
LONTANI E VICINI
MACCHE' OXFORD, SIAMO INGLESI
La fabbrica del sapere in sciopero
di Vincenzo Scalia 21 febbraio 2020
MACCHE' OXFORD, SIAMO INGLESI
La fabbrica del sapere in sciopero
di Vincenzo Scalia 21 febbraio 2020
Dal 20 febbraio al 13 marzo le università del Regno Unito scendono in sciopero. Saranno 14 le giornate interessate dall’astensione dal lavoro. 74 gli atenei interessati. I sindacati dell’UCU (University and College Union) intendono ottenere dai datori di lavoro miglioramenti salariali, l’abolizione del gender gap nelle paghe, la fine della precarizzazione, la riduzione dei carichi di lavoro, sui quali i padroni hanno fino ad ora opposto vaghe promesse, se non addirittura rifiuti netti.
Molti osservatori esterni sono spesso fuorviati dalla rappresentazione ufficiale del mondo accademico inglese, che identificano con Oxford, Cambridge e la London School of Economics. In realtà il contesto accademico d’Oltremanicasi connota per la mercificazione spinta della cultura, fino a creare un vero business della conoscenza che può essere considerato emblematico dello sviluppo del capitalismo contemporaneo.
Nel 1992 il governo inglese presieduto dal Tory John Major decide di concedere lo status di università ai Polytechnics, le scuole di specializzazione post-secondarie che ai tempi affollavano il sistema scolastico inglese, già notevolmente segmentato. Dietro il paravento delle pari opportunità per tutti di accedere a un titolo superiore, in realtà, si nasconde sin dall’inizio l’intenzione di sviluppare un vero e proprio business dell’istruzione universitaria, a cui il governo laburista di Tony Blair, cinque anni dopo, porrà il suggello. Le università inglesi, pur essendo private, fino al 1997 si basavano sui finanziamenti pubblici, permettendo agli studenti di conseguire gratuitamente le loro lauree. Con la giustificazione per cui la spesa pubblica non poteva essere aumentata in proporzione alla crescita del settore, si introdussero i fees, che nel 2014 raggiungono le 9.000 sterline annue, ovvero circa 10.000 euro. Gli studenti ricevono la cifra in prestito dal governo. In seguito, il credito viene riscattato dai privati, a cui lo restituiscono con un tasso di interesse relativamente basso, ma che si somma ai mutui che in seguito pagheranno per la casa e per i crediti al consumo, innescando una spirale di dipendenza dalle banche che dura tutta la vita.
L’introduzione dei fees rappresenta un mutamento qualitativo nel contesto universitario, complementare alla mercatizzazione dell’università: gli studenti si trasformano in clienti, che frequentano l’università per acquistare la merce della conoscenza, e alle cui aspettative i fornitori si debbono adeguare. Ne consegue una formazione dei docenti su moduli che si ispirano alla pedagogia costruttivista, ma che in realtà mirano a proporre un sapere universitario superficiale, generalista, basato sul gioco, sui quiz e sui sondaggi (da qui l’uso incentivato di piattaforme digitali come Kahoot e Padlet), che mirano principalmente a intrattenere gli studenti. Si svolgono seminari sulla gamification dell’apprendimento (!) per spingere i docenti a consegnare agli studenti un titolo universitario che attesti la produttività dell’università nel fabbricare lauree, più che la qualità dell’insegnamento impartito.
Il degrado delle condizioni di lavoro per i docenti, dovuto a questo modello, è immediatamente deducibile. Innanzitutto, gli studenti hanno il potere - in quanto clienti - di inoltrare lamentele formali (complaints) nei confronti dei docenti, in merito alla cattiva qualità del servizio loro fornito. I complaints, di solito, riguardano aspetti improbabili del contesto universitario, che spaziano dal risentimento per un rimprovero a lezione all’invito dei reduci di Guantanamo ad un seminario. Il management risolverà i complaints sempre a favore dello studente-cliente, col docente obbligato a fingere di porgere delle scuse. In realtà, si tratta di uno strumento disciplinare, che consente al management di esercitare pressione e controllo nei confronti del personale docente. Non a caso, i capi dipartimento hanno la qualifica di line managers, ovvero capi-reparto.
In secondo luogo, l’università è trasformata in una vera e propria catena di montaggio, coi tempi di correzione degli esami contingentati, l’obbligo di rispondere entro tre giorni lavorativi ad una email, la fissazione di parametri di valutazione degli esami che pretenderebbero di quantificare un aspetto fluido come l’acquisizione della cultura, la centralizzazione telematica di questi processi. Soprattutto, si mettono gli insegnanti costantemente sotto pressione sottoponendoli a continue valutazioni che ne parametrano il rendimento e dovrebbero costituire dei parametri su cui basare le prestazioni lavorative. Ci riferiamo alla National Student Survey, ovvero il gradimento che gli studenti esprimono ogni anno sui corsi che frequentano in base a indicatori stabiliti a livello nazionale, la Teaching Excellence Framework e la Research Excellence Framework, valutazioni da parte del governo della qualità della ricerca e dell’insegnamento. Sottoposti alla doppia pressione dal basso e dall’alto, costretti a inseguire costantemente parametri di efficienza e produttività, i docenti universitari britannici lavorano almeno 50 ore a settimana, e dispongono di un tempo sempre più limitato per aggiornare le loro conoscenze e per svolgere attività di ricerca. La mercificazione della cultura universitaria colpisce soprattutto, come sempre in questi casi, le docenti, che si trovano a dovere conciliare il loro lavoro col maggior ruolo genitoriale voluto da ciò che resta del patriarcato e che spesso debbono ricorrere al part-time o accettare impieghi ad ore per conciliare la loro vita professionale con la sfera privata, quando non sono costrette a rinunciare a una delle due.
In terzo luogo, la mercatizzazione dei saperi comporta la compressione dei costi in funzione dell’aumento dei profitti da parte del management. La messa sul mercato della conoscenza come bene di consumo si riverbera anche in ambiti extraeducativi, in particolare quello della rendita fondiaria. Bisogna costruire alloggi per studenti, ma anche aule e impianti sportivi. Queste necessità, per quanto sacrosante, innescano una catena di speculazioni immobiliari che finiscono per orientare gli investimenti del management universitario verso l’acquisizione delle aree necessarie allo sviluppo dell’ateneo e alla realizzazione di strutture avveniristiche spropositate, ma a detrimento del personale. In altre parole, maggiori sono gli investimenti immobiliari, minori sono le risorse a disposizione per il reclutamento del personale. I docenti, come abbiamo già notato, sono costretti a ricorrere al sovraccarico di lavoro, nonché a condividere i loro oneri con uno strato sempre più crescente di docenti precari, pagati ad ore, assunti a tempo determinato, spinti ad una precarizzazione a medio e a lungo termine che sempre più di rado si traduce in un’assunzione a tempo indeterminato. La segmentazione del personale docente, oltre a contenere i costi, produce una cesura all’interno del personale docente, della quale il padronato universitario cerca di trarre vantaggio. Inoltre, rende difficile programmare una redistribuzione dei carichi di lavoro che consenta di equilibrare le ore dedicate all’insegnamento con quelle da destinare alla ricerca e all’aggiornamento professionale.
Infine, il contenimento dei costi si ripercuote sui salari. Mentre il management auto-delibera stanziamenti per l’aumento dei propri stipendi, offre ai docenti un aumento dell’1,8% l’anno, di molto inferiore sia al costo della vita di questi ultimi anni, sia ai profitti realizzati dal business universitario. Un salario più alto, oltre a riconoscere i sacrifici dei docenti, rappresenterebbe una vera e propria redistribuzione della ricchezza prodotta. Karl Marx e Raniero Panzieri, fossero vivi, direbbero che ce lo avevano detto. Oppure sarebbero delusi dal peggioramento della situazione. Di certo, approverebbero lo sciopero. In solidarity!
Molti osservatori esterni sono spesso fuorviati dalla rappresentazione ufficiale del mondo accademico inglese, che identificano con Oxford, Cambridge e la London School of Economics. In realtà il contesto accademico d’Oltremanicasi connota per la mercificazione spinta della cultura, fino a creare un vero business della conoscenza che può essere considerato emblematico dello sviluppo del capitalismo contemporaneo.
Nel 1992 il governo inglese presieduto dal Tory John Major decide di concedere lo status di università ai Polytechnics, le scuole di specializzazione post-secondarie che ai tempi affollavano il sistema scolastico inglese, già notevolmente segmentato. Dietro il paravento delle pari opportunità per tutti di accedere a un titolo superiore, in realtà, si nasconde sin dall’inizio l’intenzione di sviluppare un vero e proprio business dell’istruzione universitaria, a cui il governo laburista di Tony Blair, cinque anni dopo, porrà il suggello. Le università inglesi, pur essendo private, fino al 1997 si basavano sui finanziamenti pubblici, permettendo agli studenti di conseguire gratuitamente le loro lauree. Con la giustificazione per cui la spesa pubblica non poteva essere aumentata in proporzione alla crescita del settore, si introdussero i fees, che nel 2014 raggiungono le 9.000 sterline annue, ovvero circa 10.000 euro. Gli studenti ricevono la cifra in prestito dal governo. In seguito, il credito viene riscattato dai privati, a cui lo restituiscono con un tasso di interesse relativamente basso, ma che si somma ai mutui che in seguito pagheranno per la casa e per i crediti al consumo, innescando una spirale di dipendenza dalle banche che dura tutta la vita.
L’introduzione dei fees rappresenta un mutamento qualitativo nel contesto universitario, complementare alla mercatizzazione dell’università: gli studenti si trasformano in clienti, che frequentano l’università per acquistare la merce della conoscenza, e alle cui aspettative i fornitori si debbono adeguare. Ne consegue una formazione dei docenti su moduli che si ispirano alla pedagogia costruttivista, ma che in realtà mirano a proporre un sapere universitario superficiale, generalista, basato sul gioco, sui quiz e sui sondaggi (da qui l’uso incentivato di piattaforme digitali come Kahoot e Padlet), che mirano principalmente a intrattenere gli studenti. Si svolgono seminari sulla gamification dell’apprendimento (!) per spingere i docenti a consegnare agli studenti un titolo universitario che attesti la produttività dell’università nel fabbricare lauree, più che la qualità dell’insegnamento impartito.
Il degrado delle condizioni di lavoro per i docenti, dovuto a questo modello, è immediatamente deducibile. Innanzitutto, gli studenti hanno il potere - in quanto clienti - di inoltrare lamentele formali (complaints) nei confronti dei docenti, in merito alla cattiva qualità del servizio loro fornito. I complaints, di solito, riguardano aspetti improbabili del contesto universitario, che spaziano dal risentimento per un rimprovero a lezione all’invito dei reduci di Guantanamo ad un seminario. Il management risolverà i complaints sempre a favore dello studente-cliente, col docente obbligato a fingere di porgere delle scuse. In realtà, si tratta di uno strumento disciplinare, che consente al management di esercitare pressione e controllo nei confronti del personale docente. Non a caso, i capi dipartimento hanno la qualifica di line managers, ovvero capi-reparto.
In secondo luogo, l’università è trasformata in una vera e propria catena di montaggio, coi tempi di correzione degli esami contingentati, l’obbligo di rispondere entro tre giorni lavorativi ad una email, la fissazione di parametri di valutazione degli esami che pretenderebbero di quantificare un aspetto fluido come l’acquisizione della cultura, la centralizzazione telematica di questi processi. Soprattutto, si mettono gli insegnanti costantemente sotto pressione sottoponendoli a continue valutazioni che ne parametrano il rendimento e dovrebbero costituire dei parametri su cui basare le prestazioni lavorative. Ci riferiamo alla National Student Survey, ovvero il gradimento che gli studenti esprimono ogni anno sui corsi che frequentano in base a indicatori stabiliti a livello nazionale, la Teaching Excellence Framework e la Research Excellence Framework, valutazioni da parte del governo della qualità della ricerca e dell’insegnamento. Sottoposti alla doppia pressione dal basso e dall’alto, costretti a inseguire costantemente parametri di efficienza e produttività, i docenti universitari britannici lavorano almeno 50 ore a settimana, e dispongono di un tempo sempre più limitato per aggiornare le loro conoscenze e per svolgere attività di ricerca. La mercificazione della cultura universitaria colpisce soprattutto, come sempre in questi casi, le docenti, che si trovano a dovere conciliare il loro lavoro col maggior ruolo genitoriale voluto da ciò che resta del patriarcato e che spesso debbono ricorrere al part-time o accettare impieghi ad ore per conciliare la loro vita professionale con la sfera privata, quando non sono costrette a rinunciare a una delle due.
In terzo luogo, la mercatizzazione dei saperi comporta la compressione dei costi in funzione dell’aumento dei profitti da parte del management. La messa sul mercato della conoscenza come bene di consumo si riverbera anche in ambiti extraeducativi, in particolare quello della rendita fondiaria. Bisogna costruire alloggi per studenti, ma anche aule e impianti sportivi. Queste necessità, per quanto sacrosante, innescano una catena di speculazioni immobiliari che finiscono per orientare gli investimenti del management universitario verso l’acquisizione delle aree necessarie allo sviluppo dell’ateneo e alla realizzazione di strutture avveniristiche spropositate, ma a detrimento del personale. In altre parole, maggiori sono gli investimenti immobiliari, minori sono le risorse a disposizione per il reclutamento del personale. I docenti, come abbiamo già notato, sono costretti a ricorrere al sovraccarico di lavoro, nonché a condividere i loro oneri con uno strato sempre più crescente di docenti precari, pagati ad ore, assunti a tempo determinato, spinti ad una precarizzazione a medio e a lungo termine che sempre più di rado si traduce in un’assunzione a tempo indeterminato. La segmentazione del personale docente, oltre a contenere i costi, produce una cesura all’interno del personale docente, della quale il padronato universitario cerca di trarre vantaggio. Inoltre, rende difficile programmare una redistribuzione dei carichi di lavoro che consenta di equilibrare le ore dedicate all’insegnamento con quelle da destinare alla ricerca e all’aggiornamento professionale.
Infine, il contenimento dei costi si ripercuote sui salari. Mentre il management auto-delibera stanziamenti per l’aumento dei propri stipendi, offre ai docenti un aumento dell’1,8% l’anno, di molto inferiore sia al costo della vita di questi ultimi anni, sia ai profitti realizzati dal business universitario. Un salario più alto, oltre a riconoscere i sacrifici dei docenti, rappresenterebbe una vera e propria redistribuzione della ricchezza prodotta. Karl Marx e Raniero Panzieri, fossero vivi, direbbero che ce lo avevano detto. Oppure sarebbero delusi dal peggioramento della situazione. Di certo, approverebbero lo sciopero. In solidarity!
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