
IL FRONTE CULTURALE
NIGHT CLUB INFERNO (NUOVA GESTIONE)
Ritorna Graham Greene, il Compagno Onorario
di Pavlov Dogg 26 luglio 2019
NIGHT CLUB INFERNO (NUOVA GESTIONE)
Ritorna Graham Greene, il Compagno Onorario
di Pavlov Dogg 26 luglio 2019
Religione, politica o romanzo?
Pochi romanzieri contemporanei traggono più materiale dai giornali di Graham Greene.
A. Calder Marshall
“In Cile un golpe di destra da parte dell’esercito è considerato psicologicamente impossibile. L’esercito – lo senti dire da tutti, tranne dai comunisti – è per tradizione neutrale; l’esercito è garante della legalità. È un gran bell’esercito: con la possibile eccezione di quello cubano, è il migliore del Sud America. Il passo dell’oca rimane il simbolo del modello tedesco che ha seguito”.
Chi poteva (scrivendo sull’Observer Magazine il 2 gennaio del 1972, quasi due anni prima dell’effettivo colpo di stato di Pinochet) utilizzare così quattro righe a stampa per fare intendere il momento più drammatico della democrazia cilena, con tanto di brivido sardonico sull’ultima frase? Solo Graham Greene. E dire che – per un motivo o per l’altro – di cose istruttive in merito all’esperimento socialista di Salvador Allende ne ho lette e viste, negli ultimi mesi. Prima l’indispensabile documentario La insurrección de la burguesía, primo capitolo della trilogia di Patricio Guzmán, al contempo laconico ed eloquente, di parte ed obiettivo. Poi un articolo – all’epoca celebre – apparso nel gennaio del 1974 su Encounter a firma di David Holden[1], ipercritico e che inizia con la cinica affermazione per cui Allende “in vita fu un fallimento (...) ma nella morte ha conseguito un successo che non sognava neppure”. Si è poi scoperto che la rivista era finanziata dalla CIA e che lo stesso Holden (morto nel 1977) aveva legami con i servizi segreti: ma chi l’ha detto che le critiche del nemico non abbiano valore? Infine ho visto il recentissimo Santiago, Italia di Nanni Moretti [in cui a un certo punto compare lo stesso Guzmán] commovente e incentrato sulla solidarietà italiana ai profughi cileni.
Senza offesa per nessuno, però, Graham Greene è di un altro livello. Pertanto la frase di Calder Marshall in epigrafe va parzialmente corretta, nel senso che Greene dai giornali senz’altro traeva, ma ai giornali parimenti dava. Nelle otto pagine e mezza che il reportage occupa nell’antologia di scritti di non-fiction Reflections [2] c’è tutto quello che conta e che serve a capire: il quadro strategico e la catena dei passaggi tattici, la forza trascinante dell’azione di governo di Allende e la problematicità di fondo della sua posizione. Se come scrittore politico ha avuto ed ha pochissimi rivali, pertanto, ciò si deve in primo luogo al fatto che il Nostro partiva avvantaggiato, in quanto la politica la capiva. Condizione necessaria, questa, ma non sufficiente a spiegare la longevità e l’immutata freschezza delle sue opere: ad esempio di questo Il console onorario che adesso Sellerio ripropone nella ‘Memoria’ (la traduzione è di Alessandro Carrera), annunziando la ripubblicazione di una decina di classicissimi greeniani. E davvero non si poteva cominciare meglio, perché Il console onorario esemplifica alla perfezione il passo successivo alla perfetta ricognizione delle forze in campo che il Greene romanziere compie: un passo successivo che lo distingue e distanzia inarrivabilmente da altri esempi di scrittura politica lucida e obiettiva (diciamo dal Montanelli di I sogni muoiono all’alba, guardando per un attimo all’opposta sponda politica). Tale passo successivo ha molto a che vedere con la frase di Thomas Hardy che qui precede l’inizio della storia, ovvero: “Tutto si confonde, l’una e l’altra cosa, il bene nel male, la generosità in giustizia, la religione in politica…” (corsivi miei). Ed ha moltissimo a che vedere con l’obiezione standard di parte sinistrorsa, o “laica”, classicamente formulata da George Orwell già 71 anni fa, per cui nei romanzi di Greene “L’Inferno è una specie di night club d’alto bordo, con ingresso riservato ai soli cattolici, dato che gli altri, i non cattolici, sono troppo ignoranti per essere considerati colpevoli, come le bestie…”[3]. Ma le cose non stanno esattamente così. Non escludo certo che – specie in alcuni dei primi romanzi di Greene – al night-club Inferno ci sia stata qualche serata di nervosismo, e i buttafuori [4] siano stati a volte di manica stretta, o abbiano occasionalmente adottato criteri un po’ bizantini: ma qui davvero Orwell sta guardando il dito e non la Luna (anche se è un bel dito, perché l’immagine del night-club è felice). Infatti il punto decisivo qui non è la door policy, bensì la stessa apertura del locale notturno da parte di Graham Greene. Un’apertura che avvenne in controtendenza rispetto all’indifferentismo e al casuismo, al determinismo sociale assoluto e allo psicologismo estremo che avvilivano la letteratura del suo tempo, e che avviliscono quella del nostro con panni appena riadattati. E per creare un universo narrativo in cui le azioni degli individui avessero davvero un senso (anche se non sortiscono gli effetti desiderati; e anche se il senso non è proprio quello immaginato da chi le compie) c’era bisogno – ma a mo’ di sfondo, o di espediente romanzesco, e non certo di dogma che si debba trangugiare per intero – di quel night-club “infernale”. Che verosimilmente (a ben leggere Greene) alla fine resta – se non vuoto – scarsamente popolato: ma durante lo svolgimento della storia è importante che stia lì: a mo’ di minaccia, di avvertimento, di pietra di paragone. In che modo, poi, la “religione” (il Night-Club Inferno) si mescoli nei libri di Greene con la “politica” (Il console onorario, in particolare, è quasi un instant-novel, con tanto di comparsate del dittatore del Paraguay Alfredo Stroessner: ma come dimenticare, ad esempio, l’Indocina de L’americano tranquillo , o quei Commedianti ad Haiti che mandarono su tutte le furie “Papa Doc” Duvalier?) lo vedremo con maggiore precisione tra un momento.
Quel che non si rende a Cesare
Noi cattolici romani combattiamo insieme ai comunisti, e lavoriamo insieme ai comunisti.
Graham Greene al Cremlino, 1987
Nel romanzo di Lionel Trilling The Middle of the Journey[5] un personaggio a un certo punto propone, nell’ambito di una discussione politica, di definire Dio come ciò “a cui si rendono le cose che non si rendono a Cesare”. Il tizio in questione lo dice in senso anti-comunista, anti-rivoluzionario eccetera eccetera, ma la frase resta luminosa, e non solo e non tanto perché vuole identificare un “extra-politico” che possa sorvegliare, correggere e limitare la prepotenza dell’azione politica e della sua logica. Il fatto è che, a ben vedere, la definizione funziona in entrambe le direzioni: ci saranno cioè delle cose che non renderemo a Cesare (anche se intendiamo “Cesare” nel senso migliore possibile: la Giustizia, il Bene Comune, il Socialismo, fate voi), ma senz’altro ci sono cose che dovremo rendere a Cesare e pertanto giocoforza non renderemo a “Dio”. La linea del confine tra le prime e le seconde è inevitabilmente mobile e incerta, e non varranno a tracciarla una volta e per tutte il Manuale Cencelli o il Catechismo, i Dieci Comandamenti o Il Manifesto del Partito Comunista. Tracciare la linea spetta a noi, e proprio qui sta la persistente rilevanza delle storie raccontate da Graham Greene. Quella che nel (mediocre e fin troppo auto-apologetico) romanzo di Trilling resta una pepita in mezzo a un cumulo di scarti, può dunque essere salvata dal triste destino dell’antologia di “belle frasi” e aforismi vari se ce ne serviamo, ad esempio, per leggere la situazione di partenza di un capolavoro come questo Console onorario. Un brav’uomo, un tipo buffo che non ha mai fatto male a una mosca in vita sua (e che non è neppure un “vero” inglese), viene rapito per sbaglio da un commando di guerriglieri in lotta contro la dittatura di Stroessner. Ma il tragicomico volge ben presto in tragico, perché i rapitori chiariscono di non avere alcuna intenzione di ammettere l’errore e rilasciare il “console” Fortnum, a meno che in cambio il regime paraguayano non liberi dieci prigionieri politici. Come spiega a un certo punto Rivas, il loro comandante: “Se ci mostreremo un’altra volta così deboli, in questo continente le minacce di morte non serviranno più a niente. Fino a quando uomini più spietati di noi non si metteranno a mietere ben altre vittime. Non voglio essere responsabile delle morti che seguiranno al nostro fallimento” (p.360). Ed ecco che per il povero Fortnum si mette malissimo: un innocente rischia di venire sacrificato sull’altare di una causa che in sé stessa (come spiegano chiaramente tutti i personaggi un minimo credibili del romanzo) è giustissima. E l’esatta osservazione per cui questa linea di condotta – come viene fatto notare a p. 337 – finisce col fare assomigliare gli oppositori al Generale Stroessner, non risolve automaticamente il dilemma politico-morale. Che sarà sciolto solo drammaticamente – e non certo attraverso una dissertazione filosofica – in un racconto che gioca magistralmente coi punti di vista (Greene è allievo dichiarato di Percy Lubbock) dando in un primo momento l’illusione ottica che il personaggio di Eduardo Plarr (amico e cornificatore del console onorario) possa essere il “commissario politico” dell’Autore all’interno del romanzo, per poi dissolverla del tutto. Ma non voglio in alcun modo spoilerare una lettura che riserva colpi di scena e trovate geniali ad ogni piè sospinto. Resta il fatto che – per parafrasare Woody Allen – nel mondo di Greene Dio si è allontanato[6] senza lasciare nemmeno un biglietto, Marx ha scritto Il Capitale ma non ci si capisce nulla[7], e il liberalismo non ha proprio alcunché di rilevante da dire (si veda qui la penosa figura dell’inviato inglese Crichton). E il bello di questi romanzi è che per goderli e giovarsene non solo non occorre condividere la visione religiosa di Greene, ma neppure la sua posizione politica in senso stretto. Che fu figlia del suo tempo: ricca sì di illusioni in merito a sviluppi progressivi del socialismo reale che poi non ci furono affatto, ma pure scaltra nel non bersi le favole dirittoumaniste degli USA, la cui politica imperiale avversò sempre con tutta l’energia e la verve possibili. Oggi quelli che furono gli interlocutori politici di Graham Greene (da Fidel Castro ad Allende, dai PC europei degli anni ’80 a Gorbaciov) non ci sono più o hanno fallito: rimangono però i suoi romanzi, sempre estremamente vivi perché animati non soltanto dal problema della spartizione di cui sopra fra Dio e Cesare, ma pure dalla questione di capire meglio che cosa esattamente sia “Dio” e che cosa sia “Cesare”.
Note:
[1] Allende & the Myth Makers, pp.12-24.
[2] Pubblicata nel 1990 a cura di Judith Adamson presso Reinhardt Books. Il titolo del pezzo è Chile: The Dangerous Edge.
[3] Si tratta della recensione di The Heart of the Matter apparsa sul New Yorker del 17 luglio 1948, ora in The Collected Essays, Journalism and Letters, Volume 4 , Penguin, 1970, pp.497-501.
[4] Che, come disse il Poeta, andrebbero piuttosto chiamati i “non-fanno-entrare-dentro”.
[5] Il libro è del 1947; è uscito in Italia nel 1964 con il titolo di Crisi.
[6] “…il fatto più importante, nel mondo di Greene, è che Dio lo ha abbandonato” scrisse un anonimo recensore sul Times Literary Supplement del 17 settembre 1971. E si veda l’epigrafe del Cardinale Newman a Le vie senza legge.
[7] Così, perlomeno, afferma uno dei personaggi del Console onorario. In merito al Capitale Graham Greene manifestò successivamente un ben diverso atteggiamento (cfr. Monsignor Quixote del 1982, nonché Reflections, p.316), citando con approvazione il discorso di Marx sull’accumulazione primitiva del capitale (Libro I). Ringrazio Maria Grazia Meriggi per avere identificato il luogo marxiano cui si riferisce Greene.
Pochi romanzieri contemporanei traggono più materiale dai giornali di Graham Greene.
A. Calder Marshall
“In Cile un golpe di destra da parte dell’esercito è considerato psicologicamente impossibile. L’esercito – lo senti dire da tutti, tranne dai comunisti – è per tradizione neutrale; l’esercito è garante della legalità. È un gran bell’esercito: con la possibile eccezione di quello cubano, è il migliore del Sud America. Il passo dell’oca rimane il simbolo del modello tedesco che ha seguito”.
Chi poteva (scrivendo sull’Observer Magazine il 2 gennaio del 1972, quasi due anni prima dell’effettivo colpo di stato di Pinochet) utilizzare così quattro righe a stampa per fare intendere il momento più drammatico della democrazia cilena, con tanto di brivido sardonico sull’ultima frase? Solo Graham Greene. E dire che – per un motivo o per l’altro – di cose istruttive in merito all’esperimento socialista di Salvador Allende ne ho lette e viste, negli ultimi mesi. Prima l’indispensabile documentario La insurrección de la burguesía, primo capitolo della trilogia di Patricio Guzmán, al contempo laconico ed eloquente, di parte ed obiettivo. Poi un articolo – all’epoca celebre – apparso nel gennaio del 1974 su Encounter a firma di David Holden[1], ipercritico e che inizia con la cinica affermazione per cui Allende “in vita fu un fallimento (...) ma nella morte ha conseguito un successo che non sognava neppure”. Si è poi scoperto che la rivista era finanziata dalla CIA e che lo stesso Holden (morto nel 1977) aveva legami con i servizi segreti: ma chi l’ha detto che le critiche del nemico non abbiano valore? Infine ho visto il recentissimo Santiago, Italia di Nanni Moretti [in cui a un certo punto compare lo stesso Guzmán] commovente e incentrato sulla solidarietà italiana ai profughi cileni.
Senza offesa per nessuno, però, Graham Greene è di un altro livello. Pertanto la frase di Calder Marshall in epigrafe va parzialmente corretta, nel senso che Greene dai giornali senz’altro traeva, ma ai giornali parimenti dava. Nelle otto pagine e mezza che il reportage occupa nell’antologia di scritti di non-fiction Reflections [2] c’è tutto quello che conta e che serve a capire: il quadro strategico e la catena dei passaggi tattici, la forza trascinante dell’azione di governo di Allende e la problematicità di fondo della sua posizione. Se come scrittore politico ha avuto ed ha pochissimi rivali, pertanto, ciò si deve in primo luogo al fatto che il Nostro partiva avvantaggiato, in quanto la politica la capiva. Condizione necessaria, questa, ma non sufficiente a spiegare la longevità e l’immutata freschezza delle sue opere: ad esempio di questo Il console onorario che adesso Sellerio ripropone nella ‘Memoria’ (la traduzione è di Alessandro Carrera), annunziando la ripubblicazione di una decina di classicissimi greeniani. E davvero non si poteva cominciare meglio, perché Il console onorario esemplifica alla perfezione il passo successivo alla perfetta ricognizione delle forze in campo che il Greene romanziere compie: un passo successivo che lo distingue e distanzia inarrivabilmente da altri esempi di scrittura politica lucida e obiettiva (diciamo dal Montanelli di I sogni muoiono all’alba, guardando per un attimo all’opposta sponda politica). Tale passo successivo ha molto a che vedere con la frase di Thomas Hardy che qui precede l’inizio della storia, ovvero: “Tutto si confonde, l’una e l’altra cosa, il bene nel male, la generosità in giustizia, la religione in politica…” (corsivi miei). Ed ha moltissimo a che vedere con l’obiezione standard di parte sinistrorsa, o “laica”, classicamente formulata da George Orwell già 71 anni fa, per cui nei romanzi di Greene “L’Inferno è una specie di night club d’alto bordo, con ingresso riservato ai soli cattolici, dato che gli altri, i non cattolici, sono troppo ignoranti per essere considerati colpevoli, come le bestie…”[3]. Ma le cose non stanno esattamente così. Non escludo certo che – specie in alcuni dei primi romanzi di Greene – al night-club Inferno ci sia stata qualche serata di nervosismo, e i buttafuori [4] siano stati a volte di manica stretta, o abbiano occasionalmente adottato criteri un po’ bizantini: ma qui davvero Orwell sta guardando il dito e non la Luna (anche se è un bel dito, perché l’immagine del night-club è felice). Infatti il punto decisivo qui non è la door policy, bensì la stessa apertura del locale notturno da parte di Graham Greene. Un’apertura che avvenne in controtendenza rispetto all’indifferentismo e al casuismo, al determinismo sociale assoluto e allo psicologismo estremo che avvilivano la letteratura del suo tempo, e che avviliscono quella del nostro con panni appena riadattati. E per creare un universo narrativo in cui le azioni degli individui avessero davvero un senso (anche se non sortiscono gli effetti desiderati; e anche se il senso non è proprio quello immaginato da chi le compie) c’era bisogno – ma a mo’ di sfondo, o di espediente romanzesco, e non certo di dogma che si debba trangugiare per intero – di quel night-club “infernale”. Che verosimilmente (a ben leggere Greene) alla fine resta – se non vuoto – scarsamente popolato: ma durante lo svolgimento della storia è importante che stia lì: a mo’ di minaccia, di avvertimento, di pietra di paragone. In che modo, poi, la “religione” (il Night-Club Inferno) si mescoli nei libri di Greene con la “politica” (Il console onorario, in particolare, è quasi un instant-novel, con tanto di comparsate del dittatore del Paraguay Alfredo Stroessner: ma come dimenticare, ad esempio, l’Indocina de L’americano tranquillo , o quei Commedianti ad Haiti che mandarono su tutte le furie “Papa Doc” Duvalier?) lo vedremo con maggiore precisione tra un momento.
Quel che non si rende a Cesare
Noi cattolici romani combattiamo insieme ai comunisti, e lavoriamo insieme ai comunisti.
Graham Greene al Cremlino, 1987
Nel romanzo di Lionel Trilling The Middle of the Journey[5] un personaggio a un certo punto propone, nell’ambito di una discussione politica, di definire Dio come ciò “a cui si rendono le cose che non si rendono a Cesare”. Il tizio in questione lo dice in senso anti-comunista, anti-rivoluzionario eccetera eccetera, ma la frase resta luminosa, e non solo e non tanto perché vuole identificare un “extra-politico” che possa sorvegliare, correggere e limitare la prepotenza dell’azione politica e della sua logica. Il fatto è che, a ben vedere, la definizione funziona in entrambe le direzioni: ci saranno cioè delle cose che non renderemo a Cesare (anche se intendiamo “Cesare” nel senso migliore possibile: la Giustizia, il Bene Comune, il Socialismo, fate voi), ma senz’altro ci sono cose che dovremo rendere a Cesare e pertanto giocoforza non renderemo a “Dio”. La linea del confine tra le prime e le seconde è inevitabilmente mobile e incerta, e non varranno a tracciarla una volta e per tutte il Manuale Cencelli o il Catechismo, i Dieci Comandamenti o Il Manifesto del Partito Comunista. Tracciare la linea spetta a noi, e proprio qui sta la persistente rilevanza delle storie raccontate da Graham Greene. Quella che nel (mediocre e fin troppo auto-apologetico) romanzo di Trilling resta una pepita in mezzo a un cumulo di scarti, può dunque essere salvata dal triste destino dell’antologia di “belle frasi” e aforismi vari se ce ne serviamo, ad esempio, per leggere la situazione di partenza di un capolavoro come questo Console onorario. Un brav’uomo, un tipo buffo che non ha mai fatto male a una mosca in vita sua (e che non è neppure un “vero” inglese), viene rapito per sbaglio da un commando di guerriglieri in lotta contro la dittatura di Stroessner. Ma il tragicomico volge ben presto in tragico, perché i rapitori chiariscono di non avere alcuna intenzione di ammettere l’errore e rilasciare il “console” Fortnum, a meno che in cambio il regime paraguayano non liberi dieci prigionieri politici. Come spiega a un certo punto Rivas, il loro comandante: “Se ci mostreremo un’altra volta così deboli, in questo continente le minacce di morte non serviranno più a niente. Fino a quando uomini più spietati di noi non si metteranno a mietere ben altre vittime. Non voglio essere responsabile delle morti che seguiranno al nostro fallimento” (p.360). Ed ecco che per il povero Fortnum si mette malissimo: un innocente rischia di venire sacrificato sull’altare di una causa che in sé stessa (come spiegano chiaramente tutti i personaggi un minimo credibili del romanzo) è giustissima. E l’esatta osservazione per cui questa linea di condotta – come viene fatto notare a p. 337 – finisce col fare assomigliare gli oppositori al Generale Stroessner, non risolve automaticamente il dilemma politico-morale. Che sarà sciolto solo drammaticamente – e non certo attraverso una dissertazione filosofica – in un racconto che gioca magistralmente coi punti di vista (Greene è allievo dichiarato di Percy Lubbock) dando in un primo momento l’illusione ottica che il personaggio di Eduardo Plarr (amico e cornificatore del console onorario) possa essere il “commissario politico” dell’Autore all’interno del romanzo, per poi dissolverla del tutto. Ma non voglio in alcun modo spoilerare una lettura che riserva colpi di scena e trovate geniali ad ogni piè sospinto. Resta il fatto che – per parafrasare Woody Allen – nel mondo di Greene Dio si è allontanato[6] senza lasciare nemmeno un biglietto, Marx ha scritto Il Capitale ma non ci si capisce nulla[7], e il liberalismo non ha proprio alcunché di rilevante da dire (si veda qui la penosa figura dell’inviato inglese Crichton). E il bello di questi romanzi è che per goderli e giovarsene non solo non occorre condividere la visione religiosa di Greene, ma neppure la sua posizione politica in senso stretto. Che fu figlia del suo tempo: ricca sì di illusioni in merito a sviluppi progressivi del socialismo reale che poi non ci furono affatto, ma pure scaltra nel non bersi le favole dirittoumaniste degli USA, la cui politica imperiale avversò sempre con tutta l’energia e la verve possibili. Oggi quelli che furono gli interlocutori politici di Graham Greene (da Fidel Castro ad Allende, dai PC europei degli anni ’80 a Gorbaciov) non ci sono più o hanno fallito: rimangono però i suoi romanzi, sempre estremamente vivi perché animati non soltanto dal problema della spartizione di cui sopra fra Dio e Cesare, ma pure dalla questione di capire meglio che cosa esattamente sia “Dio” e che cosa sia “Cesare”.
Note:
[1] Allende & the Myth Makers, pp.12-24.
[2] Pubblicata nel 1990 a cura di Judith Adamson presso Reinhardt Books. Il titolo del pezzo è Chile: The Dangerous Edge.
[3] Si tratta della recensione di The Heart of the Matter apparsa sul New Yorker del 17 luglio 1948, ora in The Collected Essays, Journalism and Letters, Volume 4 , Penguin, 1970, pp.497-501.
[4] Che, come disse il Poeta, andrebbero piuttosto chiamati i “non-fanno-entrare-dentro”.
[5] Il libro è del 1947; è uscito in Italia nel 1964 con il titolo di Crisi.
[6] “…il fatto più importante, nel mondo di Greene, è che Dio lo ha abbandonato” scrisse un anonimo recensore sul Times Literary Supplement del 17 settembre 1971. E si veda l’epigrafe del Cardinale Newman a Le vie senza legge.
[7] Così, perlomeno, afferma uno dei personaggi del Console onorario. In merito al Capitale Graham Greene manifestò successivamente un ben diverso atteggiamento (cfr. Monsignor Quixote del 1982, nonché Reflections, p.316), citando con approvazione il discorso di Marx sull’accumulazione primitiva del capitale (Libro I). Ringrazio Maria Grazia Meriggi per avere identificato il luogo marxiano cui si riferisce Greene.
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