
Un film di animazione molto annunciato e molto sostenuto dalla critica internazionale, riporta al centro dell’attenzione la figura di Vincent van Gogh, e giusto quando, a Vicenza, una serissima mostra curata da “Linea d’ombra” di Marco Goldin, mettendo in fila ben 120 titoli, ne propone una rigorosa rivisitazione dell’opera pittorica e grafica. Il lungometraggio – coproduzione anglo polacca – della coppia Dorotea Kobiela e Hugh Wechman (“pittura animata” più attori veri, nei flashback, trattati perché sembrino disegni in bianco e nero) è solo l’ultimo episodio di un lungo romanzo a tinte forti che scommette tutto sul vecchio inossidabile binomio genio e sregolatezza (o follia) per raccontare la vita e la pittura (molto la prima, quasi per niente la seconda) di uno degli artisti che – con Caravaggio, anche lui in mostra fino a gennaio, ma a Milano – meglio incarnano il suddetto binomio, opportunamente completato dalla morte precoce e violenta, o comunque drammatica.
Loving Vincent è indubbiamente un bel giocattolo: suggestivo, coinvolgente, con i colori e i paesaggi che sembrano voler attirare lo spettatore sull’altro lato dello specchio; ma purtroppo il magnifico spettacolo, con tutto l’apparato neobarocco delle sue bellurie, non arricchisce di una virgola la conoscenza di van Gogh, e non fa altro che ribadire e propagandare il trito luogo comune sulla vita maledetta e patologica che da oltre un secolo, a parte qualche lodevole eccezione, lavora all’occultamento sistematico del suo contributo alla nascita della pittura moderna; e quanto più biografi cinematografici “di finzione” e documentaristi divulgatori fingono di volersene occupare, tanto più scavano e razzolano nel comodo e remunerativo campo della vita spericolata e border line.
Si può facilmente capire la ragione di questa furba ostinazione a reiterare il solito (e solido) modello, molto accattivante ma fuorviante: funziona, richiama le masse che chiedono emozioni a buon mercato (per lo meno è quello che pensano i produttori), è semplice da replicare e ci si risparmia la fatica dell’approfondimento e quella di trovare una zona mediana tra lo specialismo degli storici dell’arte e la banalizzazione più corriva.
L’ammirevole, certosino lavoro dei 125 (!) artisti chiamati a rifare il tratto pittorico dell’olandese, i suoi paesaggi innervati da una disciplinata energia meritava ben altro impegno, ben altro studio e desiderio di conoscenza. E invece no; meglio restare sul terreno sicuro della vie maudite, dell’orecchio tagliato regalato alla prostituta, delle liti con Gaugin e Gachet, delle bevute e delle stranezze da scemo del villaggio deriso e infastidito da una banda di ragazzini. Il solito repertorio, insomma, con una gustosa novità, una spezia che aggiunge alla vecchia ricetta il piccante aromatico che mancava: il giallo sulla morte.
Già. Non tutto è chiaro sul quel colpo di pistola che tre giorni dopo ne provocherà la morte (il fratello Theo lo seguirà appena sei mesi dopo). Forse qualcuno, probabilmente un perdigiorno di Auvers, compagno di bevute serali, ha sparato quel colpo fatale, probabilmente senza neppure volerlo davvero fare, una specie di scherzo finito male (è a lui che pensava Vincent quando sul letto di morte dice “non incolpate nessuno”?)
È questa la tesi degli autori di Loving Vincent; e ne affidano l’esplicitazione ad alcuni personaggi, primo fra tutti Albert Roulin, il vecchio direttore delle poste di Arles, amico di Vincent. Anche l’intraprendente Armand, il figlio, è convinto che non si sia trattato di suicidio e, recatosi a Auvers per consegnare a Gachet l’ultima lettera di Vincent a Theo, avvia una personale e simpatetica indagine con l’obiettivo di chiarire una volta per tutte il mistero che ancora in parte nasconde i fatti che precedettero la fine dello sfortunato pittore.
Che cosa scopre il giovane Armand? Intanto che, vivaddio, quello strambo artista era una persona gentile ed educata. Sì, aveva le sue stranezze, ma era mite e cortese, silenzioso e affettuoso coi bambini. Poi che il giorno del fatidico sparo aveva litigato con Gachet, medico per volontà paterna e pittore dilettante con ambizione frustrata dal poco talento. Che andava in barca con la bella figlia del dottore. Che aveva ordinato al vecchio papà Tanguy una partita di colori proprio alla vigilia del presunto suicidio (e se queste erano le intenzioni, allora perché pensare ai colori…?). E che secondo il medico che lo visitò per primo il colpo era stato sparato da una certa distanza, non a bruciapelo…
Si va avanti così per la canonica ora e mezza, e solo chi nulla sa della vicenda può credere che alla fine il mistero verrà risolto, che il prezzo del biglietto comprenda la rivelazione dell’anno, almeno per quel che riguarda le faccende dell’arte. Dopo i titoli di coda, si esce dal cinema con qualche dubbio in più sulla morte di van Gogh e con il livello di conoscenza sulla specificità e la posizione della sua arte nei movimenti d’avanguardia rimasto invariato.
Qualche dubbio e una certezza: Loving Vincent è l’ennesima occasione sprecata, un altro tassello aggiunto all’inutile, quando non dannosa spettacolarizzazione di una delle più entusiasmanti esperienze artistiche del Diciannovesimo secolo, ancora ingabbiata nel consunto stereotipo arte-follia (più sei bravo più devi essere strano, se non proprio fuori di testa) al quale hanno smesso di credere da un pezzo anche i bambini.
“Che importanza ha?” dice la figlia di Gachet all’insistente Armand. È questa la domanda da farsi: che importanza ha sapere come sono andate le cose? Quale nuova luce getta sul suo straordinario lavoro artistico, sulla sua lucida ricerca linguistica? È un vero peccato che la giovanile saggezza della figlia di Gachet non sia stata ascoltata dai due registi, anche soltanto un minuto prima dell’inizio della lavorazione.
Le sue parole, fuggite dal seno di una sceneggiatura e di un progetto che badano a tutt’altro, resteranno nella memoria degli spettatori più attenti come la flebile voce del buon senso nel grande spolvero dello spettacolo e degli ammalianti effetti speciali. Possiamo solo sperare che qualcuno un giorno se ne ricordi e riparta da lì, da quelle parole. È l’unico modo d’amare davvero Vincent.
Loving Vincent è indubbiamente un bel giocattolo: suggestivo, coinvolgente, con i colori e i paesaggi che sembrano voler attirare lo spettatore sull’altro lato dello specchio; ma purtroppo il magnifico spettacolo, con tutto l’apparato neobarocco delle sue bellurie, non arricchisce di una virgola la conoscenza di van Gogh, e non fa altro che ribadire e propagandare il trito luogo comune sulla vita maledetta e patologica che da oltre un secolo, a parte qualche lodevole eccezione, lavora all’occultamento sistematico del suo contributo alla nascita della pittura moderna; e quanto più biografi cinematografici “di finzione” e documentaristi divulgatori fingono di volersene occupare, tanto più scavano e razzolano nel comodo e remunerativo campo della vita spericolata e border line.
Si può facilmente capire la ragione di questa furba ostinazione a reiterare il solito (e solido) modello, molto accattivante ma fuorviante: funziona, richiama le masse che chiedono emozioni a buon mercato (per lo meno è quello che pensano i produttori), è semplice da replicare e ci si risparmia la fatica dell’approfondimento e quella di trovare una zona mediana tra lo specialismo degli storici dell’arte e la banalizzazione più corriva.
L’ammirevole, certosino lavoro dei 125 (!) artisti chiamati a rifare il tratto pittorico dell’olandese, i suoi paesaggi innervati da una disciplinata energia meritava ben altro impegno, ben altro studio e desiderio di conoscenza. E invece no; meglio restare sul terreno sicuro della vie maudite, dell’orecchio tagliato regalato alla prostituta, delle liti con Gaugin e Gachet, delle bevute e delle stranezze da scemo del villaggio deriso e infastidito da una banda di ragazzini. Il solito repertorio, insomma, con una gustosa novità, una spezia che aggiunge alla vecchia ricetta il piccante aromatico che mancava: il giallo sulla morte.
Già. Non tutto è chiaro sul quel colpo di pistola che tre giorni dopo ne provocherà la morte (il fratello Theo lo seguirà appena sei mesi dopo). Forse qualcuno, probabilmente un perdigiorno di Auvers, compagno di bevute serali, ha sparato quel colpo fatale, probabilmente senza neppure volerlo davvero fare, una specie di scherzo finito male (è a lui che pensava Vincent quando sul letto di morte dice “non incolpate nessuno”?)
È questa la tesi degli autori di Loving Vincent; e ne affidano l’esplicitazione ad alcuni personaggi, primo fra tutti Albert Roulin, il vecchio direttore delle poste di Arles, amico di Vincent. Anche l’intraprendente Armand, il figlio, è convinto che non si sia trattato di suicidio e, recatosi a Auvers per consegnare a Gachet l’ultima lettera di Vincent a Theo, avvia una personale e simpatetica indagine con l’obiettivo di chiarire una volta per tutte il mistero che ancora in parte nasconde i fatti che precedettero la fine dello sfortunato pittore.
Che cosa scopre il giovane Armand? Intanto che, vivaddio, quello strambo artista era una persona gentile ed educata. Sì, aveva le sue stranezze, ma era mite e cortese, silenzioso e affettuoso coi bambini. Poi che il giorno del fatidico sparo aveva litigato con Gachet, medico per volontà paterna e pittore dilettante con ambizione frustrata dal poco talento. Che andava in barca con la bella figlia del dottore. Che aveva ordinato al vecchio papà Tanguy una partita di colori proprio alla vigilia del presunto suicidio (e se queste erano le intenzioni, allora perché pensare ai colori…?). E che secondo il medico che lo visitò per primo il colpo era stato sparato da una certa distanza, non a bruciapelo…
Si va avanti così per la canonica ora e mezza, e solo chi nulla sa della vicenda può credere che alla fine il mistero verrà risolto, che il prezzo del biglietto comprenda la rivelazione dell’anno, almeno per quel che riguarda le faccende dell’arte. Dopo i titoli di coda, si esce dal cinema con qualche dubbio in più sulla morte di van Gogh e con il livello di conoscenza sulla specificità e la posizione della sua arte nei movimenti d’avanguardia rimasto invariato.
Qualche dubbio e una certezza: Loving Vincent è l’ennesima occasione sprecata, un altro tassello aggiunto all’inutile, quando non dannosa spettacolarizzazione di una delle più entusiasmanti esperienze artistiche del Diciannovesimo secolo, ancora ingabbiata nel consunto stereotipo arte-follia (più sei bravo più devi essere strano, se non proprio fuori di testa) al quale hanno smesso di credere da un pezzo anche i bambini.
“Che importanza ha?” dice la figlia di Gachet all’insistente Armand. È questa la domanda da farsi: che importanza ha sapere come sono andate le cose? Quale nuova luce getta sul suo straordinario lavoro artistico, sulla sua lucida ricerca linguistica? È un vero peccato che la giovanile saggezza della figlia di Gachet non sia stata ascoltata dai due registi, anche soltanto un minuto prima dell’inizio della lavorazione.
Le sue parole, fuggite dal seno di una sceneggiatura e di un progetto che badano a tutt’altro, resteranno nella memoria degli spettatori più attenti come la flebile voce del buon senso nel grande spolvero dello spettacolo e degli ammalianti effetti speciali. Possiamo solo sperare che qualcuno un giorno se ne ricordi e riparta da lì, da quelle parole. È l’unico modo d’amare davvero Vincent.
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