
I libri che per noi si rivelano importanti e decisivi si incontrano sempre per caso. Per meglio dire, il loro incontro sembra essere sempre il frutto di una strana combinazione, nella quale contingenza e destino si mescolano fatalmente. È quello che è capitato a me con Una seconda natura, libro di Michael Pollan uscito più di una ventina di anni fa e recentemente tradotto e pubblicato per i tipi della casa editrice Adelphi (2016, traduzione di Isabella C. Blum).
Da dilettante e apprendista agricoltore quale mi definisco, alle prese con un terreno di circa mezzo ettaro lasciato alla famiglia da mio padre, ero alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarmi a dare un senso alla attività di giardinaggio e agricoltura. Qualcosa che mi consentisse di elaborare e codificare quanto sono andato sperimentando negli ultimi cinque anni in questo piccolo giardino che rischiava di finire abbandonato a se stesso, composto da un uliveto, da un frutteto (con relativo agrumeto), di piccole dimensioni, e da un orto. Non andavo alla ricerca di manuali tecnici di agricoltura, ovviamente biologica, che già possedevo, né, tantomeno, ero interessato a rimpinguare la mia collezione di libri, bellissimi, sulla teoria della complessità e dell’ecologia della mente. A tutta prima, potrei dire che imbattersi nel libro di Michael Pollan ha significato mettere in atto un’operazione di riconoscimento, attraverso la quale prendere consapevolezza di pensieri, sentimenti, punti di vista e approcci che implicitamente già operavano nella mia interiorità e nel mio rapporto con l’ambiente naturale su cui, io con la mia rozza incultura urbana, mi ero proposto di intervenire.
Michael Pollan insegna che abbiamo bisogno di cambiare prospettive, linguaggi, abitudini, stili di vita, se vogliamo sperare di rimediare all’irrimediabile, alla catastrofe ambientale che si approssima irreversibilmente. Insegna che ciascuno di noi, nel proprio agire domestico, opera in coevoluzione con la natura circostante, ci ricorda che noi stessi siam parte della natura in simbiotica connessione con tutti gli altri esseri naturali. La sua visione del rapporto tra uomo e natura mi ha ricordato, per certi versi, l’attenzione per la dimensione qualitativa, in un rapporto di determinazione negativa con la dimensione quantitativa (il richiamo a Newton è evidente), maturata da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, nella parte sulla ragione osservativa. Certo, la sua non può essere considerata una vera e propria filosofia della natura, almeno non nel modo in cui, per esempio, poteva intenderla la concezione romantica e idealistica, si pensi oltre che a Hegel anche alla visione di Schelling. La nostra concezione del sapere scientifico è molto diversa, e forse più complessa, di quella elaborata nell’Ottocento. Nel caso del nostro, si tratta, piuttosto, dello svolgimento di un percorso biografico e esperienziale all’interno del quale maturano suggestioni concrete, direi quasi minute, ma inserite entro un contesto teorico che fa della battaglia al cartesianesimo, e alla divisione da esso postulata tra soggettività e oggettività, si pensi per esempio al Discorso sul metodo, il proprio obiettivo polemico.
Una seconda natura narra la storia di un’educazione in giardino. A tal proposito, se ho capito bene, la cultura anglosassone, quando parla del lavoro di giardiniere, gardener, si riferisce non solo all’attività propria del curatore di giardini ma anche a quello che noi chiameremmo lavoro del contadino, dell’orticoltore; di conseguenza, il giardino corrisponderebbe anche, in lingua italiana, all’appezzamento di terra a uso agricolo. Ma veniamo alla narrazione di cui parla il libro. In questa esperienza di formazione con cui Pollan, e noi con lui, abbiamo imparato a occuparci della terra, si arriva a scoprire quanto tormentati siano i rapporti tra natura e cultura. Per esplicitare adeguatamente questa questione è sufficiente fare riferimento a quanto Pollan scrive a proposito della cura del prato, ossessione perversa del tipico americano della middle class, proprietario di villetta monofamiliare con annesso il suo folto prato verdeggiante: “mi convinsi che la cura del prato non ha a che fare con il giardinaggio molto più di azioni come passare la cera sui pavimenti o asfaltare una strada. Il giardinaggio era un sottile processo di dare e prendere nei confronti del paesaggio, la ricerca di una qualche terra di mezzo fra cultura e natura. Un prato era la natura sotto il tacco della cultura. Quando tosavo il mio tappeto d’erba, mi sentivo come se – invece di lavorarla – stessi muovendo guerra alla terra; (…) A differenza di qualsiasi altra pianta del mio giardino, l’erba era anonima, massificata, privata di qualsiasi possibilità di cambiamento o sviluppo, per non parlare di qualsiasi parvenza di autodeterminazione. Io governavo un paesaggio totalitario” (p. 82).
Pollan, facendo riferimento al costume statunitense di arredare i propri giardini con soffici, verdi e folti tappeti erbosi, ci invita a comprendere come questa abitudine sia il sintomo di un rapporto fondato non sulla comprensione del carattere di interdipendenza che lega l’uomo alla natura ma su una sua volontà di dominio: “noi imponiamo i nostri prati alla terra. E poiché la geografia e il clima di gran parte di questo paese (ndr gli USA), sono poco adatti ai tappeti erbosi (nessuno dei quali è costituito da specie native), questi ultimi non possono essere realizzati senza gli strumenti della civiltà industriale del nostro secolo: fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi chimici, macchine e, spesso, sistemi di irrigazione computerizzati” (p. 83). C’è quasi il rimando a un’idea platonica di prato, dice Pollan, un’idea, tuttavia, irreale, che ci distrae dai luoghi reali per catapultarci dentro un flusso virtuale di immagini. In fondo, i prati ben tosati sono “una forma di televisione”(p. 83). È uno dei tanti esempi riportati nel libro, significativo perché indica, a partire anche dalle nostre piccole abitudini del quotidiano, cosa possiamo fare per mettere in discussione l’industrialismo e l’aberrante modo di produzione fondato sull’accumulazione di capitale. Certo, esempi che indicano azioni necessarie ma non sufficienti, e che tuttavia sono premessa indispensabile per chi agisce localmente e pensa globalmente.
In antitesi al modo distorto di relazionarsi al contesto ambientale, Pollan propone un atteggiamento diverso, fondato sul rispetto per quello che un tempo era oggetto di culto nell’antica religione romana, il genius loci, ossia, più prosaicamente, la cura per la relazione di interdipendenza che lega l’ambiente e tutti i suoi attori viventi. “Il giardinaggio, ormai ero arrivato ad apprezzarlo, è un’esplorazione minuziosa del luogo; tutto quel che accade nel mio terreno – il prosperare e morire di particolari piante, le scorrerie di vari insetti e di altri animali nocivi – mi insegna a conoscere questo piccolo appezzamento più intimamente: la sua geologia e il suo microclima, la particolare ecologia delle sue infestanti locali, dei suoi mammiferi e dei suoi insetti. Il mio giardino prospera nella misura in cui io comprendo tutte queste particolarità e mi adatto ad esse” (p. 83). È per questo che, nel mio caso, per esempio, non aveva senso continuare, su un terreno argilloso, esposto sul mar Mediterraneo, a 60 metri di altitudine circa, a mettere a dimora alberi di ciliegio. Molto più utile, e produttivo, trapiantare albicocchi, melograni e alberi di mandorlo. Lo confesso, non è stato facile capirlo, sarà perché amo ingozzarmi di ciliege.
Eppure, sono proprio gli insuccessi a determinare quella lenta e graduale accumulazione di esperienza che può, forse, garantire un giorno il successo. “Per chi coltiva la terra la voce fallimento è molto più alta e chiara di quella di successo” (p. 149). Pollan sottolinea come, di fronte all’insuccesso per una coltivazione mal riuscita, non vale la pena lasciarsi assalire dalla frustrazione. Pollan vuol dire che i fallimenti hanno da insegnare di più, sul suolo, sulla meteorologia, sulle preferenze dei parassiti locali, sul carattere della sua terra (p. 149). Un raccolto andato a male, un innesto non riuscito, un’improvvisa cascola di frutti, una pianta che inaspettatamente è avvizzita. Ogni agricoltore conosce decine e decine di questi episodi, scrive Pollan. Il che, per il sottoscritto, non ha soltanto un’ottima funzione consolatrice, agisce da monito e stimolo ad un tempo, visto che è a partire dall’accumulo di precedenti delusioni che può venir fuori qualcosa di buono. L’insegnamento è che bisogna imparare a saper ascoltare la terra, bisogna imparare, avrebbe detto Nietzsche, ad essere come la terra.
Infine, sul piantare gli alberi. Non posso fare a meno di piantare alberi, soprattutto di agrumi, quelli che dalle mie parti sembrano riuscire meglio. Pollan spiega, acutamente, che piantare alberi è una sorta di scommessa sul futuro. La contemporaneità, sussunta totalitariamente entro la sfera di un eterno presente, non conosce il futuro. Come se vi fosse, in azione, una qualche patologia culturale consistente nel venir meno della capacità di immaginare il futuro e di sperare, dunque, in un mondo migliore. In effetti, piantare alberi sottintende il possesso della capacità dell’attesa, della facoltà della pazienza, della volontà di costruire. Significa, dice Pollan, “tenere d’occhio una gratificazione lontana nel tempo”, e la cui realizzazione non è mai del tutto scontata. Come a dire: piantare un albero è “sempre un’impresa utopistica, una scommessa su un futuro a cui il giardiniere non si aspetta necessariamente di assistere” (p. 187).
Una seconda natura mi ha aiutato a dare forma a pensieri e a esperienze che, lentamente, si sono, sempre di più, impossessati di interessi e preoccupazioni personali. Non so cosa direbbe mio padre, che involontariamente mi ha lasciato in eredità l’onere di occuparmi di questo pezzo di terra, del mio approccio, dei miei insuccessi e della mia cura contadina. Forse esprimerebbe un sorriso di comprensione e simpatia. Se un giorno dovessi reincontrarlo, cosa di cui per la verità dubito alquanto, lo ringrazierei per l’opportunità che mi ha offerto con l’impegno che mi sono assunto coltivando il suo giardino. L’opportunità di elaborare una comprensione sentimentale e razionale insieme, frutto di un operare concreto, della danza naturale che ci avvolge e coinvolge tutti come esseri viventi. Una saggezza che ci sprofonda, quando rimaniamo soli, al calar della sera, immersi tra i nostri alberi, in una condizione di stupore estatico per la bellezza naturale che ci circonda. Quella bellezza della natura che è all'origine, è bene non dimenticarlo, della nostra stessa esistenza.
Da dilettante e apprendista agricoltore quale mi definisco, alle prese con un terreno di circa mezzo ettaro lasciato alla famiglia da mio padre, ero alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarmi a dare un senso alla attività di giardinaggio e agricoltura. Qualcosa che mi consentisse di elaborare e codificare quanto sono andato sperimentando negli ultimi cinque anni in questo piccolo giardino che rischiava di finire abbandonato a se stesso, composto da un uliveto, da un frutteto (con relativo agrumeto), di piccole dimensioni, e da un orto. Non andavo alla ricerca di manuali tecnici di agricoltura, ovviamente biologica, che già possedevo, né, tantomeno, ero interessato a rimpinguare la mia collezione di libri, bellissimi, sulla teoria della complessità e dell’ecologia della mente. A tutta prima, potrei dire che imbattersi nel libro di Michael Pollan ha significato mettere in atto un’operazione di riconoscimento, attraverso la quale prendere consapevolezza di pensieri, sentimenti, punti di vista e approcci che implicitamente già operavano nella mia interiorità e nel mio rapporto con l’ambiente naturale su cui, io con la mia rozza incultura urbana, mi ero proposto di intervenire.
Michael Pollan insegna che abbiamo bisogno di cambiare prospettive, linguaggi, abitudini, stili di vita, se vogliamo sperare di rimediare all’irrimediabile, alla catastrofe ambientale che si approssima irreversibilmente. Insegna che ciascuno di noi, nel proprio agire domestico, opera in coevoluzione con la natura circostante, ci ricorda che noi stessi siam parte della natura in simbiotica connessione con tutti gli altri esseri naturali. La sua visione del rapporto tra uomo e natura mi ha ricordato, per certi versi, l’attenzione per la dimensione qualitativa, in un rapporto di determinazione negativa con la dimensione quantitativa (il richiamo a Newton è evidente), maturata da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, nella parte sulla ragione osservativa. Certo, la sua non può essere considerata una vera e propria filosofia della natura, almeno non nel modo in cui, per esempio, poteva intenderla la concezione romantica e idealistica, si pensi oltre che a Hegel anche alla visione di Schelling. La nostra concezione del sapere scientifico è molto diversa, e forse più complessa, di quella elaborata nell’Ottocento. Nel caso del nostro, si tratta, piuttosto, dello svolgimento di un percorso biografico e esperienziale all’interno del quale maturano suggestioni concrete, direi quasi minute, ma inserite entro un contesto teorico che fa della battaglia al cartesianesimo, e alla divisione da esso postulata tra soggettività e oggettività, si pensi per esempio al Discorso sul metodo, il proprio obiettivo polemico.
Una seconda natura narra la storia di un’educazione in giardino. A tal proposito, se ho capito bene, la cultura anglosassone, quando parla del lavoro di giardiniere, gardener, si riferisce non solo all’attività propria del curatore di giardini ma anche a quello che noi chiameremmo lavoro del contadino, dell’orticoltore; di conseguenza, il giardino corrisponderebbe anche, in lingua italiana, all’appezzamento di terra a uso agricolo. Ma veniamo alla narrazione di cui parla il libro. In questa esperienza di formazione con cui Pollan, e noi con lui, abbiamo imparato a occuparci della terra, si arriva a scoprire quanto tormentati siano i rapporti tra natura e cultura. Per esplicitare adeguatamente questa questione è sufficiente fare riferimento a quanto Pollan scrive a proposito della cura del prato, ossessione perversa del tipico americano della middle class, proprietario di villetta monofamiliare con annesso il suo folto prato verdeggiante: “mi convinsi che la cura del prato non ha a che fare con il giardinaggio molto più di azioni come passare la cera sui pavimenti o asfaltare una strada. Il giardinaggio era un sottile processo di dare e prendere nei confronti del paesaggio, la ricerca di una qualche terra di mezzo fra cultura e natura. Un prato era la natura sotto il tacco della cultura. Quando tosavo il mio tappeto d’erba, mi sentivo come se – invece di lavorarla – stessi muovendo guerra alla terra; (…) A differenza di qualsiasi altra pianta del mio giardino, l’erba era anonima, massificata, privata di qualsiasi possibilità di cambiamento o sviluppo, per non parlare di qualsiasi parvenza di autodeterminazione. Io governavo un paesaggio totalitario” (p. 82).
Pollan, facendo riferimento al costume statunitense di arredare i propri giardini con soffici, verdi e folti tappeti erbosi, ci invita a comprendere come questa abitudine sia il sintomo di un rapporto fondato non sulla comprensione del carattere di interdipendenza che lega l’uomo alla natura ma su una sua volontà di dominio: “noi imponiamo i nostri prati alla terra. E poiché la geografia e il clima di gran parte di questo paese (ndr gli USA), sono poco adatti ai tappeti erbosi (nessuno dei quali è costituito da specie native), questi ultimi non possono essere realizzati senza gli strumenti della civiltà industriale del nostro secolo: fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi chimici, macchine e, spesso, sistemi di irrigazione computerizzati” (p. 83). C’è quasi il rimando a un’idea platonica di prato, dice Pollan, un’idea, tuttavia, irreale, che ci distrae dai luoghi reali per catapultarci dentro un flusso virtuale di immagini. In fondo, i prati ben tosati sono “una forma di televisione”(p. 83). È uno dei tanti esempi riportati nel libro, significativo perché indica, a partire anche dalle nostre piccole abitudini del quotidiano, cosa possiamo fare per mettere in discussione l’industrialismo e l’aberrante modo di produzione fondato sull’accumulazione di capitale. Certo, esempi che indicano azioni necessarie ma non sufficienti, e che tuttavia sono premessa indispensabile per chi agisce localmente e pensa globalmente.
In antitesi al modo distorto di relazionarsi al contesto ambientale, Pollan propone un atteggiamento diverso, fondato sul rispetto per quello che un tempo era oggetto di culto nell’antica religione romana, il genius loci, ossia, più prosaicamente, la cura per la relazione di interdipendenza che lega l’ambiente e tutti i suoi attori viventi. “Il giardinaggio, ormai ero arrivato ad apprezzarlo, è un’esplorazione minuziosa del luogo; tutto quel che accade nel mio terreno – il prosperare e morire di particolari piante, le scorrerie di vari insetti e di altri animali nocivi – mi insegna a conoscere questo piccolo appezzamento più intimamente: la sua geologia e il suo microclima, la particolare ecologia delle sue infestanti locali, dei suoi mammiferi e dei suoi insetti. Il mio giardino prospera nella misura in cui io comprendo tutte queste particolarità e mi adatto ad esse” (p. 83). È per questo che, nel mio caso, per esempio, non aveva senso continuare, su un terreno argilloso, esposto sul mar Mediterraneo, a 60 metri di altitudine circa, a mettere a dimora alberi di ciliegio. Molto più utile, e produttivo, trapiantare albicocchi, melograni e alberi di mandorlo. Lo confesso, non è stato facile capirlo, sarà perché amo ingozzarmi di ciliege.
Eppure, sono proprio gli insuccessi a determinare quella lenta e graduale accumulazione di esperienza che può, forse, garantire un giorno il successo. “Per chi coltiva la terra la voce fallimento è molto più alta e chiara di quella di successo” (p. 149). Pollan sottolinea come, di fronte all’insuccesso per una coltivazione mal riuscita, non vale la pena lasciarsi assalire dalla frustrazione. Pollan vuol dire che i fallimenti hanno da insegnare di più, sul suolo, sulla meteorologia, sulle preferenze dei parassiti locali, sul carattere della sua terra (p. 149). Un raccolto andato a male, un innesto non riuscito, un’improvvisa cascola di frutti, una pianta che inaspettatamente è avvizzita. Ogni agricoltore conosce decine e decine di questi episodi, scrive Pollan. Il che, per il sottoscritto, non ha soltanto un’ottima funzione consolatrice, agisce da monito e stimolo ad un tempo, visto che è a partire dall’accumulo di precedenti delusioni che può venir fuori qualcosa di buono. L’insegnamento è che bisogna imparare a saper ascoltare la terra, bisogna imparare, avrebbe detto Nietzsche, ad essere come la terra.
Infine, sul piantare gli alberi. Non posso fare a meno di piantare alberi, soprattutto di agrumi, quelli che dalle mie parti sembrano riuscire meglio. Pollan spiega, acutamente, che piantare alberi è una sorta di scommessa sul futuro. La contemporaneità, sussunta totalitariamente entro la sfera di un eterno presente, non conosce il futuro. Come se vi fosse, in azione, una qualche patologia culturale consistente nel venir meno della capacità di immaginare il futuro e di sperare, dunque, in un mondo migliore. In effetti, piantare alberi sottintende il possesso della capacità dell’attesa, della facoltà della pazienza, della volontà di costruire. Significa, dice Pollan, “tenere d’occhio una gratificazione lontana nel tempo”, e la cui realizzazione non è mai del tutto scontata. Come a dire: piantare un albero è “sempre un’impresa utopistica, una scommessa su un futuro a cui il giardiniere non si aspetta necessariamente di assistere” (p. 187).
Una seconda natura mi ha aiutato a dare forma a pensieri e a esperienze che, lentamente, si sono, sempre di più, impossessati di interessi e preoccupazioni personali. Non so cosa direbbe mio padre, che involontariamente mi ha lasciato in eredità l’onere di occuparmi di questo pezzo di terra, del mio approccio, dei miei insuccessi e della mia cura contadina. Forse esprimerebbe un sorriso di comprensione e simpatia. Se un giorno dovessi reincontrarlo, cosa di cui per la verità dubito alquanto, lo ringrazierei per l’opportunità che mi ha offerto con l’impegno che mi sono assunto coltivando il suo giardino. L’opportunità di elaborare una comprensione sentimentale e razionale insieme, frutto di un operare concreto, della danza naturale che ci avvolge e coinvolge tutti come esseri viventi. Una saggezza che ci sprofonda, quando rimaniamo soli, al calar della sera, immersi tra i nostri alberi, in una condizione di stupore estatico per la bellezza naturale che ci circonda. Quella bellezza della natura che è all'origine, è bene non dimenticarlo, della nostra stessa esistenza.
Commento lasciato da Greta Mannino il 14 febbraio 2017
Questo suo articolo,Giovanni, è il primo che leggo in questo interessante portale , forse subito attratta dal tema dell'agricoltura che mi affascina molto.Ho la fortuna di vivere in campagna e nonostante sia più complicato spostarsi, non rinuncerei mai alla possibilità di curare la terra, vedere crescere alberi e ortaggi, e mangiare quello che dopo tanto impegno cresce. Di recente ho scoperto un interessante progetto di permacultura qui in Sicilia, e proprio la permacultura mi sembra portatrice di un'idea di agricoltura più naturale possibile, che vuole ricreare un ecosistema perso nel tempo. E proprio un tempo io apprezzavo i prati all'inglese,presto mi accorsi di come avrei devastato il mio terreno, cambiai subito idea! Cordiali saluti.
Questo suo articolo,Giovanni, è il primo che leggo in questo interessante portale , forse subito attratta dal tema dell'agricoltura che mi affascina molto.Ho la fortuna di vivere in campagna e nonostante sia più complicato spostarsi, non rinuncerei mai alla possibilità di curare la terra, vedere crescere alberi e ortaggi, e mangiare quello che dopo tanto impegno cresce. Di recente ho scoperto un interessante progetto di permacultura qui in Sicilia, e proprio la permacultura mi sembra portatrice di un'idea di agricoltura più naturale possibile, che vuole ricreare un ecosistema perso nel tempo. E proprio un tempo io apprezzavo i prati all'inglese,presto mi accorsi di come avrei devastato il mio terreno, cambiai subito idea! Cordiali saluti.
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