
SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA
NON HO L'ETÀ
Esiste la Letteratura per Ragazzi?
di Marcello Benfante 12 settembre 2018
NON HO L'ETÀ
Esiste la Letteratura per Ragazzi?
di Marcello Benfante 12 settembre 2018
“Perché nei libri dei ragazzi c’è tutto”
(Ennio Flaiano Diario notturno)
La soffitta di Tommy e Tuppence
Vi ricordate il folgorante inizio de Le porte di Damasco di Agatha Christie?
“ ‘Libri!’ esclamò Tuppence, e non fu solo una parola, ma uno scatto d’impazienza”.
Un apritisesamo, piuttosto. Tuppence nel travaglio di un trasloco ha trovato un tesoro. Di carta, ovviamente, ma non meno prezioso. È un mucchio di libri relegati nella soffitta della casa che con Tommy ha appena acquistato: “una casa proprio come piace a noi, la casa che avevamo sempre desiderato”.
Sono libri che appartenevano ai vecchi proprietari, che la coppia di ex investigatori, ormai in pensione, ha comprato per una modesta cifra insieme ad alcuni “mostruosi” mobili di cui si è subito sbarazzata. Ma i “libri no, ho visto subito che erano belli, soprattutto quelli per ragazzi”, dice Tuppence.
Si tratta infatti di alcuni intramontabili classici per l’infanzia e l’adolescenza, ossia di una “miniera d’oro di ricordi”, un bene inestimabile comprato per poche sterline.
Ma sulla gioia del ritrovamento della bibliotechina per ragazzi si stende un velo di crepuscolare malinconia. Tommy e Tuppence stanno per diventare anziani, tanto da chiedersi se la loro schiena sopporterà il ginnico compito di sistemare i volumi sugli scaffali, di prenderli, spostarli, riporli. E peraltro alla stessa Agatha Christie, ormai ottantatreenne, restano solo tre anni di vita.
Romanzo senile, di nostalgie e regressioni fantastiche agli anni d’oro della prima giovinezza, Le porte di Damasco appare infatti nel 1973 ed è l’ultima opera scritta dalla celebre giallista di Torquay (ne verranno pubblicate altre, prima del fatidico 1976, ma già composte in precedenza).
Ciò fa de Le porte di Damasco (il cui titolo originale è, non a caso, Postern of Fate) un libro giustappunto postremo e fatale che potremmo definire in qualche modo testamentario, pur appartenendo a un filone minore dell’opera della Christie: le inchieste prevalentemente spionistiche dei coniugi Thomas Beresford (Tommy) e Prudence Cowley (Tuppence), protagonisti di un ciclo di quattro romanzi e di una scarna serie di racconti.
Il messaggio che la Christie consegna ai lettori alla fine della sua carriera non è dunque l’elogio del giallo, di cui fu l’incontrastata Regina, bensì l’elogio di un genere forse ancora più sottovalutato: la letteratura per ragazzi.
Un genere, aggiungiamo noi, che praticamente non esiste, consistendo in buona sostanza nelle intenzioni dei suoi autori (non sempre chiarissime a loro stessi) e nelle disposizioni psicologiche dei suoi lettori, cioè nelle variabili aspettative della creazione e della fruizione.
Naturalmente, la letteratura destinata all’infanzia e all’adolescenza esiste per la critica, per gli storici, per gli editori e i librai. Per il senso comune, potremmo dire. Ma i suoi confini e la sua stessa definizione sono disseminati di equivoci, di malintesi, di asincronie e di slittamenti imprevedibili.
Ma torniamo intanto ai libri felicemente riscoperti da Tuppence. Per ragioni di spazio, essendo troppi, bisognerà forse scartarne alcuni, a meno di costruire una stanza in più solo per loro. Ma la cernita non si profila agevole. Anzi: “Dobbiamo prima esaminarli uno per uno e decidere quali vogliamo tenere noi. Io ho già cominciato a fare una prima selezione: avventure, fiabe, filastrocche e tutti quei bellissimi racconti su scuole e collegi frequentati sempre, chissà perché, da bambini ricchissimi”.
Possiamo facilmente supporre che, nonostante le laconiche e ragionevoli obiezioni di Tommy, che vorrebbe salvaguardare un suo spazio vitale, gli scarti che infine stabilirà Tuppence saranno pochissimi, anche se l’obiettivo è quello, assai meritevole, di donarli a un ospedale pediatrico.
Non sappiamo quali libri verranno ripudiati. In compenso siamo sufficientemente edotti sulle predilezione di Tuppence (e ovviamente della Christie).
Tra i titoli più famosi spicca Il giardino segreto della Hodgson Burnett (il suo preferito) e naturalmente Il piccolo Lord. Né può mancare Alice nel paese delle meraviglie e Alice nello specchio di Lewis Carroll (cui spesso i giallisti hanno attinto in virtù del loro tono enigmatico).
Fa capolino il poetico Winny-Puh l’orsetto di Alan Alexander Milne. Nell’elenco compare pure I pattini d’argento di Mary Mapes Dodge. E poi romanzi prettamente avventurosi ed esotici come Sotto due bandiere di Ouida (Marie Louise de la Ramèe), destinato prevalentemente a un pubblico femminile, o Il prigioniero di Zenda di Anthony Hope, classico dell’intrigo fiabesco a cui largamente si è ispirato il cinema. O ancora Il segno rosso del coraggio di Stephen Crane, capolavoro di introspezione psicologica che ha davvero pochissimo (o moltissimo?) a che fare con la letteratura per ragazzi. Un insieme piuttosto eterogeneo, quindi.
Ma il posto d’onore nella entusiastica rassegna di Tuppence spetta (a proposito di equivoci) a Stevenson con L’isola del tesoro (“lo so quasi a memoria”), Il ragazzo rapito (“che mi piaceva tanto!”) con il suo seguito Catriona e soprattutto La freccia nera (“il primo vero romanzo che abbia letto”).
Si capisce subito che proprio La freccia nera (a cui è esplicitamente dedicato il titolo di un capitolo) si rivelerà la chiave del mystery.
Tuppence non resiste infatti alla tentazione di riallacciare un rapporto con il suo primo libro: “ ‘Che bellezza’ mormorò tra sé. ‘Me lo ricordo così poco che posso divertirmi a rileggerlo tutto’ ”.
Da questo smemorato ritorno alle origini emergerà un indizio rivelatore, una specie di crittogramma elaborato proprio da un ragazzo. Un ragazzo malato e destinato a una morte precoce che sembra proprio il protagonista di uno di quei racconti strappalacrime per adolescenti introversi a cui piace crogiolarsi un po’ nel dolore (altrui).
Chiuso l’episodio iniziale, brillantissimo, del rinvenimento letterario, prende corpo l’inchiesta vera e propria, in cui i due investigatori congiungono con sperimentata sinergia le loro diverse doti: l’ordine analitico di lui e la coraggiosa fantasia di lei (che è un po’ come dire il rigore logico del romanzo poliziesco e l’estro giocoso della letteratura per ragazzi).
La detective story procede in modo piuttosto prevedibile. Più interessanti sono invece alcune notazioni sulle prime letture giovanili. Per esempio, a che età il bambino inizia a leggere libri come quelli che abbiamo citato? Tuppence sembra propensa a credere che si tratti di un’età molto precoce. Intorno agli otto anni. Tommy su questo è invece piuttosto scettico o semplicemente più realistico. Sull’argomento torneremo più avanti.
Un altro importante quesito che il testo della Christie ci propone è l’opportunità o meno di proporre ai nostri figli, nipoti, alunni gli stessi libri che piacquero a noi quando avevamo la loro età.
“Mi sembra sbagliato dargli da leggere quelli che leggevamo noi”, afferma Tommy, col suo prosaico buon senso.
“Eppure, io conservo un bel ricordo di quei libri, anche se molti erano già vecchi al tempo di mia nonna”, ribatte con ardore la più sentimentale Tuppence.
Nella mia ormai lunga carriera di insegnante ho potuto constatare che un classico funziona quasi sempre, di generazione in generazione.
E non c’è dubbio da che parte stia Agatha Christie, che dissemina il romanzo di filastrocche e indovinelli per mantenere un lieve tono fiabesco, e infine ricorre perfino a una “squadra di ragazzini” investigatori che allude e ammicca agli “irregolari di Baker Street” di Conan Doyle (ma Sherlock Holmes è stranamente assente dalla bibliotechina della soffitta, benché si rifaccia ampiamente in Sfida a Poirot, altro episodio dagli interessanti risvolti parodici e metaletterari).
Le porte di Damasco si chiude con un comico omaggio a John Stanley Weyman (1855-1928), autore di romanzi storici un tempo assai popolare, ma non esattamente riconducibile alla letteratura per ragazzi. Insomma, un ennesimo disguido, che va a ingarbugliare ulteriormente il profilo di un genere, secondo le indicazioni fornite dalla Christie, costituito da una congerie variamente assortita di titoli di evasione e di intrattenimento.
Forever Young?
Abbiamo messo molti argomenti sul tappeto. Cominciamo adesso a esaminarli. A partire da quello dell’età, solo apparentemente secondario.
Consulto su internet un elenco dei “100 libri per ragazzi imperdibili”. Sorvoliamo sul fatto che gran parte dei titoli proposti sono tutt’altro che imperdibili. Non è su questo che intendo soffermarmi. Di ciascun libro è suggerita la fascia d’età più opportuna a cui indirizzarlo. Le favole al telefono di Gianni Rodari sono consigliate a una fascia di lettori che va dai 4 ai 6 anni. Capisco che i tempi attuali siano tempi di precocissimo apprendimento della lettura, ma quattro anni non è troppo presto? Ci saranno pure bambini che sanno già leggere a quattro anni, ma saranno anche capaci di leggere un libro? E di capire l’assoluta non banalità del messaggio di Rodari?
L’esempio mi serve a dire che talvolta si esagera. Si pretende troppo da un’infanzia troppo presto e malamente addestrata e ingozzata, e poi da una adolescenza troppo superficialmente addottrinata. Diamogli il tempo ai bambini, ai ragazzi, di crescere, ciascuno col suo ritmo, anche attraverso adeguate e proporzionate letture.
Quando Tommy solleva ironicamente dei dubbi sul curriculum di lettrice della moglie (“Sii sincera, Tuppence, sapevi già leggere a otto anni?”), non si riferisce ovviamente alla capacità tecnica di leggere, che Tuppence ha acquisito all’età di cinque anni, bensì alla capacità di comprendere appieno un testo relativamente complesso per un bambino come Androclo e il leone di George Bernard Shaw.
Probabilmente possiamo rispondere di sì, poiché conosciamo e apprezziamo le doti di intelligenza di Tuppence, il suo acume e il suo intuito.
Tuttavia, a volte il mercato editoriale e la pedagogia (tristi nemici del piacere della lettura) sembrano farsi eccessive illusioni sulle reali capacità da parte dei giovani lettori di affrontare libri di una certa lunghezza, di una articolata trama, con profonde implicazioni tematiche.
Non è un caso che Tuppence abbia dimenticato quasi interamente La freccia nera, che è appunto un romanzo alquanto intricato (un anno io lo proposi a una mia classe, una seconda media, ossia a ragazzi di circa dodici anni, che incontrarono non poche difficoltà a raccapezzarsi tra tanti personaggi e tanti fatti).
Un meccanismo psicologico assai frequente è la retrodatazione di alcune letture giovanili in una sorta di mitica età dell’innocenza.
Naturalmente esistono i lettori molto precoci, ma io che non lo sono stato ho sempre una irriducibile diffidenza nei confronti dei loro inverosimili exploit.
Harold Bloom, per esempio, ha raccontato di aver letto Moby Dick a soli dieci anni.
“Rileggo Moby Dick dacché mi sono innamorato di questo romanzo nel 1940, quando ero un bambino di dieci anni affascinato da Hart Crane, Whitman, William Blake, Shakespeare”.
Uno strano bambino, possiamo ben dire. Un bambino che non perde il suo prezioso tempo con fumetti e romanzetti avventurosi, feuilleton tenebrosi, eroi mascherati, arcieri infallibili, cavalieri misteriosi, investigatori onniscienti, cappe e spade, gobbi e mostri, vergini e dark lady e tutto il magnifico repertorio della cosiddetta letteratura di massa o paraletteratura. Ma che invece (peggio per lui) si va saggiamente costruendo come il grande critico che sarà (e che indubbiamente è).
“Moby Dick andò a costituire un quintetto con Il ponte, Canto di me stesso, I quattro zoa di Blake e Re Lear, un gruppo di opere visionarie che trasformò uno stupido ragazzino in un critico ed esegeta appassionato anziché in un poeta”.
Ovviamente a quello che qui è definito uno “stupido ragazzino” bisogna sostituire (con molto rispetto ma senza troppa invidia) la definizione di genio. Un genio capace già a nove anni di entusiasmarsi, di piangere ed esultare per le sorti dei personaggi di Thomas Hardy, D. H. Lawrence, Henry James. Laddove un vero bambino di nove anni si sarebbe estasiato di fronte alle mirabolanti gesta di Ivanhoe e di Mandrake o di altre mille maschere del suo gioco. Un vero bambino (almeno ai tempi di Harold Bloom come ai miei) sarebbe rimasto commosso e turbato dall’incontro con il potere magico di una storia di pirati, di un’avventura di frontiera, di un duello spaziale, di un fumetto trovato casualmente in una bancarella dell’usato. Tutte epifanie e stupori che il piccolo Harold Bloom (e ce ne dispiace) non sembra avere mai esperito, tutto preso com’era a bruciare le tappe della sua formazione intellettuale, col rischio irreparabile di ridurre tutto in cenere e fumo.
Mi domando, per esempio, se le belle pagine che Bloom dedica a Huckleberry Finn non siano monche di un intimo coinvolgimento con Tom Sawyer, romanzo felicemente fanciullesco che non assurge alla dimensione del capolavoro, ma è innegabilmente la premessa al grande respiro epico del suo impareggiabile seguito.
Parlando dell’apertura di Emerson a Whitman, foriera di formidabili conseguenze sulla critica americana, Bloom rimembra e confessa:
“Nella mia vita, un’esperienza paragonabile è iniziata con il mio decimo compleanno, quando ho trovato The Collected Poems of Hart Crane nella sezione Melrose della Bronx Public Library. Non avevo mai visto alcun riferimento a Crane, ma ho aperto il volume su Atlantide, la conclusione del Ponte, e sono stato trasformato dallo splendore invocatorio”.
Questo tipo di straordinarie intuizioni giovanili, che certamente testimoniano di una sensibilità e di un acume non comuni, mi sorprendono meno dell’intelligenza e della perseveranza, della oculata pazienza e della disciplina interiore che occorrono a un bambino o a un ragazzino per affrontare un’opera mastodontica e non meno ostica del misterioso Crane come il capolavoro melvilliano.
Per quanto mi riguarda, anch’io ho avuto nell’infanzia un incontro fecondo con l’ambivalente balena bianca di Melville e l’enigmatico Queequeg, ma si trattava di un’edizione ridotta e semplificata (che peraltro non riuscii a leggere interamente, anche perché il libro non era mio) di cui mi colpirono soprattutto le illustrazioni.
Ora, non ho alcuna difficoltà a supporre e ad ammettere che il giovanissimo Harold Bloom sia stato in nuce un critico geniale, e di una natura straordinariamente precoce. Ma se le cose stanno così, allora Harold Bloom non è stato mai un bambino né mai un ragazzino. E pertanto non ha mai potuto leggere (intendo veramente leggere) libri per l’infanzia e per la pre-adolescenza (e qui per prudenza mi fermo). Cioè un tipo di libri, a cui corrisponde un particolare tipo di lettura, per i quali occorrono occhi freschi, ingenui, incontaminati.
Ed è vero che questo genere di sguardo può essere recuperato anche da un adulto, ma soltanto da chi lo ha posseduto da piccolo e lo ha conservato con sé, in modo più o meno consapevole, gelosamente o distrattamente.
Chi cerca un tesoro trova un romanzo
Mi rendo conto che sto grosso modo seguendo le orme lasciate dal “Fanciullino” pascoliano. Cioè, in un certo senso, la schizofrenia poetica di Giovanni Pascoli.
“È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come un campanello”.
Davvero, non si poteva descrivere meglio, la dicotomia del nostro mondo interiore. E ho sempre pensato che questo testo, il cui primo nucleo risale al 1897, abbia influenzato in qualche modo, diretto o indiretto, la creazione del Peter Pan di James Matthew Barrie, il cui abbozzo iniziale è contenuto nel racconto L’uccellino bianco del 1902.
Ripartiamo dunque dalla illuminante riflessione pascoliana, seppure prescindendo da certe troppo enfatiche derive decadenti e da certa didascalica e schematica psicologia del puer aeternus.
È in tutti, dice Pascoli, il “fanciullo musico”. Cioè il poeta, l’artista, il sognatore. “Egli è quello, dunque, che ha paura del buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alla bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei”.
Ma, crescendo, queste attitudini o facoltà fantastiche andranno quasi sempre smarrite, poiché tutti gli uomini “si armano, per la battaglia della vita” e diventano sordi alla sua voce, e ne dimenticano o perfino negano la stessa esistenza. Lo scollamento avviene gradualmente: il fanciullino interiore, che dapprima coincide con il bambino in carne e ossa, viene relegato a poco a poco in un luogo remoto e rimosso. L’adulto, preso dai suoi concreti problemi, lo disconosce o semplicemente l’oblia.
“Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende”. A sollecitare la sua attenzione è più lo stupore che l’ignoranza. Il fanciullino è curioso. Questa vocazione alla meraviglia, inesauribile nel fanciullino, è destinata generalmente a essiccarsi nella persona matura.
“Forse il fanciullino tace in voi, professore, perché voi avete troppo cipiglio, e voi non lo udite, o banchiere, tra il vostro invisibile e assiduo conteggio. Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell’officina piena di fracasso e senza sole. Ma in tutti è, voglio credere”.
Eccoci al punto. Anche al critico letterario, all’intellettuale, capita di non udire o di non comprendere la voce del fanciullino. Cioè, fuor di metafora, di non prestare attenzione al linguaggio semplice (o apparentemente tale) della cultura popolare, dei generi minori, delle opere ritenute infantili. Di non capire e quindi non apprezzare ciò che è posto (ossia che il critico stesso ha posto) in una bassezza irraggiungibile. Ma questa incapacità interpretativa, più che il risultato di un eccesso di conoscenza e di acume ermeneutico rispetto alla pochezza dell’oggetto preso in esame, denuncia un desolante deficit di sensibilità. Un che di patologico, si potrebbe forse dire. Certamente un vuoto, un ammanco, un maltolto.
Questo è il succo dell’obiezione che Robert Louis Stevenson rivolse alla perplessa recensione del suo amico e corrispondente epistolare Henry James a L’isola del tesoro.
A James, l’avventura di Jim Hawkins era parsa poco realistica, perché “sono stato bambino ma non sono mai andato alla ricerca di un tesoro nascosto”.
Fulminante la replica di Stevenson: “Ma questo è uno sfacciato paradosso; se non ha mai cercato tesori nascosti, si può facilmente dimostrare che Henry James non è mai stato un bambino”.
Lo scrittore o il critico di letteratura o paraletteratura per l’infanzia e l’adolescenza dovrebbe in primo luogo recuperare nella sua memoria, nel suo cuore, nella sua sedimentata cultura le esperienze e le sensazioni del bambino e ragazzo che è stato e che in qualche angolo della sua coscienza, imperituro, si è acquattato.
È questa operazione di intimo ripescaggio, meno facile di quanto si è inclini a pensare, ciò che ha fatto di Stevenson uno straordinario portavoce, nonché traslatore in termini di alta cultura, della sensibilità emotiva ed estetica dei ragazzi.
È l’incontro con Fanny Van de Grift, di dieci anni più grande, nel 1876 a favorire l’opportuna evoluzione di Stevenson da scrittore prevalentemente di prose raffinate a narratore puro.
Se Fanny (sposata con Samuel Osbourne, poi divorziata, e infine moglie di Stevenson nel 1880) ha un ruolo molto influente sulla produzione di Stevenson (pare, per esempio, che a un suo consiglio si debba la riscrittura in una chiave meno onirica della prima stesura de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde), è suo figlio Samuel Lloyd Osbourne a offrire a Stevenson l’input per L’isola del tesoro.
È nel 1881, durante il soggiorno a Davos, dove Stevenson si reca per cercare un’aria più giovevole ai propri polmoni, che germoglia la prima idea di quello che diventerà il più famoso romanzo d’avventure piratesche. Mentre il figlio tredicenne di Fanny si diverte a riprodurre i propri disegni con un torchio, Stevenson si diverte a osservarlo con quella benevola invidia che spesso hanno gli adulti, specie se di salute cagionevole, nei confronti della ludica spensieratezza dei ragazzi.
Ben presto lo scrittore e il ragazzo diventano compagni di giochi. Dal loro fantasticare nasce una mappa, la carta di un’isola immaginaria, con i suoi toponimi evocativi. E dalla mappa sorge gradualmente una trama, la cui prima stesura s’intitola The Sea Cook. Stevenson si giova, oltre che dei contributi del giovane figliastro, anche di quelli di suo padre Thomas (a cui viene attribuito l’episodio del barile di mele in cui Jim ascolta casualmente i piani dell’ammutinamento). Tre generazioni concorrono dunque a elaborare uno dei più celebri miti della narrativa per ragazzi.
Lo sviluppo del racconto era quindi il risultato di un percorso familiare di cui il grande scrittore scozzese era il centro, il cuore, l’elemento di raccordo e di sintesi tra padri e figli.
“Il lavoro procedeva con lunghe discussioni, e ogni capitolo, una volta terminato, veniva letto da Robert davanti al camino, nel silenzio dei parenti, cui seguiva, inevitabilmente, l’applauso finale”, scrive Roberto Mussapi nella biografia Tusitala, il narratore.
Il teatro domestico, a cui Stevenson presta la sua bella voce di lettore e il suo fascino di interprete drammatico, è la dimensione in cui convergono sogni e fantasie di un’adolescenza intesa come categoria dello spirito, piuttosto che come età anagrafica.
Stevenson è il demiurgo che entra in sintonia con questa ucronia fantasmatica e ne converte il potenziale immaginativo in storie, personaggi, trame, intrecci, avventure. In racconti e romanzi.
In questa impresa, il tredicenne Samuel Lloyd Osbourne è un “fedele luogotenente”, come scrive Mussapi, dotato di acume e curiosità, destinato nel tempo a diventare un prezioso collaboratore del talento di Stevenson. Ma quest’ultimo, a sua volta, è un ipersensibile intercettatore dello spirito giovanile del suo piccolo assistente, grazie a una sua capacità naturale di rivivere l’incanto giocondo della sua adolescenza.
La dedica con cui si apre L’isola del tesoro è dunque qualcosa di più che un omaggio affettuoso. È la chiave per penetrare nel mondo fantastico dei bucanieri, in un tempo senza tempo, nonché la merce di scambio con cui riscattare tale sconfinamento visionario, da pari a pari: “Questo libro, pensato con il gusto classico di S. L. O. gentiluomo americano. È ora a lui dedicato, in contraccambio di numerose ore piacevoli e con i più sinceri auguri, dal suo affezionatissimo amico”.
La mappa stessa (“the map of Jim Hawkins, latitude and longitude omitted”) costituisce la fondazione di un luogo immaginario al di fuori dello spazio reale, un punto irraggiungibile della fantasia pantocratrice.
E infine la dedica in esergo al “compratore esitante” è un modo elegiaco per stabilire un contatto basato sulla condivisione emotiva ed estetica.
Ammiccante invito alla lettura, la dedica è un ponte metastorico che unisce un passato leggendario degli “amici miei pirati” a un presente che non vuole lasciarsene sfuggire gli echi remoti, il “saggio giovanetto” odierno con chi uguali diletti provò un tempo ormai lontano, ma eternamente contemporaneo.
Nel 1883, anno di pubblicazione de L’isola del tesoro non è ancora avvenuta una frattura insanabile tra l’immaginazione ludica delle nuove generazioni e quella dei loro padri e dei loro nonni. Un filo rosso le unisce ancora tutte in un solo sogno ad occhi aperti di “venture tristi e amare, e caldo e gelo, e venti, golette e prigionieri, o il seppellito oro”. Seppellito, certo, il plutonico tesoro, ma infinitamente risorgente nelle nostre libere e struggenti fantasie.
Bibliografia
Agatha Christie, Le porte di Damasco, Milano, Mondadori, 2015, traduzione di Luciana Crepax.
Agatha Christie, Sfida a Poirot, Milano, Mondadori, 1984, traduzione di Moma Carones.
Harold Bloom, Il canone americano, Milano, Rizzoli, 2015, traduzione di Roberta Zuppet.
Roberto Mussapi, Tusitala, il narratore, Milano, Ponte alle Grazie, 2007.
Giovanni Pascoli, Il fanciullino, Milano, Feltrinelli, 1982.
Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, Milano, Rizzoli, 1980. Traduzione di Bianca Maria Talice.
Robert Louis Stevenson, L’isola del romanzo, Palermo, Sellerio, 1987, traduzione di Daniela Fink.
(Ennio Flaiano Diario notturno)
La soffitta di Tommy e Tuppence
Vi ricordate il folgorante inizio de Le porte di Damasco di Agatha Christie?
“ ‘Libri!’ esclamò Tuppence, e non fu solo una parola, ma uno scatto d’impazienza”.
Un apritisesamo, piuttosto. Tuppence nel travaglio di un trasloco ha trovato un tesoro. Di carta, ovviamente, ma non meno prezioso. È un mucchio di libri relegati nella soffitta della casa che con Tommy ha appena acquistato: “una casa proprio come piace a noi, la casa che avevamo sempre desiderato”.
Sono libri che appartenevano ai vecchi proprietari, che la coppia di ex investigatori, ormai in pensione, ha comprato per una modesta cifra insieme ad alcuni “mostruosi” mobili di cui si è subito sbarazzata. Ma i “libri no, ho visto subito che erano belli, soprattutto quelli per ragazzi”, dice Tuppence.
Si tratta infatti di alcuni intramontabili classici per l’infanzia e l’adolescenza, ossia di una “miniera d’oro di ricordi”, un bene inestimabile comprato per poche sterline.
Ma sulla gioia del ritrovamento della bibliotechina per ragazzi si stende un velo di crepuscolare malinconia. Tommy e Tuppence stanno per diventare anziani, tanto da chiedersi se la loro schiena sopporterà il ginnico compito di sistemare i volumi sugli scaffali, di prenderli, spostarli, riporli. E peraltro alla stessa Agatha Christie, ormai ottantatreenne, restano solo tre anni di vita.
Romanzo senile, di nostalgie e regressioni fantastiche agli anni d’oro della prima giovinezza, Le porte di Damasco appare infatti nel 1973 ed è l’ultima opera scritta dalla celebre giallista di Torquay (ne verranno pubblicate altre, prima del fatidico 1976, ma già composte in precedenza).
Ciò fa de Le porte di Damasco (il cui titolo originale è, non a caso, Postern of Fate) un libro giustappunto postremo e fatale che potremmo definire in qualche modo testamentario, pur appartenendo a un filone minore dell’opera della Christie: le inchieste prevalentemente spionistiche dei coniugi Thomas Beresford (Tommy) e Prudence Cowley (Tuppence), protagonisti di un ciclo di quattro romanzi e di una scarna serie di racconti.
Il messaggio che la Christie consegna ai lettori alla fine della sua carriera non è dunque l’elogio del giallo, di cui fu l’incontrastata Regina, bensì l’elogio di un genere forse ancora più sottovalutato: la letteratura per ragazzi.
Un genere, aggiungiamo noi, che praticamente non esiste, consistendo in buona sostanza nelle intenzioni dei suoi autori (non sempre chiarissime a loro stessi) e nelle disposizioni psicologiche dei suoi lettori, cioè nelle variabili aspettative della creazione e della fruizione.
Naturalmente, la letteratura destinata all’infanzia e all’adolescenza esiste per la critica, per gli storici, per gli editori e i librai. Per il senso comune, potremmo dire. Ma i suoi confini e la sua stessa definizione sono disseminati di equivoci, di malintesi, di asincronie e di slittamenti imprevedibili.
Ma torniamo intanto ai libri felicemente riscoperti da Tuppence. Per ragioni di spazio, essendo troppi, bisognerà forse scartarne alcuni, a meno di costruire una stanza in più solo per loro. Ma la cernita non si profila agevole. Anzi: “Dobbiamo prima esaminarli uno per uno e decidere quali vogliamo tenere noi. Io ho già cominciato a fare una prima selezione: avventure, fiabe, filastrocche e tutti quei bellissimi racconti su scuole e collegi frequentati sempre, chissà perché, da bambini ricchissimi”.
Possiamo facilmente supporre che, nonostante le laconiche e ragionevoli obiezioni di Tommy, che vorrebbe salvaguardare un suo spazio vitale, gli scarti che infine stabilirà Tuppence saranno pochissimi, anche se l’obiettivo è quello, assai meritevole, di donarli a un ospedale pediatrico.
Non sappiamo quali libri verranno ripudiati. In compenso siamo sufficientemente edotti sulle predilezione di Tuppence (e ovviamente della Christie).
Tra i titoli più famosi spicca Il giardino segreto della Hodgson Burnett (il suo preferito) e naturalmente Il piccolo Lord. Né può mancare Alice nel paese delle meraviglie e Alice nello specchio di Lewis Carroll (cui spesso i giallisti hanno attinto in virtù del loro tono enigmatico).
Fa capolino il poetico Winny-Puh l’orsetto di Alan Alexander Milne. Nell’elenco compare pure I pattini d’argento di Mary Mapes Dodge. E poi romanzi prettamente avventurosi ed esotici come Sotto due bandiere di Ouida (Marie Louise de la Ramèe), destinato prevalentemente a un pubblico femminile, o Il prigioniero di Zenda di Anthony Hope, classico dell’intrigo fiabesco a cui largamente si è ispirato il cinema. O ancora Il segno rosso del coraggio di Stephen Crane, capolavoro di introspezione psicologica che ha davvero pochissimo (o moltissimo?) a che fare con la letteratura per ragazzi. Un insieme piuttosto eterogeneo, quindi.
Ma il posto d’onore nella entusiastica rassegna di Tuppence spetta (a proposito di equivoci) a Stevenson con L’isola del tesoro (“lo so quasi a memoria”), Il ragazzo rapito (“che mi piaceva tanto!”) con il suo seguito Catriona e soprattutto La freccia nera (“il primo vero romanzo che abbia letto”).
Si capisce subito che proprio La freccia nera (a cui è esplicitamente dedicato il titolo di un capitolo) si rivelerà la chiave del mystery.
Tuppence non resiste infatti alla tentazione di riallacciare un rapporto con il suo primo libro: “ ‘Che bellezza’ mormorò tra sé. ‘Me lo ricordo così poco che posso divertirmi a rileggerlo tutto’ ”.
Da questo smemorato ritorno alle origini emergerà un indizio rivelatore, una specie di crittogramma elaborato proprio da un ragazzo. Un ragazzo malato e destinato a una morte precoce che sembra proprio il protagonista di uno di quei racconti strappalacrime per adolescenti introversi a cui piace crogiolarsi un po’ nel dolore (altrui).
Chiuso l’episodio iniziale, brillantissimo, del rinvenimento letterario, prende corpo l’inchiesta vera e propria, in cui i due investigatori congiungono con sperimentata sinergia le loro diverse doti: l’ordine analitico di lui e la coraggiosa fantasia di lei (che è un po’ come dire il rigore logico del romanzo poliziesco e l’estro giocoso della letteratura per ragazzi).
La detective story procede in modo piuttosto prevedibile. Più interessanti sono invece alcune notazioni sulle prime letture giovanili. Per esempio, a che età il bambino inizia a leggere libri come quelli che abbiamo citato? Tuppence sembra propensa a credere che si tratti di un’età molto precoce. Intorno agli otto anni. Tommy su questo è invece piuttosto scettico o semplicemente più realistico. Sull’argomento torneremo più avanti.
Un altro importante quesito che il testo della Christie ci propone è l’opportunità o meno di proporre ai nostri figli, nipoti, alunni gli stessi libri che piacquero a noi quando avevamo la loro età.
“Mi sembra sbagliato dargli da leggere quelli che leggevamo noi”, afferma Tommy, col suo prosaico buon senso.
“Eppure, io conservo un bel ricordo di quei libri, anche se molti erano già vecchi al tempo di mia nonna”, ribatte con ardore la più sentimentale Tuppence.
Nella mia ormai lunga carriera di insegnante ho potuto constatare che un classico funziona quasi sempre, di generazione in generazione.
E non c’è dubbio da che parte stia Agatha Christie, che dissemina il romanzo di filastrocche e indovinelli per mantenere un lieve tono fiabesco, e infine ricorre perfino a una “squadra di ragazzini” investigatori che allude e ammicca agli “irregolari di Baker Street” di Conan Doyle (ma Sherlock Holmes è stranamente assente dalla bibliotechina della soffitta, benché si rifaccia ampiamente in Sfida a Poirot, altro episodio dagli interessanti risvolti parodici e metaletterari).
Le porte di Damasco si chiude con un comico omaggio a John Stanley Weyman (1855-1928), autore di romanzi storici un tempo assai popolare, ma non esattamente riconducibile alla letteratura per ragazzi. Insomma, un ennesimo disguido, che va a ingarbugliare ulteriormente il profilo di un genere, secondo le indicazioni fornite dalla Christie, costituito da una congerie variamente assortita di titoli di evasione e di intrattenimento.
Forever Young?
Abbiamo messo molti argomenti sul tappeto. Cominciamo adesso a esaminarli. A partire da quello dell’età, solo apparentemente secondario.
Consulto su internet un elenco dei “100 libri per ragazzi imperdibili”. Sorvoliamo sul fatto che gran parte dei titoli proposti sono tutt’altro che imperdibili. Non è su questo che intendo soffermarmi. Di ciascun libro è suggerita la fascia d’età più opportuna a cui indirizzarlo. Le favole al telefono di Gianni Rodari sono consigliate a una fascia di lettori che va dai 4 ai 6 anni. Capisco che i tempi attuali siano tempi di precocissimo apprendimento della lettura, ma quattro anni non è troppo presto? Ci saranno pure bambini che sanno già leggere a quattro anni, ma saranno anche capaci di leggere un libro? E di capire l’assoluta non banalità del messaggio di Rodari?
L’esempio mi serve a dire che talvolta si esagera. Si pretende troppo da un’infanzia troppo presto e malamente addestrata e ingozzata, e poi da una adolescenza troppo superficialmente addottrinata. Diamogli il tempo ai bambini, ai ragazzi, di crescere, ciascuno col suo ritmo, anche attraverso adeguate e proporzionate letture.
Quando Tommy solleva ironicamente dei dubbi sul curriculum di lettrice della moglie (“Sii sincera, Tuppence, sapevi già leggere a otto anni?”), non si riferisce ovviamente alla capacità tecnica di leggere, che Tuppence ha acquisito all’età di cinque anni, bensì alla capacità di comprendere appieno un testo relativamente complesso per un bambino come Androclo e il leone di George Bernard Shaw.
Probabilmente possiamo rispondere di sì, poiché conosciamo e apprezziamo le doti di intelligenza di Tuppence, il suo acume e il suo intuito.
Tuttavia, a volte il mercato editoriale e la pedagogia (tristi nemici del piacere della lettura) sembrano farsi eccessive illusioni sulle reali capacità da parte dei giovani lettori di affrontare libri di una certa lunghezza, di una articolata trama, con profonde implicazioni tematiche.
Non è un caso che Tuppence abbia dimenticato quasi interamente La freccia nera, che è appunto un romanzo alquanto intricato (un anno io lo proposi a una mia classe, una seconda media, ossia a ragazzi di circa dodici anni, che incontrarono non poche difficoltà a raccapezzarsi tra tanti personaggi e tanti fatti).
Un meccanismo psicologico assai frequente è la retrodatazione di alcune letture giovanili in una sorta di mitica età dell’innocenza.
Naturalmente esistono i lettori molto precoci, ma io che non lo sono stato ho sempre una irriducibile diffidenza nei confronti dei loro inverosimili exploit.
Harold Bloom, per esempio, ha raccontato di aver letto Moby Dick a soli dieci anni.
“Rileggo Moby Dick dacché mi sono innamorato di questo romanzo nel 1940, quando ero un bambino di dieci anni affascinato da Hart Crane, Whitman, William Blake, Shakespeare”.
Uno strano bambino, possiamo ben dire. Un bambino che non perde il suo prezioso tempo con fumetti e romanzetti avventurosi, feuilleton tenebrosi, eroi mascherati, arcieri infallibili, cavalieri misteriosi, investigatori onniscienti, cappe e spade, gobbi e mostri, vergini e dark lady e tutto il magnifico repertorio della cosiddetta letteratura di massa o paraletteratura. Ma che invece (peggio per lui) si va saggiamente costruendo come il grande critico che sarà (e che indubbiamente è).
“Moby Dick andò a costituire un quintetto con Il ponte, Canto di me stesso, I quattro zoa di Blake e Re Lear, un gruppo di opere visionarie che trasformò uno stupido ragazzino in un critico ed esegeta appassionato anziché in un poeta”.
Ovviamente a quello che qui è definito uno “stupido ragazzino” bisogna sostituire (con molto rispetto ma senza troppa invidia) la definizione di genio. Un genio capace già a nove anni di entusiasmarsi, di piangere ed esultare per le sorti dei personaggi di Thomas Hardy, D. H. Lawrence, Henry James. Laddove un vero bambino di nove anni si sarebbe estasiato di fronte alle mirabolanti gesta di Ivanhoe e di Mandrake o di altre mille maschere del suo gioco. Un vero bambino (almeno ai tempi di Harold Bloom come ai miei) sarebbe rimasto commosso e turbato dall’incontro con il potere magico di una storia di pirati, di un’avventura di frontiera, di un duello spaziale, di un fumetto trovato casualmente in una bancarella dell’usato. Tutte epifanie e stupori che il piccolo Harold Bloom (e ce ne dispiace) non sembra avere mai esperito, tutto preso com’era a bruciare le tappe della sua formazione intellettuale, col rischio irreparabile di ridurre tutto in cenere e fumo.
Mi domando, per esempio, se le belle pagine che Bloom dedica a Huckleberry Finn non siano monche di un intimo coinvolgimento con Tom Sawyer, romanzo felicemente fanciullesco che non assurge alla dimensione del capolavoro, ma è innegabilmente la premessa al grande respiro epico del suo impareggiabile seguito.
Parlando dell’apertura di Emerson a Whitman, foriera di formidabili conseguenze sulla critica americana, Bloom rimembra e confessa:
“Nella mia vita, un’esperienza paragonabile è iniziata con il mio decimo compleanno, quando ho trovato The Collected Poems of Hart Crane nella sezione Melrose della Bronx Public Library. Non avevo mai visto alcun riferimento a Crane, ma ho aperto il volume su Atlantide, la conclusione del Ponte, e sono stato trasformato dallo splendore invocatorio”.
Questo tipo di straordinarie intuizioni giovanili, che certamente testimoniano di una sensibilità e di un acume non comuni, mi sorprendono meno dell’intelligenza e della perseveranza, della oculata pazienza e della disciplina interiore che occorrono a un bambino o a un ragazzino per affrontare un’opera mastodontica e non meno ostica del misterioso Crane come il capolavoro melvilliano.
Per quanto mi riguarda, anch’io ho avuto nell’infanzia un incontro fecondo con l’ambivalente balena bianca di Melville e l’enigmatico Queequeg, ma si trattava di un’edizione ridotta e semplificata (che peraltro non riuscii a leggere interamente, anche perché il libro non era mio) di cui mi colpirono soprattutto le illustrazioni.
Ora, non ho alcuna difficoltà a supporre e ad ammettere che il giovanissimo Harold Bloom sia stato in nuce un critico geniale, e di una natura straordinariamente precoce. Ma se le cose stanno così, allora Harold Bloom non è stato mai un bambino né mai un ragazzino. E pertanto non ha mai potuto leggere (intendo veramente leggere) libri per l’infanzia e per la pre-adolescenza (e qui per prudenza mi fermo). Cioè un tipo di libri, a cui corrisponde un particolare tipo di lettura, per i quali occorrono occhi freschi, ingenui, incontaminati.
Ed è vero che questo genere di sguardo può essere recuperato anche da un adulto, ma soltanto da chi lo ha posseduto da piccolo e lo ha conservato con sé, in modo più o meno consapevole, gelosamente o distrattamente.
Chi cerca un tesoro trova un romanzo
Mi rendo conto che sto grosso modo seguendo le orme lasciate dal “Fanciullino” pascoliano. Cioè, in un certo senso, la schizofrenia poetica di Giovanni Pascoli.
“È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, come credeva Cebes Tebano che primo in sé lo scoperse, ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come un campanello”.
Davvero, non si poteva descrivere meglio, la dicotomia del nostro mondo interiore. E ho sempre pensato che questo testo, il cui primo nucleo risale al 1897, abbia influenzato in qualche modo, diretto o indiretto, la creazione del Peter Pan di James Matthew Barrie, il cui abbozzo iniziale è contenuto nel racconto L’uccellino bianco del 1902.
Ripartiamo dunque dalla illuminante riflessione pascoliana, seppure prescindendo da certe troppo enfatiche derive decadenti e da certa didascalica e schematica psicologia del puer aeternus.
È in tutti, dice Pascoli, il “fanciullo musico”. Cioè il poeta, l’artista, il sognatore. “Egli è quello, dunque, che ha paura del buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alla bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei”.
Ma, crescendo, queste attitudini o facoltà fantastiche andranno quasi sempre smarrite, poiché tutti gli uomini “si armano, per la battaglia della vita” e diventano sordi alla sua voce, e ne dimenticano o perfino negano la stessa esistenza. Lo scollamento avviene gradualmente: il fanciullino interiore, che dapprima coincide con il bambino in carne e ossa, viene relegato a poco a poco in un luogo remoto e rimosso. L’adulto, preso dai suoi concreti problemi, lo disconosce o semplicemente l’oblia.
“Egli nell’interno dell’uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende”. A sollecitare la sua attenzione è più lo stupore che l’ignoranza. Il fanciullino è curioso. Questa vocazione alla meraviglia, inesauribile nel fanciullino, è destinata generalmente a essiccarsi nella persona matura.
“Forse il fanciullino tace in voi, professore, perché voi avete troppo cipiglio, e voi non lo udite, o banchiere, tra il vostro invisibile e assiduo conteggio. Fa il broncio in te, o contadino, che zappi e vanghi, e non ti puoi fermare a guardare un poco; dorme coi pugni chiusi in te, operaio, che devi stare chiuso tutto il giorno nell’officina piena di fracasso e senza sole. Ma in tutti è, voglio credere”.
Eccoci al punto. Anche al critico letterario, all’intellettuale, capita di non udire o di non comprendere la voce del fanciullino. Cioè, fuor di metafora, di non prestare attenzione al linguaggio semplice (o apparentemente tale) della cultura popolare, dei generi minori, delle opere ritenute infantili. Di non capire e quindi non apprezzare ciò che è posto (ossia che il critico stesso ha posto) in una bassezza irraggiungibile. Ma questa incapacità interpretativa, più che il risultato di un eccesso di conoscenza e di acume ermeneutico rispetto alla pochezza dell’oggetto preso in esame, denuncia un desolante deficit di sensibilità. Un che di patologico, si potrebbe forse dire. Certamente un vuoto, un ammanco, un maltolto.
Questo è il succo dell’obiezione che Robert Louis Stevenson rivolse alla perplessa recensione del suo amico e corrispondente epistolare Henry James a L’isola del tesoro.
A James, l’avventura di Jim Hawkins era parsa poco realistica, perché “sono stato bambino ma non sono mai andato alla ricerca di un tesoro nascosto”.
Fulminante la replica di Stevenson: “Ma questo è uno sfacciato paradosso; se non ha mai cercato tesori nascosti, si può facilmente dimostrare che Henry James non è mai stato un bambino”.
Lo scrittore o il critico di letteratura o paraletteratura per l’infanzia e l’adolescenza dovrebbe in primo luogo recuperare nella sua memoria, nel suo cuore, nella sua sedimentata cultura le esperienze e le sensazioni del bambino e ragazzo che è stato e che in qualche angolo della sua coscienza, imperituro, si è acquattato.
È questa operazione di intimo ripescaggio, meno facile di quanto si è inclini a pensare, ciò che ha fatto di Stevenson uno straordinario portavoce, nonché traslatore in termini di alta cultura, della sensibilità emotiva ed estetica dei ragazzi.
È l’incontro con Fanny Van de Grift, di dieci anni più grande, nel 1876 a favorire l’opportuna evoluzione di Stevenson da scrittore prevalentemente di prose raffinate a narratore puro.
Se Fanny (sposata con Samuel Osbourne, poi divorziata, e infine moglie di Stevenson nel 1880) ha un ruolo molto influente sulla produzione di Stevenson (pare, per esempio, che a un suo consiglio si debba la riscrittura in una chiave meno onirica della prima stesura de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde), è suo figlio Samuel Lloyd Osbourne a offrire a Stevenson l’input per L’isola del tesoro.
È nel 1881, durante il soggiorno a Davos, dove Stevenson si reca per cercare un’aria più giovevole ai propri polmoni, che germoglia la prima idea di quello che diventerà il più famoso romanzo d’avventure piratesche. Mentre il figlio tredicenne di Fanny si diverte a riprodurre i propri disegni con un torchio, Stevenson si diverte a osservarlo con quella benevola invidia che spesso hanno gli adulti, specie se di salute cagionevole, nei confronti della ludica spensieratezza dei ragazzi.
Ben presto lo scrittore e il ragazzo diventano compagni di giochi. Dal loro fantasticare nasce una mappa, la carta di un’isola immaginaria, con i suoi toponimi evocativi. E dalla mappa sorge gradualmente una trama, la cui prima stesura s’intitola The Sea Cook. Stevenson si giova, oltre che dei contributi del giovane figliastro, anche di quelli di suo padre Thomas (a cui viene attribuito l’episodio del barile di mele in cui Jim ascolta casualmente i piani dell’ammutinamento). Tre generazioni concorrono dunque a elaborare uno dei più celebri miti della narrativa per ragazzi.
Lo sviluppo del racconto era quindi il risultato di un percorso familiare di cui il grande scrittore scozzese era il centro, il cuore, l’elemento di raccordo e di sintesi tra padri e figli.
“Il lavoro procedeva con lunghe discussioni, e ogni capitolo, una volta terminato, veniva letto da Robert davanti al camino, nel silenzio dei parenti, cui seguiva, inevitabilmente, l’applauso finale”, scrive Roberto Mussapi nella biografia Tusitala, il narratore.
Il teatro domestico, a cui Stevenson presta la sua bella voce di lettore e il suo fascino di interprete drammatico, è la dimensione in cui convergono sogni e fantasie di un’adolescenza intesa come categoria dello spirito, piuttosto che come età anagrafica.
Stevenson è il demiurgo che entra in sintonia con questa ucronia fantasmatica e ne converte il potenziale immaginativo in storie, personaggi, trame, intrecci, avventure. In racconti e romanzi.
In questa impresa, il tredicenne Samuel Lloyd Osbourne è un “fedele luogotenente”, come scrive Mussapi, dotato di acume e curiosità, destinato nel tempo a diventare un prezioso collaboratore del talento di Stevenson. Ma quest’ultimo, a sua volta, è un ipersensibile intercettatore dello spirito giovanile del suo piccolo assistente, grazie a una sua capacità naturale di rivivere l’incanto giocondo della sua adolescenza.
La dedica con cui si apre L’isola del tesoro è dunque qualcosa di più che un omaggio affettuoso. È la chiave per penetrare nel mondo fantastico dei bucanieri, in un tempo senza tempo, nonché la merce di scambio con cui riscattare tale sconfinamento visionario, da pari a pari: “Questo libro, pensato con il gusto classico di S. L. O. gentiluomo americano. È ora a lui dedicato, in contraccambio di numerose ore piacevoli e con i più sinceri auguri, dal suo affezionatissimo amico”.
La mappa stessa (“the map of Jim Hawkins, latitude and longitude omitted”) costituisce la fondazione di un luogo immaginario al di fuori dello spazio reale, un punto irraggiungibile della fantasia pantocratrice.
E infine la dedica in esergo al “compratore esitante” è un modo elegiaco per stabilire un contatto basato sulla condivisione emotiva ed estetica.
Ammiccante invito alla lettura, la dedica è un ponte metastorico che unisce un passato leggendario degli “amici miei pirati” a un presente che non vuole lasciarsene sfuggire gli echi remoti, il “saggio giovanetto” odierno con chi uguali diletti provò un tempo ormai lontano, ma eternamente contemporaneo.
Nel 1883, anno di pubblicazione de L’isola del tesoro non è ancora avvenuta una frattura insanabile tra l’immaginazione ludica delle nuove generazioni e quella dei loro padri e dei loro nonni. Un filo rosso le unisce ancora tutte in un solo sogno ad occhi aperti di “venture tristi e amare, e caldo e gelo, e venti, golette e prigionieri, o il seppellito oro”. Seppellito, certo, il plutonico tesoro, ma infinitamente risorgente nelle nostre libere e struggenti fantasie.
Bibliografia
Agatha Christie, Le porte di Damasco, Milano, Mondadori, 2015, traduzione di Luciana Crepax.
Agatha Christie, Sfida a Poirot, Milano, Mondadori, 1984, traduzione di Moma Carones.
Harold Bloom, Il canone americano, Milano, Rizzoli, 2015, traduzione di Roberta Zuppet.
Roberto Mussapi, Tusitala, il narratore, Milano, Ponte alle Grazie, 2007.
Giovanni Pascoli, Il fanciullino, Milano, Feltrinelli, 1982.
Robert Louis Stevenson, L’isola del tesoro, Milano, Rizzoli, 1980. Traduzione di Bianca Maria Talice.
Robert Louis Stevenson, L’isola del romanzo, Palermo, Sellerio, 1987, traduzione di Daniela Fink.
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