tra i 23 capitoli, di aprire e chiudere, di montare e smontare le bamboline per arrivare a quella più piccola, al punto. L’ha scritto la bambina che si vede in copertina, quella con un cappello ben piantato sulla testa e una gonna che fugge! M., suo padre, è di spalle e anche lui sembra svolazzare nel disegno di Pia Valentinis, illustratrice eclettica di libri per bambini che riproduce una foto originale usando molto bianco e poco nero. In rosso solo due cose: un’iniziale, la M. di Mauro e un anno: il ’77.
Il titolo è lo stesso di una canzone: “Piccola città” di Francesco Guccini, dal disco Radici, 1972; il sottotitolo, invece, viene per metà, per la parte che non riguarda l’eroina, da Le storie di ieri di Francesco De Gregori, inclusa in Rimmel (LP per antonomasia dei bambini degli anni ‘70, quello con la copertina a righe e la donna misteriosa nel tondo, al centro), che comincia proprio così: “Mio padre ha una storia comune, condivisa dalla sua generazione”. Nel Volume 8 la rifà Fabrizio De Andrè, sostituendo ad “una storia” un “sogno” comune.
La piccola città, in questo caso, è però Grosseto. Siamo al centro della Maremma, alla periferia del Mondo, in una casa dove su un muro sono disegnati degli struzzi di profilo. M. forse è uno di loro, non si sa.
Sul murales c’è scritto: “La piccola città non aveva mai scherzato con i suoi abitanti, così come non scherzerà mai. E le ore racchiudevano il magico contenuto della noia, dell’incapacità”. Ma Roghi era bambina e non sapeva niente dell’incapacità e nemmeno dell’eroina e pensava che gli struzzi che sprofondavano nella sabbia fossero altri, non suo padre. Oltre la politica e il femminismo, c’era per lei solo sua nonna, che era il Mondo e la Città: Grosseto. Quella piccola città di provincia come tante, entra in scena con un montaggio così preciso, incalzante e denso di descrizioni che sembra di assistere alla proiezione di un documentario sulla Maremma del dopoguerra. Gli sceneggiatori principali sono Luciano Bianciardi e Carlo Cassola e viene voglia di riprendere subito in mano i loro libri, o addirittura di prendere un treno e andarci, a Grosseto, per vedere la stazione dove arrivavano gli emigranti, ma anche il diversivo (egregiamente raccontato da un pezzo di Simone Giusti) che non è solo un canale ma molto di più; e per distinguere i colori degli alberi: il nero dei lecci, il bianco dei frassini, il verde dei pini, la terra rossa. Ma non c’è luogo senza tempo e, per parlare di Grosseto come un memoir richiede, bisogna partire dai nonni dell’autrice, anzi dai fratelli dei nonni, i prozii: Astolfo e Assunta. Il fratello di nonna Isolina, la nonna paterna, quello dal nome ariostesco, è antifascista e a Foia di Chiaiano, provincia di Arezzo, viene ascoltato parlar male del duce; così al padre, il capofamiglia dei Moretti, viene consigliato di trasferirsi in Maremma, a Ribolla, dove c’è la miniera. E la malaria. Non è proprio un confino per nonna Isolina e i suoi fratelli ma quasi. Lei, unica femmina di sette figli maschi, sposerà Marino, che non ama, che non conosce Dante a memoria come tutti i suoi familiari e da cui nascerà M., Mauro Roghi, nel 1949.
Nato in miseria, in pochi anni quel padre avrà tutto, figlio di un periodo in cui a Grosseto si costruiva moltissimo come dimostrano gli Atti Parlamentari del dopoguerra. Marino Roghi, il padre, diventerà imprenditore edile in una città che diventa sempre più piccola perché il centro si restringe per fare spazio ai palazzi che negli anni Cinquanta e Sessanta crescono come funghi.
I nonni materni invece, i Vannucci, emigrano dall’Abruzzo nel 1956, al seguito della zia Assunta, che vendeva verdure al mercato, in Piazza del Sale, svegliandosi alle quattro ogni mattina e caricandosi come una formichina. Nel libro, al collage dei romanzi, degli articoli di giornale, delle sedute parlamentari, si mescolano i racconti familiari e non solo. Piccola città è un modello di come si possa fare storia orale oggi, anche partendo da sé. Le fonti, le “Voci” sono di medici, giornalisti, amici, familiari, ex tossicodipendenti, parlamentari. L’eroina arriva dopo il cemento a rompere la bellezza della Maremma. Intanto con una definizione scientifica contenuta in una “Interpellanza parlamentare del 23 marzo 1954” del senatore Giuseppe Alberti (Psi).
Eroina si chiama così perché è un medicamento eroico radicale, contro i dolori, più attivo della morfina. Si dice che abbia un potere antidolorifico e anche tossico, da sei a dieci volte più della morfina, ma che possegga altresì una capacità di dare all’onirismo, allo stordimento tossico prodotto dalla droga, una certa tinta erotica (…). L’assuefazione indotta dall’uso di eroina è più rapida. La drogomania si insedia assai più velocemente, più sradicabilmente e porta assai più presto che non la morfina l’individuo che ne è affetto alla perdita della personalità, del rispetto per sé stesso, al manicomio. Impariamo che viene messa in commercio per la prima volta dalla Bayer, nel 1898 e venduta come farmaco che non provoca dipendenza. In Italia diventa illegale solo nel 1923, con la legge n. 396, Provvedimenti per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente. Fino a quel momento la dipendenza più pericolosa era stata considerata l’alcool e ne sono prova i numerosi ricoveri manicomiali per “frenosi alcolica”. In Italia la diffusione avviene dopo la seconda guerra mondiale, quando Marsiglia diventa, prima della Sicilia, la capitale europea della raffinazione della morfina e l’Italia la “portaerei della droga”. Del 1951 il divieto di produrla nei laboratori chimici italiani e del 1954 la legge n. 1041. All’articolo n.21 si definisce la figura del drogato come “chi, a causa di grave alterazione psichica per abituale abuso di stupefacenti, si rende pericoloso a sé e agli altri o riesce di pubblico scandalo”. L’omicidio di Wilma Montesi e il processo al dottor Carlo Migliardi, su cui Roghi si sofferma a lungo, faranno accelerare l’attenzione mediatica.
Buzzati pubblica nel 1954 il racconto ‘Il morfinomane’ sul Corriere della Sera (è riportato per intero nel libro) e La Stampa sposta l’attenzione sui giovani come categoria sociologica a rischio. Sono definiti “schiere di disancorati morali” appartenenti di solito a famiglie benestanti.
Nel 1962 esce in Italia La scimmia sulla schiena di William Burroughs che diventa il libro culto di una generazione più consumatrice di LSD che di eroina e, nel 1964, Il Pasto Nudo pure di Burroughs.
E, scrive Roghi, “…è qui, in questa intersezione temporale, nel passaggio da vizio di pochi a ‘flagello’ per tanti, che inizia la mia storia, che non è proprio la mia ma della generazione da cui sono nata e con la quale continuo a confrontarmi come storica e come figlia, perché è in questo volgere di anni Sessanta che le droghe diventano parte di un orizzonte culturale condiviso fino a diventare strumento di autodistruzione di massa”. Secondo Cancrini, psichiatra che tra i primi si è occupato di tossicodipendenze, negli anni ’70 il consumo più alto non è di eroina ma di anfetamina che costa meno e si vende direttamente in farmacia. Ma ci sono anche barbiturici come il Renoval, di gran moda sul finire degli anni Sessanta. Si tende a criminalizzare la figura del drogato, ad assimilarlo a uno stile di vita ostentato e insopportabile, al “capellonismo”, alla Cina maoista, si tende a non fare distinzioni tra tipi di droghe né tra chi spaccia e chi consuma. Ci vorranno le trasmissioni di Zavoli, le manifestazioni dei Radicali, Pannella in testa, le radio, gli articoli di Lotta Continua, le mobilitazioni degli psichiatri contro i manicomi per arrivare alla legge del 1975 e ai dovuti distinguo. Nel frattempo la disinvoltura dei medici nella prescrizione di oppiacei sembra essere la ragione di moltissimi suicidi di donne grossetane e viene da ripensare anche a L’estate del ’78 di Roberto Alajmo e agli effetti devastanti di quel maledetto Spasmo Oberon ritirato troppo tardi dal mercato.
Lilly dov’è andata nel frattempo? La canzone di Venditti, che ripete una sillaba per un tempo più lungo di un lungo bagno e con un ritmo talmente noioso da offuscare le parole, è del 1975, anno boom dell’eroina e degli articoli di giornale che se ne occupano. Il testo dice: “Li dovevano arrestare, ti dovevano guarire”. Pochi dubbi. La legge del 1975 è importante ma, come dice Carlo Rivolta nel 1976, non basta, ha un sacco di falle, non valuta nella giusta dimensione la dipendenza dai barbiturici che già negli Stati Uniti sono considerati al pari di droghe pesanti e non riesce a combattere l’eroina che fino a quel momento ha avuto tre carte vincenti: la disinformazione di larghi strati giovanili, la facilità di importazione, la complicità di alcuni settori dello Stato. La burocrazia anche per chi vuole curarsi è mostruosa; bisogna aspettare addirittura un mese dalla richiesta all’ingresso in comunità. Le cronache di Rivolta, su Repubblica, danno l’idea dell’inferno in cui vivono tanti ragazzi e ragazze che stanno male. Anche il sociologo Blumir, autore di numerosi studi sulla tossicodipendenza, sostiene che la legge è pasticciata e d’interpretazione ambigua per i singoli giudici.
Grosseto è la città del boom edilizio ma anche della Comune di Lattaia, della sede del PDUP, dipinta dai genitori di Roghi, via di mezzo tra un movimento politico e un circolo culturale, dove i bambini non sono costretti ad andare a letto presto e, per farli dormire, si raccontano le favole di Mao-Tse-Tung, c’è il tempo pieno a scuola, che secondo i benpensanti della “piccola città” nasce per chi non ha tempo di occuparsi dei figli. E poi c’è Isolina. Una nonna-Mondo che pensa a tutto, mentre i genitori di Roghi e di molti altri bambini “sono troppo presi da una vita che è solo la loro”.
M. non è stato mai intervistato, solo spiato al modo di Natalia Ginzburg quando afferma in Lessico Famigliare: “Ho spiato la vita degli altri ma senza capirla bene e senza saperne nulla tirando a indovinare e fingendo di sapere”.
Oltre che ai familiari, il libro è dedicato a tre scrittrici: Nadia Terranova, Teresa Ciabatti, Silvia Ballestra (la prima a ricordare, tematizzare, ricostruire l’arrivo dell’eroina in una piccola città), che in modo diverso hanno dovuto fare i conti con i loro padri, ma è dedicato anche “agli altri bambini e alle bambine, uomini e donne che non hanno trovato la voce e le parole perché ancora arrabbiati, solo immensamente tristi” e, infine “a quelli che si vergognano ancora di parlare con i figli e le figlie di un passato complicato e confuso, a quelli che non ci sono più, la maggior parte morti di Aids”. La colonna sonora è bellissima e, che siano i Beatles o Lou Reed, si sente ancora friggere sul giradischi o suonare dalle radio libere.
Per fortuna mente, o almeno fa un’eccezione virtuosa a questa regola e decide, aiutata dalla distanza, che una “sua” storia la deve raccontare: quella dell’arresto di suo padre per spaccio di eroina, quando l’autrice aveva 15 anni e frequentava il ginnasio dell’unico liceo classico di Grosseto.
Piccola città (collana ‘I Robinson, Storie di questo mondo’, Laterza editore) è un memoir che si legge d’un fiato come il più avvincente dei romanzi e si studia come un libro di storia contemporanea; in libreria non l’ho trovato, come credevo, negli scaffali di narrativa e nemmeno in quelli di storia ma nel reparto di psicologia, settore dipendenze anzi tossicodipendenze. Angusta collocazione per un libro che è molte cose insieme e non solo una “storia comune di eroina” che squarcia un muro di silenzio su decine di migliaia di tossicodipendenti, su una generazione scomparsa su cui si è steso un velo di oblio. È un libro matrioska: non si smette mai di andare avanti e indietro tra i 23 capitoli, di aprire e chiudere, di montare e smontare le bamboline per arrivare a quella più piccola, al punto. L’ha scritto la bambina che si vede in copertina, quella con un cappello ben piantato sulla testa e una gonna che fugge! M., suo padre, è di spalle e anche lui sembra svolazzare nel disegno di Pia Valentinis, illustratrice eclettica di libri per bambini che riproduce una foto originale usando molto bianco e poco nero. In rosso solo due cose: un’iniziale, la M. di Mauro e un anno: il ’77.
Il titolo è lo stesso di una canzone: “Piccola città” di Francesco Guccini, dal disco Radici, 1972; il sottotitolo, invece, viene per metà, per la parte che non riguarda l’eroina, da Le storie di ieri di Francesco De Gregori, inclusa in Rimmel (LP per antonomasia dei bambini degli anni ‘70, quello con la copertina a righe e la donna misteriosa nel tondo, al centro), che comincia proprio così: “Mio padre ha una storia comune, condivisa dalla sua generazione”. Nel Volume 8 la rifà Fabrizio De Andrè, sostituendo ad “una storia” un “sogno” comune.
La piccola città, in questo caso, è però Grosseto. Siamo al centro della Maremma, alla periferia del Mondo, in una casa dove su un muro sono disegnati degli struzzi di profilo. M. forse è uno di loro, non si sa.
Sul murales c’è scritto: “La piccola città non aveva mai scherzato con i suoi abitanti, così come non scherzerà mai. E le ore racchiudevano il magico contenuto della noia, dell’incapacità”. Ma Roghi era bambina e non sapeva niente dell’incapacità e nemmeno dell’eroina e pensava che gli struzzi che sprofondavano nella sabbia fossero altri, non suo padre. Oltre la politica e il femminismo, c’era per lei solo sua nonna, che era il Mondo e la Città: Grosseto. Quella piccola città di provincia come tante, entra in scena con un montaggio così preciso, incalzante e denso di descrizioni che sembra di assistere alla proiezione di un documentario sulla Maremma del dopoguerra. Gli sceneggiatori principali sono Luciano Bianciardi e Carlo Cassola e viene voglia di riprendere subito in mano i loro libri, o addirittura di prendere un treno e andarci, a Grosseto, per vedere la stazione dove arrivavano gli emigranti, ma anche il diversivo (egregiamente raccontato da un pezzo di Simone Giusti) che non è solo un canale ma molto di più; e per distinguere i colori degli alberi: il nero dei lecci, il bianco dei frassini, il verde dei pini, la terra rossa. Ma non c’è luogo senza tempo e, per parlare di Grosseto come un memoir richiede, bisogna partire dai nonni dell’autrice, anzi dai fratelli dei nonni, i prozii: Astolfo e Assunta. Il fratello di nonna Isolina, la nonna paterna, quello dal nome ariostesco, è antifascista e a Foia di Chiaiano, provincia di Arezzo, viene ascoltato parlar male del duce; così al padre, il capofamiglia dei Moretti, viene consigliato di trasferirsi in Maremma, a Ribolla, dove c’è la miniera. E la malaria. Non è proprio un confino per nonna Isolina e i suoi fratelli ma quasi. Lei, unica femmina di sette figli maschi, sposerà Marino, che non ama, che non conosce Dante a memoria come tutti i suoi familiari e da cui nascerà M., Mauro Roghi, nel 1949.
Nato in miseria, in pochi anni quel padre avrà tutto, figlio di un periodo in cui a Grosseto si costruiva moltissimo come dimostrano gli Atti Parlamentari del dopoguerra. Marino Roghi, il padre, diventerà imprenditore edile in una città che diventa sempre più piccola perché il centro si restringe per fare spazio ai palazzi che negli anni Cinquanta e Sessanta crescono come funghi.
I nonni materni invece, i Vannucci, emigrano dall’Abruzzo nel 1956, al seguito della zia Assunta, che vendeva verdure al mercato, in Piazza del Sale, svegliandosi alle quattro ogni mattina e caricandosi come una formichina. Nel libro, al collage dei romanzi, degli articoli di giornale, delle sedute parlamentari, si mescolano i racconti familiari e non solo. Piccola città è un modello di come si possa fare storia orale oggi, anche partendo da sé. Le fonti, le “Voci” sono di medici, giornalisti, amici, familiari, ex tossicodipendenti, parlamentari. L’eroina arriva dopo il cemento a rompere la bellezza della Maremma. Intanto con una definizione scientifica contenuta in una “Interpellanza parlamentare del 23 marzo 1954” del senatore Giuseppe Alberti (Psi).
Eroina si chiama così perché è un medicamento eroico radicale, contro i dolori, più attivo della morfina. Si dice che abbia un potere antidolorifico e anche tossico, da sei a dieci volte più della morfina, ma che possegga altresì una capacità di dare all’onirismo, allo stordimento tossico prodotto dalla droga, una certa tinta erotica (…). L’assuefazione indotta dall’uso di eroina è più rapida. La drogomania si insedia assai più velocemente, più sradicabilmente e porta assai più presto che non la morfina l’individuo che ne è affetto alla perdita della personalità, del rispetto per sé stesso, al manicomio. Impariamo che viene messa in commercio per la prima volta dalla Bayer, nel 1898 e venduta come farmaco che non provoca dipendenza. In Italia diventa illegale solo nel 1923, con la legge n. 396, Provvedimenti per la repressione dell’abusivo commercio di sostanze velenose aventi azione stupefacente. Fino a quel momento la dipendenza più pericolosa era stata considerata l’alcool e ne sono prova i numerosi ricoveri manicomiali per “frenosi alcolica”. In Italia la diffusione avviene dopo la seconda guerra mondiale, quando Marsiglia diventa, prima della Sicilia, la capitale europea della raffinazione della morfina e l’Italia la “portaerei della droga”. Del 1951 il divieto di produrla nei laboratori chimici italiani e del 1954 la legge n. 1041. All’articolo n.21 si definisce la figura del drogato come “chi, a causa di grave alterazione psichica per abituale abuso di stupefacenti, si rende pericoloso a sé e agli altri o riesce di pubblico scandalo”. L’omicidio di Wilma Montesi e il processo al dottor Carlo Migliardi, su cui Roghi si sofferma a lungo, faranno accelerare l’attenzione mediatica.
Buzzati pubblica nel 1954 il racconto ‘Il morfinomane’ sul Corriere della Sera (è riportato per intero nel libro) e La Stampa sposta l’attenzione sui giovani come categoria sociologica a rischio. Sono definiti “schiere di disancorati morali” appartenenti di solito a famiglie benestanti.
Nel 1962 esce in Italia La scimmia sulla schiena di William Burroughs che diventa il libro culto di una generazione più consumatrice di LSD che di eroina e, nel 1964, Il Pasto Nudo pure di Burroughs.
E, scrive Roghi, “…è qui, in questa intersezione temporale, nel passaggio da vizio di pochi a ‘flagello’ per tanti, che inizia la mia storia, che non è proprio la mia ma della generazione da cui sono nata e con la quale continuo a confrontarmi come storica e come figlia, perché è in questo volgere di anni Sessanta che le droghe diventano parte di un orizzonte culturale condiviso fino a diventare strumento di autodistruzione di massa”. Secondo Cancrini, psichiatra che tra i primi si è occupato di tossicodipendenze, negli anni ’70 il consumo più alto non è di eroina ma di anfetamina che costa meno e si vende direttamente in farmacia. Ma ci sono anche barbiturici come il Renoval, di gran moda sul finire degli anni Sessanta. Si tende a criminalizzare la figura del drogato, ad assimilarlo a uno stile di vita ostentato e insopportabile, al “capellonismo”, alla Cina maoista, si tende a non fare distinzioni tra tipi di droghe né tra chi spaccia e chi consuma. Ci vorranno le trasmissioni di Zavoli, le manifestazioni dei Radicali, Pannella in testa, le radio, gli articoli di Lotta Continua, le mobilitazioni degli psichiatri contro i manicomi per arrivare alla legge del 1975 e ai dovuti distinguo. Nel frattempo la disinvoltura dei medici nella prescrizione di oppiacei sembra essere la ragione di moltissimi suicidi di donne grossetane e viene da ripensare anche a L’estate del ’78 di Roberto Alajmo e agli effetti devastanti di quel maledetto Spasmo Oberon ritirato troppo tardi dal mercato.
Lilly dov’è andata nel frattempo? La canzone di Venditti, che ripete una sillaba per un tempo più lungo di un lungo bagno e con un ritmo talmente noioso da offuscare le parole, è del 1975, anno boom dell’eroina e degli articoli di giornale che se ne occupano. Il testo dice: “Li dovevano arrestare, ti dovevano guarire”. Pochi dubbi. La legge del 1975 è importante ma, come dice Carlo Rivolta nel 1976, non basta, ha un sacco di falle, non valuta nella giusta dimensione la dipendenza dai barbiturici che già negli Stati Uniti sono considerati al pari di droghe pesanti e non riesce a combattere l’eroina che fino a quel momento ha avuto tre carte vincenti: la disinformazione di larghi strati giovanili, la facilità di importazione, la complicità di alcuni settori dello Stato. La burocrazia anche per chi vuole curarsi è mostruosa; bisogna aspettare addirittura un mese dalla richiesta all’ingresso in comunità. Le cronache di Rivolta, su Repubblica, danno l’idea dell’inferno in cui vivono tanti ragazzi e ragazze che stanno male. Anche il sociologo Blumir, autore di numerosi studi sulla tossicodipendenza, sostiene che la legge è pasticciata e d’interpretazione ambigua per i singoli giudici.
Grosseto è la città del boom edilizio ma anche della Comune di Lattaia, della sede del PDUP, dipinta dai genitori di Roghi, via di mezzo tra un movimento politico e un circolo culturale, dove i bambini non sono costretti ad andare a letto presto e, per farli dormire, si raccontano le favole di Mao-Tse-Tung, c’è il tempo pieno a scuola, che secondo i benpensanti della “piccola città” nasce per chi non ha tempo di occuparsi dei figli. E poi c’è Isolina. Una nonna-Mondo che pensa a tutto, mentre i genitori di Roghi e di molti altri bambini “sono troppo presi da una vita che è solo la loro”.
M. non è stato mai intervistato, solo spiato al modo di Natalia Ginzburg quando afferma in Lessico Famigliare: “Ho spiato la vita degli altri ma senza capirla bene e senza saperne nulla tirando a indovinare e fingendo di sapere”.
Oltre che ai familiari, il libro è dedicato a tre scrittrici: Nadia Terranova, Teresa Ciabatti, Silvia Ballestra (la prima a ricordare, tematizzare, ricostruire l’arrivo dell’eroina in una piccola città), che in modo diverso hanno dovuto fare i conti con i loro padri, ma è dedicato anche “agli altri bambini e alle bambine, uomini e donne che non hanno trovato la voce e le parole perché ancora arrabbiati, solo immensamente tristi” e, infine “a quelli che si vergognano ancora di parlare con i figli e le figlie di un passato complicato e confuso, a quelli che non ci sono più, la maggior parte morti di Aids”. La colonna sonora è bellissima e, che siano i Beatles o Lou Reed, si sente ancora friggere sul giradischi o suonare dalle radio libere.
Commento lasciato da Valeria Balsano il 27 gennaio 2019
Grazie a Gilda per questa recensione colta, spessa, piena di riferimenti e riflessioni che ne generano altre. È un grande piacere leggerti.
Grazie a Gilda per questa recensione colta, spessa, piena di riferimenti e riflessioni che ne generano altre. È un grande piacere leggerti.
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