
L’astensione non è il rifiuto della politica – rifiuto, a ben vedere, impossibile –, è invece una seppur indeterminata indicazione: non mi sentirei rappresentato da nessuno di quelli tra cui posso scegliere. Qui, per inciso, si vede quanto sia piccola la distanza tra l’astensione e il voto al Movimento 5 Stelle, con la sua presunta carica di ribellismo antisistema.
Ma chi si rende conto della necessità dei partiti deve sapere dare, quando se ne presenta l’opportunità, un segnale chiaro e determinato a chi tenta di organizzare la rappresentanza.
Gli attuali tentativi di costituzione di forze politiche di sinistra, va detto, non si sottraggono dal rendere omaggio alle forme della propaganda e della comunicazione del tempo presente.
Lo vediamo nella maniera di articolare il rapporto tra i gruppi dirigenti e la base di massa e dei militanti, rapporto che tende ad essere costruito su forme di partecipazione scarsamente strutturate e non prive di sfumature populistiche: i gruppi dirigenti dichiarano di legittimarsi in quanto raccolgono istanze provenienti dal basso, occultando così sia il movimento inverso, altrettanto importante, di proposta dall’alto di una visione da condividere e di un progetto cui aderire, sia la responsabilità che ha chi si propone come gruppo dirigente di fare una sintesi, che è ben più della somma di quanto venuto fuori “dal basso”.
Anche sui programmi, sulle cose da fare, si “raccolgono le idee”, presentando ciò come partecipazione democratica, come nel caso delle “Cento piazze per il programma” organizzate dall’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, l’iniziativa che ha come punti di riferimento comunicativi Tomaso Montanari e Anna Falcone. Si stimola la partecipazione, si raccoglie consenso, e questo è necessario, ma, come osserva Sergio Cesaratto, i programmi non si fanno così: “La politica consulta dialetticamente la piazza e gli intellettuali, ma non scaturisce né dall’una né dagli altri. […] Temiamo che questa rinuncia della politica al suo ruolo di guida in un rapporto dialettico con militanti e intellettuali, sia frutto di una fuga dalle responsabilità del ceto dirigente della ‘sinistra’ a fronte delle gravi scelte che il momento storico impone al nostro Paese e dunque alla politica.” (1)
Dietro queste difficoltà nei rapporti con la base e nei rapporti con gli intellettuali c’è una doppia assenza, risultato della lunga stagione di arretramento sociale e politico della sinistra.
La prima assenza è quella della base di classe cui rivolgersi; se la base è il lavoro, questo si presenta oggi frammentato e diviso da conflitti interni, che oppongono chi ha bene o male (molto spesso male) il lavoro a chi non lo ha, i giovani agli anziani, gli italiani agli immigrati, chi sta male a chi sta peggio. Trionfo della restaurazione di classe messa in atto negli ultimi decenni sotto la feroce copertura ideologica del neoliberismo, in Italia e fuori di essa.
La seconda assenza, complementare e simmetrica alla prima, è quella di una visione e di una proposta da offrire quale orizzonte di azione. Il discorso pubblico degli aspiranti gruppi dirigenti della sinistra assume troppo spesso la forma della lamentazione: la deflazione salariale, la disoccupazione, la riduzione del welfare, vengono criticati, ma sembrano essere degli imperscrutabili accidenti storici, o, tuttalpiù, il frutto degli errori degli ultimi governi. Ma non c’è nessun errore: i governi hanno fatto esattamente quello che volevano fare.
I problemi non sono riducibili alla contingenza, sono strutturali, e occorrerebbe offrire sia una lettura della realtà che una prospettiva di azione che vedano lontano.
Se la situazione della sinistra è questa, non possiamo stupirci dei critici e dei delusi. Ma l’esigenza rimane: non dell’unità della sinistra, ma dell’individuazione e dell’aggregazione di un soggetto sociale e, insieme, della sua rappresentanza politica.
La lista “Cento passi per la Sicilia”, con la candidatura alla presidenza di Claudio Fava, è la sintesi e la rappresentazione delle difficoltà della sinistra, ma resta in ogni caso un tentativo di rispondere a questa esigenza. La sua breve storia contiene molte storie, la cui diversità può essere empiricamente misurata dalla distanza di ciascuna di esse dal PD. Misura mai precisa, e neanche sicura: è di questi giorni la notizia della definitiva (sarebbe meglio dire: provvisoriamente definitiva) fine dell’appoggio di MDP al governo. Ciascuno dovrà scegliere all’interno della lista il candidato che gli sembra essere alla distanza giusta dal PD.
La conciliabilità o meno di queste tante storie sarà poi messa alla prova dei fatti. Occorrerà infatti vedere quanti saranno gli eletti, e quali saranno, quali saranno i risultati delle altre liste, e del PD in particolare; occorrerà vedere cosa succede dentro e fuori il Parlamento nazionale, e soprattutto vedere come continua la crisi economica e sociale, che può avere imprevedibili e brusche svolte anche per cause esterne, soprattutto a livello europeo.
Un buon risultato della lista Fava avrebbe comunque due effetti: quello prossimo di riportare nell’assemblea regionale siciliana una opposizione di sinistra, e quello, più ampio, di dare impulso alla ricerca di una presenza elettorale della sinistra a livello nazionale, premessa alla necessaria ricomposizione del sistema dei partiti.
Effetti, questi ultimi, che vanno molto al di là della specifica scadenza elettorale. Tempi lunghi, esiti incerti. Ma un segnale, almeno, possiamo darlo.
1. Sergio Cesaratto, “La sinistra non abdichi alle proprie responsabilità”, http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=23268.
Ma chi si rende conto della necessità dei partiti deve sapere dare, quando se ne presenta l’opportunità, un segnale chiaro e determinato a chi tenta di organizzare la rappresentanza.
Gli attuali tentativi di costituzione di forze politiche di sinistra, va detto, non si sottraggono dal rendere omaggio alle forme della propaganda e della comunicazione del tempo presente.
Lo vediamo nella maniera di articolare il rapporto tra i gruppi dirigenti e la base di massa e dei militanti, rapporto che tende ad essere costruito su forme di partecipazione scarsamente strutturate e non prive di sfumature populistiche: i gruppi dirigenti dichiarano di legittimarsi in quanto raccolgono istanze provenienti dal basso, occultando così sia il movimento inverso, altrettanto importante, di proposta dall’alto di una visione da condividere e di un progetto cui aderire, sia la responsabilità che ha chi si propone come gruppo dirigente di fare una sintesi, che è ben più della somma di quanto venuto fuori “dal basso”.
Anche sui programmi, sulle cose da fare, si “raccolgono le idee”, presentando ciò come partecipazione democratica, come nel caso delle “Cento piazze per il programma” organizzate dall’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, l’iniziativa che ha come punti di riferimento comunicativi Tomaso Montanari e Anna Falcone. Si stimola la partecipazione, si raccoglie consenso, e questo è necessario, ma, come osserva Sergio Cesaratto, i programmi non si fanno così: “La politica consulta dialetticamente la piazza e gli intellettuali, ma non scaturisce né dall’una né dagli altri. […] Temiamo che questa rinuncia della politica al suo ruolo di guida in un rapporto dialettico con militanti e intellettuali, sia frutto di una fuga dalle responsabilità del ceto dirigente della ‘sinistra’ a fronte delle gravi scelte che il momento storico impone al nostro Paese e dunque alla politica.” (1)
Dietro queste difficoltà nei rapporti con la base e nei rapporti con gli intellettuali c’è una doppia assenza, risultato della lunga stagione di arretramento sociale e politico della sinistra.
La prima assenza è quella della base di classe cui rivolgersi; se la base è il lavoro, questo si presenta oggi frammentato e diviso da conflitti interni, che oppongono chi ha bene o male (molto spesso male) il lavoro a chi non lo ha, i giovani agli anziani, gli italiani agli immigrati, chi sta male a chi sta peggio. Trionfo della restaurazione di classe messa in atto negli ultimi decenni sotto la feroce copertura ideologica del neoliberismo, in Italia e fuori di essa.
La seconda assenza, complementare e simmetrica alla prima, è quella di una visione e di una proposta da offrire quale orizzonte di azione. Il discorso pubblico degli aspiranti gruppi dirigenti della sinistra assume troppo spesso la forma della lamentazione: la deflazione salariale, la disoccupazione, la riduzione del welfare, vengono criticati, ma sembrano essere degli imperscrutabili accidenti storici, o, tuttalpiù, il frutto degli errori degli ultimi governi. Ma non c’è nessun errore: i governi hanno fatto esattamente quello che volevano fare.
I problemi non sono riducibili alla contingenza, sono strutturali, e occorrerebbe offrire sia una lettura della realtà che una prospettiva di azione che vedano lontano.
Se la situazione della sinistra è questa, non possiamo stupirci dei critici e dei delusi. Ma l’esigenza rimane: non dell’unità della sinistra, ma dell’individuazione e dell’aggregazione di un soggetto sociale e, insieme, della sua rappresentanza politica.
La lista “Cento passi per la Sicilia”, con la candidatura alla presidenza di Claudio Fava, è la sintesi e la rappresentazione delle difficoltà della sinistra, ma resta in ogni caso un tentativo di rispondere a questa esigenza. La sua breve storia contiene molte storie, la cui diversità può essere empiricamente misurata dalla distanza di ciascuna di esse dal PD. Misura mai precisa, e neanche sicura: è di questi giorni la notizia della definitiva (sarebbe meglio dire: provvisoriamente definitiva) fine dell’appoggio di MDP al governo. Ciascuno dovrà scegliere all’interno della lista il candidato che gli sembra essere alla distanza giusta dal PD.
La conciliabilità o meno di queste tante storie sarà poi messa alla prova dei fatti. Occorrerà infatti vedere quanti saranno gli eletti, e quali saranno, quali saranno i risultati delle altre liste, e del PD in particolare; occorrerà vedere cosa succede dentro e fuori il Parlamento nazionale, e soprattutto vedere come continua la crisi economica e sociale, che può avere imprevedibili e brusche svolte anche per cause esterne, soprattutto a livello europeo.
Un buon risultato della lista Fava avrebbe comunque due effetti: quello prossimo di riportare nell’assemblea regionale siciliana una opposizione di sinistra, e quello, più ampio, di dare impulso alla ricerca di una presenza elettorale della sinistra a livello nazionale, premessa alla necessaria ricomposizione del sistema dei partiti.
Effetti, questi ultimi, che vanno molto al di là della specifica scadenza elettorale. Tempi lunghi, esiti incerti. Ma un segnale, almeno, possiamo darlo.
1. Sergio Cesaratto, “La sinistra non abdichi alle proprie responsabilità”, http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=23268.
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