
SEMBRA UN SECOLO
‘PERCHÉ QUI LA GENTE CREDE IN DIO’
Davide Reviati e il razzismo concreto, tra storia e memoria
di Tommaso Baris 18 aprile 2017
‘PERCHÉ QUI LA GENTE CREDE IN DIO’
Davide Reviati e il razzismo concreto, tra storia e memoria
di Tommaso Baris 18 aprile 2017
Ci sono oggi tanti modi di raccontare la Storia. Si può anzi dire che tale narrazione sia sostanzialmente sfuggita a quanti se ne occupano professionalmente, lasciando campo libero alla memoria dei protagonisti, ai romanzi, alle fiction televisive con risultati spesso (anche se non sempre) discutibili. Sono oggi questi gli strumenti attraverso i quali si costruisce un senso comune rispetto al passato molto più dei saggi scientifici di ricerca storica.
In questo contesto si colloca l’ultimo lavoro di Davide Reviati, il graphic novel Sputa tre volte, apparso nel 2016 per Coconino Press, tra le più importanti case editrici di fumetto d’autore italiane. Il volume, che in questo richiama un precedente lavoro del disegnatore, Morti di Sonno, si presenta come un racconto di memorie. Protagonista della scena è infatti un gruppo di ragazzi, studenti di un istituto tecnico industriale, con scarsi risultati in verità, assunti come punto di osservazione della loro comunità di origine. Questa rimane indefinita ma si capisce chiaramente che siamo in una provincia rurale dell’Italia settentrionale, tendenzialmente nelle estreme propaggini della pianura padana: il tanto – in passato – citato e discusso Nord-Est, visto come locomotiva economica del paese. L’autore segue allora questo gruppo di giovani amici, Guido, Katango, Moreno detto Grisù e tanti altri e ce li mostra nel loro tentativo di dare un senso ad una vita che per molti versi appare piatta e priva di interesse, e li segue nel loro cercare una continua rottura del conformismo quotidiano e della cappa opprimente degli adulti (sempre sullo sfondo, e sentiti come distanti e ostili). Una ricerca di diversità che si traduce nella riproposizione di un micro gruppo giovanile il cui tempo comune è scandito dal consumo di droghe leggere, dalle tante e forti bevute collettive, dalle innumerevoli serate al bar e le fughe verso il mare e le sue discoteche senza che questo riesca a creare un sentire diverso e differente dal mondo aspro, duro e in definitiva sentito come falso e cinico, degli adulti.
Ad accompagnare questo processo di crescita che però sembra non portare nessuna reale maturazione, non produrre nessun vero apprendimento sentimentale ed affettivo, conchiuso com’è nella sua autistica ripetizione, utile casomai a ricordare che il cinismo e l’indifferenza possono albergare anche in chi ci sta accanto da tempo, si ritrova una piccola comunità di nomadi slavi, raccontati attraverso lo sguardo dei giovani protagonisti e le lenti deformate con cui la loro comunità gli ha insegnato a guardare all’altro e al diverso. Collocati negli spazi impervi delle campagne e costantemente paragonati agli animali, collocandoli nello stesso spazio mentale e culturale, la famiglia degli Stancic, gli “zingari ladri e senza Dio” di questa storia, permette di mostrare i pregiudizi, la paura del diverso, l’ostilità per i modi di vita altri che la comunità italiana contiene in sé ma nasconde dietro l’apparente religiosità e il finto perbenismo e moralismo conformistico. L’asprezza, la durezza, la rabbia, e la frustrazione che la pesantezza della vita nella cittadina del Nord-Est alimentano si sfoga allora attraverso la stigmatizzazione e la repulsione nei confronti di questa piccola comunità nomade. La giovane ragazza Loretta appare allora come una pericolosa strega, che già da piccola lasciava escrementi nelle case degli abitanti del posto, per presentarsi da adulta come una sorta di lupa feroce e selvaggia, che si aggira libera e furiosa nelle campagne.
In realtà gli Stancic si portano dietro una storia drammatica e devastante. Sono arrivati in Italia dopo aver attraversato lo sterminio razziale dei nazisti. Progressivamente allora Reviati inserisce nella storia una memoria altra, quella di un vecchio sinti, che rilegge dal proprio punto di vista i ricordi di Guido, permettendo al lettore di entrare dall’interno nell’universo familiare degli Stancic, disvelando così la loro storia di fuga e rifugio nel nostro paese, perché – come dice Mama, l’anziana matriarca che si reca a messa tutte le settimane arrivando per ultima e andando via per prima – “siamo venuti in Italia perché qui la gente crede in Dio”, e quindi dovrebbe essere, culturalmente e storicamente, in grado di accogliere chi fugge dallo sterminio e dalla violenza della distruzione. In realtà Reviati dimostra come, anche nell’Italia del tempo presente, alla celebrazione istituzionale e rituale della “giornata della memoria” non sia seguita la costruzione di una consapevolezza reale dei processi di stigmatizzazione e criminalizzazione dell’altro e del diverso, su base razziale. Lo sterminio dei sinti, a cui è dedicata nella parte finale una intelligente riflessione, è diventato infatti un ricordo di second’ordine e grado, come le sue vittime, incapace persino di produrre una rimessa in discussione di quegli stessi stereotipi e pregiudizi che furono alla base della scelta nazista di perseguitare gli zingari. Privi di Stato, nomadi e spesso identificati con la piccola criminalità, i sinti continuano a essere dipinti come un grave fattore di sconvolgimento dell’ordine sociale e morale costituito, riproponendo l’idea di una anomalia irriducibile e quindi da sanare in qualche maniera. Da questo punto di vista il volume dimostra la perdurante frattura tra il fiume di retoriche che accompagnano oramai gli eventi memoriali, anche e soprattutto quelli legati alla Shoah, e il dilagare concreto del razzismo. Le nuove recenti manifestazioni di intolleranza e violenza aperta nei confronti dei migranti che ieri come oggi fuggono da guerre e persecuzioni non paiono solo il frutto di nuove recenti paure alimentate dal terrorismo e dall’islamofobia ma rimandano anche ad un sostrato di fondo presente nella società italiana che andrebbe messo a tema e su cui bisognerebbe tornare con forza ad interrogarsi. La crescita economica, il benessere maggiore, l’aumento della ricchezza sembrano infatti non aver eliminato ma al contrario alimentato questa chiusura identitaria, riproponendo l’idea della vita come durezza da subire ed imporre agli altri, che in qualche modo l’indefinito Nord-Est raccontato da Reviati finisce per riassumere paradigmaticamente in questi suoi giovani protagonisti, oscillanti tra ribadimento della propria superiorità e voglia di rompere con il falso perbenismo del contesto di provenienza. Il finale resta però amaro, non solo per la digressione sulla vicenda della poetessa sinti Papusza, le cui opere poetiche, pubblicate in Polonia grazie al lavoro dell’intellettuale Jerzy Ficowski, finirono per isolarla dalla comunità di origine senza farla accogliere in quella polacca, che restò anche negli anni del comunismo a larga maggioranza sciovinista e razzista, ma soprattutto per l’amara conclusione dell’incontro ad anni di distanza tra Guido e AlPacino, il fratello di Loretta. Quest’ultimo aveva salvato il ragazzo italiano dopo una brutta sbronza dopo la quale Guido aveva perso i sensi finendo in mare aperto su un pedalò alla deriva, ma ciò nonostante il giovane sinti era stato poi derubato e lasciato a piedi dagli amici di Guido. Il loro rincontrarsi ad anni di distanza sembrerebbe andare verso un finale che apre qualche speranza di cambiamento, ma alla fine si scopre che non c’è stata in realtà alcuna salvezza e nessuna redenzione. Chiusura e durezza non producono che incrudelimento e distruzione, ma rispetto a tutto ciò non si intravedono strade di uscita.
In questo contesto si colloca l’ultimo lavoro di Davide Reviati, il graphic novel Sputa tre volte, apparso nel 2016 per Coconino Press, tra le più importanti case editrici di fumetto d’autore italiane. Il volume, che in questo richiama un precedente lavoro del disegnatore, Morti di Sonno, si presenta come un racconto di memorie. Protagonista della scena è infatti un gruppo di ragazzi, studenti di un istituto tecnico industriale, con scarsi risultati in verità, assunti come punto di osservazione della loro comunità di origine. Questa rimane indefinita ma si capisce chiaramente che siamo in una provincia rurale dell’Italia settentrionale, tendenzialmente nelle estreme propaggini della pianura padana: il tanto – in passato – citato e discusso Nord-Est, visto come locomotiva economica del paese. L’autore segue allora questo gruppo di giovani amici, Guido, Katango, Moreno detto Grisù e tanti altri e ce li mostra nel loro tentativo di dare un senso ad una vita che per molti versi appare piatta e priva di interesse, e li segue nel loro cercare una continua rottura del conformismo quotidiano e della cappa opprimente degli adulti (sempre sullo sfondo, e sentiti come distanti e ostili). Una ricerca di diversità che si traduce nella riproposizione di un micro gruppo giovanile il cui tempo comune è scandito dal consumo di droghe leggere, dalle tante e forti bevute collettive, dalle innumerevoli serate al bar e le fughe verso il mare e le sue discoteche senza che questo riesca a creare un sentire diverso e differente dal mondo aspro, duro e in definitiva sentito come falso e cinico, degli adulti.
Ad accompagnare questo processo di crescita che però sembra non portare nessuna reale maturazione, non produrre nessun vero apprendimento sentimentale ed affettivo, conchiuso com’è nella sua autistica ripetizione, utile casomai a ricordare che il cinismo e l’indifferenza possono albergare anche in chi ci sta accanto da tempo, si ritrova una piccola comunità di nomadi slavi, raccontati attraverso lo sguardo dei giovani protagonisti e le lenti deformate con cui la loro comunità gli ha insegnato a guardare all’altro e al diverso. Collocati negli spazi impervi delle campagne e costantemente paragonati agli animali, collocandoli nello stesso spazio mentale e culturale, la famiglia degli Stancic, gli “zingari ladri e senza Dio” di questa storia, permette di mostrare i pregiudizi, la paura del diverso, l’ostilità per i modi di vita altri che la comunità italiana contiene in sé ma nasconde dietro l’apparente religiosità e il finto perbenismo e moralismo conformistico. L’asprezza, la durezza, la rabbia, e la frustrazione che la pesantezza della vita nella cittadina del Nord-Est alimentano si sfoga allora attraverso la stigmatizzazione e la repulsione nei confronti di questa piccola comunità nomade. La giovane ragazza Loretta appare allora come una pericolosa strega, che già da piccola lasciava escrementi nelle case degli abitanti del posto, per presentarsi da adulta come una sorta di lupa feroce e selvaggia, che si aggira libera e furiosa nelle campagne.
In realtà gli Stancic si portano dietro una storia drammatica e devastante. Sono arrivati in Italia dopo aver attraversato lo sterminio razziale dei nazisti. Progressivamente allora Reviati inserisce nella storia una memoria altra, quella di un vecchio sinti, che rilegge dal proprio punto di vista i ricordi di Guido, permettendo al lettore di entrare dall’interno nell’universo familiare degli Stancic, disvelando così la loro storia di fuga e rifugio nel nostro paese, perché – come dice Mama, l’anziana matriarca che si reca a messa tutte le settimane arrivando per ultima e andando via per prima – “siamo venuti in Italia perché qui la gente crede in Dio”, e quindi dovrebbe essere, culturalmente e storicamente, in grado di accogliere chi fugge dallo sterminio e dalla violenza della distruzione. In realtà Reviati dimostra come, anche nell’Italia del tempo presente, alla celebrazione istituzionale e rituale della “giornata della memoria” non sia seguita la costruzione di una consapevolezza reale dei processi di stigmatizzazione e criminalizzazione dell’altro e del diverso, su base razziale. Lo sterminio dei sinti, a cui è dedicata nella parte finale una intelligente riflessione, è diventato infatti un ricordo di second’ordine e grado, come le sue vittime, incapace persino di produrre una rimessa in discussione di quegli stessi stereotipi e pregiudizi che furono alla base della scelta nazista di perseguitare gli zingari. Privi di Stato, nomadi e spesso identificati con la piccola criminalità, i sinti continuano a essere dipinti come un grave fattore di sconvolgimento dell’ordine sociale e morale costituito, riproponendo l’idea di una anomalia irriducibile e quindi da sanare in qualche maniera. Da questo punto di vista il volume dimostra la perdurante frattura tra il fiume di retoriche che accompagnano oramai gli eventi memoriali, anche e soprattutto quelli legati alla Shoah, e il dilagare concreto del razzismo. Le nuove recenti manifestazioni di intolleranza e violenza aperta nei confronti dei migranti che ieri come oggi fuggono da guerre e persecuzioni non paiono solo il frutto di nuove recenti paure alimentate dal terrorismo e dall’islamofobia ma rimandano anche ad un sostrato di fondo presente nella società italiana che andrebbe messo a tema e su cui bisognerebbe tornare con forza ad interrogarsi. La crescita economica, il benessere maggiore, l’aumento della ricchezza sembrano infatti non aver eliminato ma al contrario alimentato questa chiusura identitaria, riproponendo l’idea della vita come durezza da subire ed imporre agli altri, che in qualche modo l’indefinito Nord-Est raccontato da Reviati finisce per riassumere paradigmaticamente in questi suoi giovani protagonisti, oscillanti tra ribadimento della propria superiorità e voglia di rompere con il falso perbenismo del contesto di provenienza. Il finale resta però amaro, non solo per la digressione sulla vicenda della poetessa sinti Papusza, le cui opere poetiche, pubblicate in Polonia grazie al lavoro dell’intellettuale Jerzy Ficowski, finirono per isolarla dalla comunità di origine senza farla accogliere in quella polacca, che restò anche negli anni del comunismo a larga maggioranza sciovinista e razzista, ma soprattutto per l’amara conclusione dell’incontro ad anni di distanza tra Guido e AlPacino, il fratello di Loretta. Quest’ultimo aveva salvato il ragazzo italiano dopo una brutta sbronza dopo la quale Guido aveva perso i sensi finendo in mare aperto su un pedalò alla deriva, ma ciò nonostante il giovane sinti era stato poi derubato e lasciato a piedi dagli amici di Guido. Il loro rincontrarsi ad anni di distanza sembrerebbe andare verso un finale che apre qualche speranza di cambiamento, ma alla fine si scopre che non c’è stata in realtà alcuna salvezza e nessuna redenzione. Chiusura e durezza non producono che incrudelimento e distruzione, ma rispetto a tutto ciò non si intravedono strade di uscita.
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