
IN TEORIA
NON UNO DI PIÙ
Oltre - e contro - il femminismo liberale
di Marica Migliore 8 novembre 2019
NON UNO DI PIÙ
Oltre - e contro - il femminismo liberale
di Marica Migliore 8 novembre 2019
Femminismo per il 99%: Un manifesto (Laterza, 2019), scritto dalle studiose militanti Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, nasce dall’esigenza di amplificare e mettere a frutto l’esperienza dello Sciopero Internazionale delle Donne dell’8 marzo, organizzato pure negli Stati Uniti su iniziativa anche delle tre autrici. Il libretto si sviluppa su un assunto principale: le oppressioni di genere, di razza, di sesso, nazionali formano una “totalità complessa” dentro il capitalismo.
Il femminismo qui prospettato è un femminismo anticapitalista che si contrappone ad un femminismo liberale.
I concetti principali del libro vengono esposti a partire da 11 tesi. Le prime tesi sono dedicate alla critica del femminismo liberale. Alcune autrici di questo femminismo hanno una visione di “pari opportunità di dominio “ (pag. 4), ovvero si chiede a uomini e donne della classe dominante di condividere equamente lo sfruttamento sul posto di lavoro e l’oppressione nella società. Il femminismo liberale è quindi parte del problema: il suo vero obiettivo non è l’uguaglianza, ma la meritocrazia. Piuttosto che “abolire la gerarchia sociale, si propone di diversificarla, di dare potere a donne di talento, affinché raggiungano la vetta” (pag. 14). Lo scopo è quello di raggiungere le posizioni apicali degli uomini della loro stessa classe sociale. Questo femminismo di classe permette a poche privilegiate “talentuose” di “farsi avanti”, appoggiandosi però sulle donne migranti sottopagate a cui vengono affidati lavori domestici e di cura. È quindi un femminismo dell’1% e non del 99%.
Le autrici propongo invece un femminismo anticapitalista “per il 99%” , basato su un’analisi marxista della società. Il loro pensiero è ben riassunto nella tesi n. 5 nella quale affermano che l’oppressione di genere nel capitalismo è “radicata nella subordinazione della riproduzione sociale alla produzione del profitto” (pag. 24). Ovviamente il capitalismo non ha inventato la subordinazione delle donne, che nasce nelle prime società di classe. Però il capitalismo ha costruito un sessismo nuovo e potente, buono per l’accumulazione: “La sua mossa chiave è stata quella di separare la produzione delle persone dalla produzione per il profitto, assegnando la prima mansione alle donne e subordinando questa funzione all’altra” (pag. 24). Sulla scia di Marx, l’insieme di attività utili a riprodurre forza lavoro è quindi definibile come riproduzione sociale, la quale non riguarda soltanto la riproduzione delle persone in senso biologico, ma significa anche plasmare le persone relativamente a valori, atteggiamenti, abilità, competenze, ecc.
La riproduzione sociale fornisce i presupposti fondamentali alla società in generale e al capitalismo in particolare, ed è attraversata continuamente da altre linee oppressive, come quella di razza, di sesso e nazionale. Le istituzioni politiche, dedicate a mantenere questo schema oppressivo nel capitalismo, da sempre hanno incoraggiato madri, medici, insegnanti ad assicurare che bambini e bambine fossero plasmati come cisgender ed eterosessuali; o hanno incentivato la nascita dell’identità nazionale per tormentare altre popolazioni; o favorito il classismo insegnando ai figli ad essere bravi lavoratori, obbedienti ai padroni e capaci di tollerare lo sfruttamento. Il punto critico per le tre studiose è che “la lotta di classe include le lotte per la riproduzione sociale” (pag. 28).
Nella tesi n. 7 del manifesto si affronta il problema della libertà sessuale. Una critica viene posta al conservatorismo sessuale, che trova un’immagine speculare nel progressismo sessuale liberista. Quest’ultimo sembra valorizzare la libertà sessuale, ma in realtà lascia intatte le condizioni strutturali che alimentano omofobia e transfobia, a partire dal ruolo della famiglia nella riproduzione sociale (pag. 41).
Nell’ultima parte le autrici lanciano un appello a tutti i movimenti radicali per unirsi in una rivolta anticapitalista collettiva, sull’onda dei movimenti come Ni Una Menos, uno dei pochi movimenti femministi, anticapitalisti e transazionali.
Nelle conclusioni, le tre studiose dichiarano nuovamente il loro interesse particolare per la teoria della riproduzione sociale, affermando che il lavoro di produzione del profitto non potrebbe esistere senza il lavoro non retribuito delle donne che si occupano della produzione e cura della forza lavoro. Pertanto il capitalismo nasconde qualcosa oltre al plusvalore, che ne rende possibile, però, la formazione.
Chi volesse trovare nelle ultime pagine una proposta politica dettagliata potrebbe rimanere deluso. Le tre femministe chiariscono infatti che il manifesto “non prescrive i contorni precisi di un’alternativa: questa deve emergere nel corso delle lotte volte a crearla.” (pag. 80)
Questo manifesto rappresenta uno strumento importante per capire il funzionamento del capitalismo in relazione alla questione di genere. Offre una critica analitica del femminismo liberale che ha incantato molte studiose e molti studiosi, nonché politiche e politici di professione. Infine, grazie alla teoria marxista della riproduzione sociale, permette di capire la struttura sociale del capitalismo, proponendo una pratica politica utile ad organizzare lotte efficaci. Infatti, una delle caratteristiche principali degli ultimi scioperi femministi non riguarda solo l’interruzione della produzione di beni e servizi nei luoghi di lavoro, ma anche la rivendicazione dell’accesso al welfare e lo sciopero dal lavoro di riproduzione (biologico e di cura).
Il femminismo qui prospettato è un femminismo anticapitalista che si contrappone ad un femminismo liberale.
I concetti principali del libro vengono esposti a partire da 11 tesi. Le prime tesi sono dedicate alla critica del femminismo liberale. Alcune autrici di questo femminismo hanno una visione di “pari opportunità di dominio “ (pag. 4), ovvero si chiede a uomini e donne della classe dominante di condividere equamente lo sfruttamento sul posto di lavoro e l’oppressione nella società. Il femminismo liberale è quindi parte del problema: il suo vero obiettivo non è l’uguaglianza, ma la meritocrazia. Piuttosto che “abolire la gerarchia sociale, si propone di diversificarla, di dare potere a donne di talento, affinché raggiungano la vetta” (pag. 14). Lo scopo è quello di raggiungere le posizioni apicali degli uomini della loro stessa classe sociale. Questo femminismo di classe permette a poche privilegiate “talentuose” di “farsi avanti”, appoggiandosi però sulle donne migranti sottopagate a cui vengono affidati lavori domestici e di cura. È quindi un femminismo dell’1% e non del 99%.
Le autrici propongo invece un femminismo anticapitalista “per il 99%” , basato su un’analisi marxista della società. Il loro pensiero è ben riassunto nella tesi n. 5 nella quale affermano che l’oppressione di genere nel capitalismo è “radicata nella subordinazione della riproduzione sociale alla produzione del profitto” (pag. 24). Ovviamente il capitalismo non ha inventato la subordinazione delle donne, che nasce nelle prime società di classe. Però il capitalismo ha costruito un sessismo nuovo e potente, buono per l’accumulazione: “La sua mossa chiave è stata quella di separare la produzione delle persone dalla produzione per il profitto, assegnando la prima mansione alle donne e subordinando questa funzione all’altra” (pag. 24). Sulla scia di Marx, l’insieme di attività utili a riprodurre forza lavoro è quindi definibile come riproduzione sociale, la quale non riguarda soltanto la riproduzione delle persone in senso biologico, ma significa anche plasmare le persone relativamente a valori, atteggiamenti, abilità, competenze, ecc.
La riproduzione sociale fornisce i presupposti fondamentali alla società in generale e al capitalismo in particolare, ed è attraversata continuamente da altre linee oppressive, come quella di razza, di sesso e nazionale. Le istituzioni politiche, dedicate a mantenere questo schema oppressivo nel capitalismo, da sempre hanno incoraggiato madri, medici, insegnanti ad assicurare che bambini e bambine fossero plasmati come cisgender ed eterosessuali; o hanno incentivato la nascita dell’identità nazionale per tormentare altre popolazioni; o favorito il classismo insegnando ai figli ad essere bravi lavoratori, obbedienti ai padroni e capaci di tollerare lo sfruttamento. Il punto critico per le tre studiose è che “la lotta di classe include le lotte per la riproduzione sociale” (pag. 28).
Nella tesi n. 7 del manifesto si affronta il problema della libertà sessuale. Una critica viene posta al conservatorismo sessuale, che trova un’immagine speculare nel progressismo sessuale liberista. Quest’ultimo sembra valorizzare la libertà sessuale, ma in realtà lascia intatte le condizioni strutturali che alimentano omofobia e transfobia, a partire dal ruolo della famiglia nella riproduzione sociale (pag. 41).
Nell’ultima parte le autrici lanciano un appello a tutti i movimenti radicali per unirsi in una rivolta anticapitalista collettiva, sull’onda dei movimenti come Ni Una Menos, uno dei pochi movimenti femministi, anticapitalisti e transazionali.
Nelle conclusioni, le tre studiose dichiarano nuovamente il loro interesse particolare per la teoria della riproduzione sociale, affermando che il lavoro di produzione del profitto non potrebbe esistere senza il lavoro non retribuito delle donne che si occupano della produzione e cura della forza lavoro. Pertanto il capitalismo nasconde qualcosa oltre al plusvalore, che ne rende possibile, però, la formazione.
Chi volesse trovare nelle ultime pagine una proposta politica dettagliata potrebbe rimanere deluso. Le tre femministe chiariscono infatti che il manifesto “non prescrive i contorni precisi di un’alternativa: questa deve emergere nel corso delle lotte volte a crearla.” (pag. 80)
Questo manifesto rappresenta uno strumento importante per capire il funzionamento del capitalismo in relazione alla questione di genere. Offre una critica analitica del femminismo liberale che ha incantato molte studiose e molti studiosi, nonché politiche e politici di professione. Infine, grazie alla teoria marxista della riproduzione sociale, permette di capire la struttura sociale del capitalismo, proponendo una pratica politica utile ad organizzare lotte efficaci. Infatti, una delle caratteristiche principali degli ultimi scioperi femministi non riguarda solo l’interruzione della produzione di beni e servizi nei luoghi di lavoro, ma anche la rivendicazione dell’accesso al welfare e lo sciopero dal lavoro di riproduzione (biologico e di cura).
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