
IL FRONTE CULTURALE
NUOVO IMPERO, STESSO BARDO?
Quando Shakespeare trovò l'America
di Alfonso Geraci 25 ottobre 2019
NUOVO IMPERO, STESSO BARDO?
Quando Shakespeare trovò l'America
di Alfonso Geraci 25 ottobre 2019
Davanti ai pezzi grossi conviene sempre genuflettersi, nella speranza che al momento buono se ne ricordino; e [come osservò a suo tempo Gary Taylor] c’è un pezzo grosso che, pur essendo morto da 400 anni, continua a essere riverito in questo modo: il suo nome è William Shakespeare.
D’altro canto, come scrive il 15 dicembre del 1816, dopo aver visto una rappresentazione del Coriolano al Covent Garden, un amareggiato William Hazlitt [bardolatra dichiarato ma anche giacobino-bonapartista isolatissimo nell’Inghilterra del ‘dopo Waterloo’], “Shakespeare sembra avere un debole per il versante dispotico” della contesa politica, e non perde occasione di sfottere la plebe; è ben legittimo insomma [aggiunse tempo dopo Hazlitt in risposta alle violentissime polemiche suscitate dalla sua tesi] il “sospetto che Shakespeare propendesse per una delle parti in causa, e le abbia dato più spazio di quanto meritasse”. Questo anche perché un “leone che caccia un gregge di pecore o di asini selvatici è più poetico delle sue prede; e noi parteggiamo addirittura per la belva signorile, perché la nostra vanità o qualche altro sentimento ci dispone a immaginarci al posto del più forte” .
Se dunque chi, su questa Terra, intende compiere una bella scalata verso il riconoscimento e il potere in ambito anche culturale è facile che si mostri adepto di Shakespeare; e se poi lo stesso Bardo è a conti fatti ben lontano da quella “meravigliosa imparzialità” che voleva attribuirgli Coleridge, allora il matrimonio tra gli Stati Uniti d’America del “Destino Manifesto” e Will da Stratford-upon-Avon dovrebbe essere uno di quelli “combinati in cielo”, giusto?
Sì e no, è la risposta che si evince dal libro Shakespeare in America, appena pubblicato da Cristina Consiglio presso LB edizioni di Bari, che inaugura così la sua collana ‘Universitaria’. Innanzitutto, perché si passasse da una fase sostanzialmente amatoriale, dominata - quando l’America era ancora colonia - da “giovani scioperati, assassini di svariati drammi”, secondo la spietata caratterizzazione di William Dunlap (p.13) ad un vero teatro di professionisti non bastarono sulle prime la stessa Rivoluzione iniziata nel 1765 e la successiva Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, anche se il “primo segnale di una risposta specificamente americana” all’opera di Shakespeare e allo stesso bisogno di ridefinire la propria identità culturale “lo si ritrova in opere come l’Epilogue che Jonathan M. Sewell scrisse per una produzione di Coriolanus rappresentata dinanzi alle truppe rivoluzionarie nel 1778” (pp.18-19).
Sarà invece soprattutto l’ottocentesca ‘Gold Rush’ - con annessi e connessi economici e sociali - a dare un forte impulso al movimento teatrale della giovane nazione, dacché il “teatro seguiva la frontiera nel movimento verso l’ovest. La ricerca dell’oro in California portò all’apertura di teatri anche a San Francisco e a Sacramento, per giungere fino in Colorado e nello Utah” (p.19). E’ tuttavia sulla sponda atlantica che fiorisce la carriera shakespeariana del “primo grande attore” born in the USA, ovvero Edwin Forrest (1806-1872), che con il suo stile di recitazione “intorno agli anni Venti di fatto divenne…un simbolo del nazionalismo americano, prepotente e aggressivo” (p.21). Sulla scia di Forrest nascono le altre ‘stelle’ teatrali d’America, da Charlotte Cushman (1816-1876) ad Anna Cora Mowatt (1819-1870), da Edwin Booth (1833-1893) a Robert Mantell (1854-1928), senza dimenticare gli irlandesi americanizzati John Drew e Ada Rehan, che nel 1888 portarono la produzione newyorkese della Bisbetica Domata in una Londra dove quella commedia non si recitava più da tempo.
E così, nel 1894, la scrittrice Willa Cather può infine affermare che “Shakespeare adesso appartiene alle due nazioni [cioè Inghilterra e USA]” aggiungendo subito che, chissà, “se fosse nato pochi secoli dopo, sarebbe stato un Americano”. Era ormai ben avviato un processo di ‘americanizzazione’ del Bardo che passò attraverso la fortissima rivalità tra Forrest e il divo shakespeariano inglese Macready [con frequenti passaggi alle vie di fatto fra le tifoserie dei due attori], nonché attraverso la creazione di tutta una genealogia alternativa che parte dai natali alternativi immaginati dalla Cather e sfocia nell’individuazione nel Nuovo Mondo dell’ Erede Letterario di Shakespeare, nella persona del grande narratore Herman Melville (p.23); e ancora – fatto importantissimo – al recupero del ‘vero Shakespeare’ [ovvero la confezione di copioni meno lontani da ciò che presumibilmente andava in scena all’inizio del Seicento, in polemica con lo “Shakespeare migliorato” che a lungo la fece da padrone sulle scene inglesi: basti pensare al famigerato, ma inevitabile per centocinquant’anni, Re Lear a lieto fine (sic!) nell’adattamento di Nahum Tate] ad opera di Edwin Booth, l’Eminente Shakespeariano oggetto del case study che conclude il libro della Consiglio (le prime due sezioni si intitolano invece ‘Shakespeare sulla scena’ e ‘Shakespeare sulla pagina’).
Il bardo monarchico si trasforma, a questo punto della storia, in illustrissimo cittadino della ‘repubblica delle lettere’, e il poeta ‘per tutte le epoche’ secondo Ben Jonson diventa per gli statunitensi “esemplare autore della modernità” (p.31): e non si tratta affatto – credetemi – della stessa cosa. Ci troviamo invece di fronte a ciò che si può definire ‘Il Paradosso dell’Appropriazione’, avendo moltissimo a che vedere con il Paradosso della Traduzione/Canonizzazione, identificato da Paul de Man in una conferenza – e nella discussione successiva – che ebbe luogo proprio in America, presso la newyorchese Cornell University, nel 1983. Il paradosso, in poche parole, è il seguente: Tutti Quanti Vogliono Fare Shakespeare, tutti lo amano e tutti lo vogliono perché è ‘Universale’, perché è Senza Tempo, perché Nessuno Come Lui Sa Leggere Nell’Animo Umano (che – pare, dico pare - è sempre e dovunque lo stesso). E, visto che Tutti Lo Vogliono, tutti se ne appropriano, tutti ‘fanno’ Shakespeare ma, in questo ‘farlo” e questo appropriarsene - com’è come non è – puntualmente ‘ci mettono mano’ modificandolo , lo rimodellano, lo fanno proprio enfatizzando certe caratteristiche dell’opera del Bardo, inevitabilmente a scapito di altre; e lo fanno dal loro punto di vista, particolare e situato nel tempo. Attraverso l’appropriazione il testo shakespeariano prospera, continua a circolare e anzi “la sua circolazione viene potenziata”, il che è indispensabile affinché, nella Borsa Valori della letteratura, mantenga la sua posizione al vertice e al centro del Canone Occidentale; eppure in questo processo in cui ciascheduno si fa un proprio Shakespeare, lo tira di qua e di là, taglia questo ed evidenzia quell’altro aspetto di Amleto o di Macbeth, “quello che succede all’originale è che…perde il suo carattere sacro… viene disarticolato, smembrato… e se mettiamo questo processo accanto al modo in cui l’autore viene costantemente sacralizzato…ecco che in un certo senso vediamo che cosa succede” al testo sacro [1]. A tal proposito Shakespeare in America è estremamente istruttivo: gli americani cercavano – e con buone ragioni - lo Shakespeare ‘moderno’, ma il Bardo aveva pur sempre un piede ben piantato nel Medio Evo; ne vollero fare – nel lungo duello tra Forrest e Macready – un campione delle “classi lavoratrici” d’oltreoceano (p.25), eppure Hazlitt in merito aveva ragione da vendere; lo vagheggiarono – con la Cather - americano, laddove i sostenitori delle – invero superstiziose - tesi ‘baconiane’ e ‘oxfordiane’ vollero farne un aristocratico inglese, e tutt’oggi c’è chi invece lo considera discendente dei Crollalanza: se quelli messinesi o quelli della Valtellina resta da decidere. Paul de Man - che a volte si lasciava prendere la mano – nella discussione del 1983 dice che “canonizzazione” è al tempo stesso “de-canonizzazione”, ma non sono sicuro che Aristotele e Lucio Colletti approverebbero: limitiamoci a osservare che il processo di appropriazione/canonizzazione di un testo letterario è segnato dalla moltiplicazione di letture differenti del testo [2], e dall’inevitabile allontanamento dalla (presunta) “identità originale” del testo stesso. Per chi non crede nella magia – nera o bianca non importa – si tratta di un enigma non da poco. Per tentare di risolverlo converrà dare ascolto al grande shakespearologo Terence Hawkes (1932-2014) il quale avvertiva che, senza nulla togliere all’enorme statura del William Shakespeare che visse tra il 1564 e il 1616, le vicende dello ‘Shakespeare’ che è morto e che si è poi rappresentato e studiato lungo questi quattro secoli seguono logiche e percorsi ben lontani dal mondo e dalle intenzioni del Will storico; e che, in definitiva, di per sé stesso “Shakespeare non significa; siamo noi che significhiamo attraverso Shakespeare”[3], mettendoci di volta in volta la faccia, senza garanzie derivanti da chissà quale ascolto adorante del sommo poeta. L’ulteriore carriera statunitense del Bardo, raccontata in Shakespeare in America, sta lì a dimostrare tutto ciò, a partire dalla frattura tardo-ottocentesca fra lo stile “declamatorio, istrionico, energico” sui “palchi dei territori dell’ovest” ed “il cambio di sensibilità verificatosi nei territori dell’est…[dove] si andava affermando un stile più sobrio e delicato”, che mise capo ad una impostazione “più femminile’, dunque meno vigorosa e sensazionale” (pp.45-46). Guardando poi all’appropriazione schiettamente politica di Shakespeare i paradossi sono – anche se solo in apparenza, se quanto argomentato finora è vero - giganteschi: Abramo Lincoln conosceva a memoria “molti dei più importanti soliloqui e orazioni shakespeariani” riportati nelle Lessons in Elocution di William Scott, volume che “lo accompagnò per tutta la vita, oltre a essere utilizzato più volte durante gli anni alla Casa Bianca” (p.34); ma l’assassino di Lincoln, John Wilkes Booth – fratello minore di Edwin e anch’egli celebre attore – volle esplicitamente paragonarsi al Bruto congiurato “liberatore” del Giulio Cesare.
Quella di Cristina Consiglio è una delle voci più incisive e originali dell’anglistica di oggi: ha esordito nel 2013 come meglio non si poteva, traducendo e commentando due scelte di capitoli dei Personaggi del Teatro di Shakespeare di Hazlitt, un testo fondamentale e scandalosamente mai presentato in Italia prima d’allora, e l’anno scorso ha dato alle stampe il primo studio monografico italiano di uno dei grandi della narrativa USA contemporanea, James Purdy[4]. Shakespeare in America è perciò un ricollegarsi agli esordi shakespeariani restando allo stesso tempo sull’altra sponda dell’Atlantico. Questo riuscitissimo primer dovrebbe essere lettura obbligatoria non solo per gli studenti di letteratura inglese e per gli appassionati di Shakespeare, ma anche e soprattutto per chi lavora nell’industria del libro e della cultura in genere, dato che il testo, agile e fitto insieme - e corredato da una succosa bibliografia - è un vero e proprio Eldorado di idee e indicazioni riguardo a un autore che [ zucchero non guasta bevanda, a onta delle recenti ipotesi legislative ] tutto sommato, continua a vendere parecchio.
Cristina Consiglio Shakespeare in America. Storie di attori, lettori e spettatori LB edizioni, Bari, 2019. 62 pp., 10 euro
Note:
[1] Paul de Man, ‘Conclusions’: Walter Benjamin’s ‘The Task of the Translator’ , pp. 73-105 di The Resistance to Theory, University of Minnesota Press, 1986. Il ragionamento di de Man è qui focalizzato sulla traduzione dei classici, ma vale evidentemente pure per le appropriazioni e “riletture” che non passano necessariamente dalla traduzione in un’altra lingua.
[2] Il che, nel caso specifico, comporta direttamente il moltiplicarsi di testi differenti, non essendo sopravvissuti manoscritti di Shakespeare e dovendosi procedere a una collazione dei vari Folios e Quartos in occasione di ogni nuova edizione/traduzione/messa in scena.
[3] Terence Hawkes, Meaning by Shakespeare, Routledge, 1992, p. 3.
[4] William Hazlitt lettore di Shakespeare, Pensa, 2013; Ritratti Romani, Sette Città, 2013; Il vuoto e la visione. Note sulla narrativa di James Purdy, Pensa 2018. Lungo il solco tracciato dalla Consiglio, la traduzione integrale (mia e di Francesco Romeo) dei Personaggi è poi apparsa nel 2016 presso Sellerio.
D’altro canto, come scrive il 15 dicembre del 1816, dopo aver visto una rappresentazione del Coriolano al Covent Garden, un amareggiato William Hazlitt [bardolatra dichiarato ma anche giacobino-bonapartista isolatissimo nell’Inghilterra del ‘dopo Waterloo’], “Shakespeare sembra avere un debole per il versante dispotico” della contesa politica, e non perde occasione di sfottere la plebe; è ben legittimo insomma [aggiunse tempo dopo Hazlitt in risposta alle violentissime polemiche suscitate dalla sua tesi] il “sospetto che Shakespeare propendesse per una delle parti in causa, e le abbia dato più spazio di quanto meritasse”. Questo anche perché un “leone che caccia un gregge di pecore o di asini selvatici è più poetico delle sue prede; e noi parteggiamo addirittura per la belva signorile, perché la nostra vanità o qualche altro sentimento ci dispone a immaginarci al posto del più forte” .
Se dunque chi, su questa Terra, intende compiere una bella scalata verso il riconoscimento e il potere in ambito anche culturale è facile che si mostri adepto di Shakespeare; e se poi lo stesso Bardo è a conti fatti ben lontano da quella “meravigliosa imparzialità” che voleva attribuirgli Coleridge, allora il matrimonio tra gli Stati Uniti d’America del “Destino Manifesto” e Will da Stratford-upon-Avon dovrebbe essere uno di quelli “combinati in cielo”, giusto?
Sì e no, è la risposta che si evince dal libro Shakespeare in America, appena pubblicato da Cristina Consiglio presso LB edizioni di Bari, che inaugura così la sua collana ‘Universitaria’. Innanzitutto, perché si passasse da una fase sostanzialmente amatoriale, dominata - quando l’America era ancora colonia - da “giovani scioperati, assassini di svariati drammi”, secondo la spietata caratterizzazione di William Dunlap (p.13) ad un vero teatro di professionisti non bastarono sulle prime la stessa Rivoluzione iniziata nel 1765 e la successiva Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, anche se il “primo segnale di una risposta specificamente americana” all’opera di Shakespeare e allo stesso bisogno di ridefinire la propria identità culturale “lo si ritrova in opere come l’Epilogue che Jonathan M. Sewell scrisse per una produzione di Coriolanus rappresentata dinanzi alle truppe rivoluzionarie nel 1778” (pp.18-19).
Sarà invece soprattutto l’ottocentesca ‘Gold Rush’ - con annessi e connessi economici e sociali - a dare un forte impulso al movimento teatrale della giovane nazione, dacché il “teatro seguiva la frontiera nel movimento verso l’ovest. La ricerca dell’oro in California portò all’apertura di teatri anche a San Francisco e a Sacramento, per giungere fino in Colorado e nello Utah” (p.19). E’ tuttavia sulla sponda atlantica che fiorisce la carriera shakespeariana del “primo grande attore” born in the USA, ovvero Edwin Forrest (1806-1872), che con il suo stile di recitazione “intorno agli anni Venti di fatto divenne…un simbolo del nazionalismo americano, prepotente e aggressivo” (p.21). Sulla scia di Forrest nascono le altre ‘stelle’ teatrali d’America, da Charlotte Cushman (1816-1876) ad Anna Cora Mowatt (1819-1870), da Edwin Booth (1833-1893) a Robert Mantell (1854-1928), senza dimenticare gli irlandesi americanizzati John Drew e Ada Rehan, che nel 1888 portarono la produzione newyorkese della Bisbetica Domata in una Londra dove quella commedia non si recitava più da tempo.
E così, nel 1894, la scrittrice Willa Cather può infine affermare che “Shakespeare adesso appartiene alle due nazioni [cioè Inghilterra e USA]” aggiungendo subito che, chissà, “se fosse nato pochi secoli dopo, sarebbe stato un Americano”. Era ormai ben avviato un processo di ‘americanizzazione’ del Bardo che passò attraverso la fortissima rivalità tra Forrest e il divo shakespeariano inglese Macready [con frequenti passaggi alle vie di fatto fra le tifoserie dei due attori], nonché attraverso la creazione di tutta una genealogia alternativa che parte dai natali alternativi immaginati dalla Cather e sfocia nell’individuazione nel Nuovo Mondo dell’ Erede Letterario di Shakespeare, nella persona del grande narratore Herman Melville (p.23); e ancora – fatto importantissimo – al recupero del ‘vero Shakespeare’ [ovvero la confezione di copioni meno lontani da ciò che presumibilmente andava in scena all’inizio del Seicento, in polemica con lo “Shakespeare migliorato” che a lungo la fece da padrone sulle scene inglesi: basti pensare al famigerato, ma inevitabile per centocinquant’anni, Re Lear a lieto fine (sic!) nell’adattamento di Nahum Tate] ad opera di Edwin Booth, l’Eminente Shakespeariano oggetto del case study che conclude il libro della Consiglio (le prime due sezioni si intitolano invece ‘Shakespeare sulla scena’ e ‘Shakespeare sulla pagina’).
Il bardo monarchico si trasforma, a questo punto della storia, in illustrissimo cittadino della ‘repubblica delle lettere’, e il poeta ‘per tutte le epoche’ secondo Ben Jonson diventa per gli statunitensi “esemplare autore della modernità” (p.31): e non si tratta affatto – credetemi – della stessa cosa. Ci troviamo invece di fronte a ciò che si può definire ‘Il Paradosso dell’Appropriazione’, avendo moltissimo a che vedere con il Paradosso della Traduzione/Canonizzazione, identificato da Paul de Man in una conferenza – e nella discussione successiva – che ebbe luogo proprio in America, presso la newyorchese Cornell University, nel 1983. Il paradosso, in poche parole, è il seguente: Tutti Quanti Vogliono Fare Shakespeare, tutti lo amano e tutti lo vogliono perché è ‘Universale’, perché è Senza Tempo, perché Nessuno Come Lui Sa Leggere Nell’Animo Umano (che – pare, dico pare - è sempre e dovunque lo stesso). E, visto che Tutti Lo Vogliono, tutti se ne appropriano, tutti ‘fanno’ Shakespeare ma, in questo ‘farlo” e questo appropriarsene - com’è come non è – puntualmente ‘ci mettono mano’ modificandolo , lo rimodellano, lo fanno proprio enfatizzando certe caratteristiche dell’opera del Bardo, inevitabilmente a scapito di altre; e lo fanno dal loro punto di vista, particolare e situato nel tempo. Attraverso l’appropriazione il testo shakespeariano prospera, continua a circolare e anzi “la sua circolazione viene potenziata”, il che è indispensabile affinché, nella Borsa Valori della letteratura, mantenga la sua posizione al vertice e al centro del Canone Occidentale; eppure in questo processo in cui ciascheduno si fa un proprio Shakespeare, lo tira di qua e di là, taglia questo ed evidenzia quell’altro aspetto di Amleto o di Macbeth, “quello che succede all’originale è che…perde il suo carattere sacro… viene disarticolato, smembrato… e se mettiamo questo processo accanto al modo in cui l’autore viene costantemente sacralizzato…ecco che in un certo senso vediamo che cosa succede” al testo sacro [1]. A tal proposito Shakespeare in America è estremamente istruttivo: gli americani cercavano – e con buone ragioni - lo Shakespeare ‘moderno’, ma il Bardo aveva pur sempre un piede ben piantato nel Medio Evo; ne vollero fare – nel lungo duello tra Forrest e Macready – un campione delle “classi lavoratrici” d’oltreoceano (p.25), eppure Hazlitt in merito aveva ragione da vendere; lo vagheggiarono – con la Cather - americano, laddove i sostenitori delle – invero superstiziose - tesi ‘baconiane’ e ‘oxfordiane’ vollero farne un aristocratico inglese, e tutt’oggi c’è chi invece lo considera discendente dei Crollalanza: se quelli messinesi o quelli della Valtellina resta da decidere. Paul de Man - che a volte si lasciava prendere la mano – nella discussione del 1983 dice che “canonizzazione” è al tempo stesso “de-canonizzazione”, ma non sono sicuro che Aristotele e Lucio Colletti approverebbero: limitiamoci a osservare che il processo di appropriazione/canonizzazione di un testo letterario è segnato dalla moltiplicazione di letture differenti del testo [2], e dall’inevitabile allontanamento dalla (presunta) “identità originale” del testo stesso. Per chi non crede nella magia – nera o bianca non importa – si tratta di un enigma non da poco. Per tentare di risolverlo converrà dare ascolto al grande shakespearologo Terence Hawkes (1932-2014) il quale avvertiva che, senza nulla togliere all’enorme statura del William Shakespeare che visse tra il 1564 e il 1616, le vicende dello ‘Shakespeare’ che è morto e che si è poi rappresentato e studiato lungo questi quattro secoli seguono logiche e percorsi ben lontani dal mondo e dalle intenzioni del Will storico; e che, in definitiva, di per sé stesso “Shakespeare non significa; siamo noi che significhiamo attraverso Shakespeare”[3], mettendoci di volta in volta la faccia, senza garanzie derivanti da chissà quale ascolto adorante del sommo poeta. L’ulteriore carriera statunitense del Bardo, raccontata in Shakespeare in America, sta lì a dimostrare tutto ciò, a partire dalla frattura tardo-ottocentesca fra lo stile “declamatorio, istrionico, energico” sui “palchi dei territori dell’ovest” ed “il cambio di sensibilità verificatosi nei territori dell’est…[dove] si andava affermando un stile più sobrio e delicato”, che mise capo ad una impostazione “più femminile’, dunque meno vigorosa e sensazionale” (pp.45-46). Guardando poi all’appropriazione schiettamente politica di Shakespeare i paradossi sono – anche se solo in apparenza, se quanto argomentato finora è vero - giganteschi: Abramo Lincoln conosceva a memoria “molti dei più importanti soliloqui e orazioni shakespeariani” riportati nelle Lessons in Elocution di William Scott, volume che “lo accompagnò per tutta la vita, oltre a essere utilizzato più volte durante gli anni alla Casa Bianca” (p.34); ma l’assassino di Lincoln, John Wilkes Booth – fratello minore di Edwin e anch’egli celebre attore – volle esplicitamente paragonarsi al Bruto congiurato “liberatore” del Giulio Cesare.
Quella di Cristina Consiglio è una delle voci più incisive e originali dell’anglistica di oggi: ha esordito nel 2013 come meglio non si poteva, traducendo e commentando due scelte di capitoli dei Personaggi del Teatro di Shakespeare di Hazlitt, un testo fondamentale e scandalosamente mai presentato in Italia prima d’allora, e l’anno scorso ha dato alle stampe il primo studio monografico italiano di uno dei grandi della narrativa USA contemporanea, James Purdy[4]. Shakespeare in America è perciò un ricollegarsi agli esordi shakespeariani restando allo stesso tempo sull’altra sponda dell’Atlantico. Questo riuscitissimo primer dovrebbe essere lettura obbligatoria non solo per gli studenti di letteratura inglese e per gli appassionati di Shakespeare, ma anche e soprattutto per chi lavora nell’industria del libro e della cultura in genere, dato che il testo, agile e fitto insieme - e corredato da una succosa bibliografia - è un vero e proprio Eldorado di idee e indicazioni riguardo a un autore che [ zucchero non guasta bevanda, a onta delle recenti ipotesi legislative ] tutto sommato, continua a vendere parecchio.
Cristina Consiglio Shakespeare in America. Storie di attori, lettori e spettatori LB edizioni, Bari, 2019. 62 pp., 10 euro
Note:
[1] Paul de Man, ‘Conclusions’: Walter Benjamin’s ‘The Task of the Translator’ , pp. 73-105 di The Resistance to Theory, University of Minnesota Press, 1986. Il ragionamento di de Man è qui focalizzato sulla traduzione dei classici, ma vale evidentemente pure per le appropriazioni e “riletture” che non passano necessariamente dalla traduzione in un’altra lingua.
[2] Il che, nel caso specifico, comporta direttamente il moltiplicarsi di testi differenti, non essendo sopravvissuti manoscritti di Shakespeare e dovendosi procedere a una collazione dei vari Folios e Quartos in occasione di ogni nuova edizione/traduzione/messa in scena.
[3] Terence Hawkes, Meaning by Shakespeare, Routledge, 1992, p. 3.
[4] William Hazlitt lettore di Shakespeare, Pensa, 2013; Ritratti Romani, Sette Città, 2013; Il vuoto e la visione. Note sulla narrativa di James Purdy, Pensa 2018. Lungo il solco tracciato dalla Consiglio, la traduzione integrale (mia e di Francesco Romeo) dei Personaggi è poi apparsa nel 2016 presso Sellerio.
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