Venerdì 22 giugno alle ore 18.00 presso la libreria laFeltrinelli di Palermo, in via Cavour 133, si terrà la presentazione del libro di Simone e André Weil L’arte della matematica (Adelphi edizioni, 2018) curato da Maria Concetta Sala. Insieme alla curatrice parteciperanno alla presentazione Ina Castellino e Giovanni Di Benedetto. Pubblichiamo qui di seguito una recensione del libro scritta da Giovanni Di Benedetto.
Nell’aprile del 1940 Simone Weil scriveva al fratello André, detenuto a Rouen in attesa di giudizio di fronte al tribunale militare per renitenza alla leva, una bozza di lettera probabilmente mai spedita. André Weil è un giovane matematico, un ragazzo prodigio che ha scelto di consacrare tutta la propria esistenza allo studio della matematica. Ecco uno stralcio di quella missiva della sorella, indicativo del clima che si respirava in Francia al momento dello scontro bellico contro il nazifascismo: “Un’atmosfera pesante, fosca, soffocante è calata sul paese, così che la gente è giù di corda e scontenta di tutto, ma, per contro, è disposta a incassare qualunque cosa senza protestare e perfino senza stupirsene. Situazione tipica dei periodi di tirannide. Il malcontento generale, considerato sempre dagli osservatori superficiali come un indice della fragilità del potere, in realtà testimonia l’esatto contrario. Un malcontento sordo e diffuso è compatibile con una sottomissione pressoché illimitata per decine e decine d’anni; quando al sentimento della sventura si unisce l’assenza di speranza, come sta accadendo ora, gli uomini obbediscono sempre, fino a quando uno shock esterno non restituisca loro la speranza” (L’arte della matematica, Adelphi, Milano, 2018, p. 101). Sono parole dalle quali si evince, anche se sottotraccia, la denuncia per la crisi di senso che investe la società francese durante gli anni del secondo conflitto mondiale (ma forse, declinate nella direzione dell’attualità, che investe anche il nostro tempo) e che rimandano a un sentimento di spaesamento e frammentazione. Anche se l’occasione da cui muovono queste considerazioni, come si è detto, è strettamente connessa ai tragici eventi del secondo conflitto mondiale, tuttavia come non cogliere quel sentimento di estraneità con cui si è svuotata, nel contemporaneo, la vita sociale, caduta in preda di una crisi di senso che intossica in modo pervasivo la trama delle relazioni sociali?
Il bellissimo libro L’arte della matematica (Adelphi, Milano, 2018), di Simone e André Weil, curato da Maria Concetta Sala, si legge tutto d’un fiato: dal testo affiora nitidissima l’affettuosa complicità, la profondità dell’intesa e il tenero legame che accomuna fratello e sorella. L’erudizione dei due giovani interlocutori, che traspare dallo scambio epistolare, è davvero emozionante e, allo stesso tempo, sconcertante. I due sorvolano con una disinvoltura strabiliante i più svariati campi del sapere, dalle scienze matematiche, geometria e algebra in primis, alla filosofia antica, dalla sapienza orientale alla cultura del Seicento e illuministica, dalla letteratura alla riflessione sulla scienza contemporanea. A questo si aggiunge la forza con cui i due riescono a fare degli argomenti trattati materia viva e concreta dell’esistenza quotidiana, esperienza pratica, oltre che teorica. In loro il sapere si innesta vivamente nel travaglio quotidiano, l’uno che si fa incarcerare pur di ribadire la propria obiezione di coscienza contro la guerra, l’altra che riconduce ogni bisogno intellettuale e religioso all’impegno, per così dire, militante.
Ne La prima radice Simone Weil definisce lo sradicamento come la mancanza di “partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro” (La prima radice, SE, Milano, 1990, p.49). La sua causa è individuabile in una qualsivoglia forma di conquista, a volte militare, più spesso determinata dal potere del denaro e dalla dominazione economica. Ma anche l’istruzione e la trasmissione del sapere possono configurarsi come fattori che concorrono allo sviluppo di una pseudocultura sviluppatasi in un ambito molto ristretto, orientata verso lo specialismo e separata dal mondo. Scrive la giovane filosofa: “Ai giorni nostri, un uomo può appartenere alla società cosiddetta colta, senza avere nessuna idea sul destino dell’uomo, e d’altra parte, senza sapere (per esempio) che non tutte le costellazioni sono visibili in ogni stagione” (ibidem, p.51).
Forse la richiesta che Simone Weil rivolge al fratello André, di riflettere sul modo di fare intravedere ai profani la natura degli studi matematici per renderli fruibili anche al di fuori della ristretta cerchia di iniziati e specialisti della materia, può essere collocata entro quello sfondo teorico impregnato di riflessioni sulla crisi degli attuali sistemi sociali e dei modelli di trasmissione del sapere ad essi coerenti, entrambi tendenzialmente totalitari. Da questa prospettiva è comprensibile che emerga, nella giovane filosofa, il bisogno di ripensare i fondamenti del sapere tutto, e dunque anche di quello matematico, connettendoli alle istanze di cambiamento sociale e politico e al tentativo di ricongiungere armoniosamente dimensione individuale e dimensione collettiva, dimensione mondana e dimensione spirituale, immanenza e trascendenza. Perché, come scrive la sorella di André, “concepire l’universo come un equilibrio, un’armonia, è come farne uno specchio della salvezza” (95) (Da qui a seguire, ove non esplicitato diversamente, i numeri tra parentesi rimandano alle pagine de L’arte della matematica, Adelphi, Milano, 2018).
Da qui segue, innanzitutto, la particolare concezione, di Simone Weil, della scienza e della matematica antiche, in particolare della aritmo-geometria dei pitagorici e poi dei platonici. Tutto si svolge a partire da una serie di impegnative riflessioni sul problema degli incommensurabili. Aristotele ci informa che i pitagorici spiegavano il mondo naturale rinviando a relazioni numeriche. I fenomeni naturali, infatti, sarebbero stati spiegabili attraverso rapporti tra numeri: in questo modo si sarebbero potute evidenziare le analogie che sarebbero sussistite tra i fenomeni naturali e i rapporti numerici. Visto che attraverso i numeri si potevano esprimere e conoscere le cose della natura, i pitagorici concludevano che attraverso i numeri sarebbe stato possibile spiegare tutto.
La concezione pitagorica del numero era di tipo qualitativo, fisico-geometrico, e si risolveva nella disposizione spaziale di punti. È chiaro che questo modo di intendere il numero comportava il riferimento ai soli numeri interi concepiti come insiemi di più unità. Vale la pena di aggiungere, incidentalmente, che anche il fenomeno qualitativo del suono, da questo punto di vista, obbedisce a rapporti di natura quantitativa. Ma proprio il fondarsi del pitagorismo esclusivamente sui numeri interi faceva della concezione matematica una concezione basata sul discontinuo che rendeva impossibile tenere conto dei numeri irrazionali, ovvero dei numeri che esprimevano un rapporto tra due grandezze incommensurabili. Proprio l’applicazione del teorema di Pitagora a uno dei due triangoli isosceli in cui è possibile dividere un quadrato, dimostra che non può esistere alcun segmento, per quanto piccolo, che sia contenuto, per un numero esatto di volte, tanto nel lato quanto nella diagonale del quadrato: lato e diagonale sono incommensurabili e questo comporta l’impossibilità che ciascuno di essi sia costituito da un numero finito di punti. È dunque l’impossibilità di esprimere numericamente il rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato.
André Weil usa l’espressione logoi alogoi (le ragioni irrazionali, i rapporti senza rapporto), si potrebbe anche dire parole senza parola, per fare notare alla sorella che la scoperta dei numeri irrazionali e il problema dell’incommensurabilità avrebbe rappresentato un vero e proprio trauma per i Greci. Tuttavia sul problema degli incommensurabili e della proporzione scrive Simone Weil: “Non posso ammettere che si dica che i Greci si sono applicati «disperatamente» alla proporzione (…) o che abbiano avuto un sentimento così intenso della sproporzione fra l’uomo e Dio. Tutti gli uomini hanno il sentimento di una distanza infinita e al tempo stesso di un’unità assoluta fra l’uomo e Dio; questi due sentimenti contraddittori si combinano ovunque con infinite sfumature. Nei Greci l’angoscia e la disperazione erano estranee al sentimento del loro rapporto con il mondo, giacché essi preservavano sempre il senso della felicità” (80-81). Proprio la formula secondo la quale tutto è numero avrebbe, è vero, comportato uno scandalo, ma gioioso: “Se in un dato caso si è scoperto che anche ciò che non è numero continua nondimeno a essere in un certo senso numero, si può dire allora che tutto è numero – ossia rapporto” (79). Dunque “in tutte le cose, nessuna eccettuata, vi sono rapporti analoghi ai rapporti fra numeri” (88). Da qui l’idea che i numeri rappresentassero il principio.
Il problema degli incommensurabili nei pitagorici rimanda, secondo Simone, alla possibilità che un rapporto numerico, che non può essere espresso in numeri, non solo esista ma sia addirittura più puro perché svolto esclusivamente dall’intelletto senza l’ausilio dei sensi. Per inciso, un convincimento analogo mi pare si possa cogliere nelle considerazioni di Alain Badiou quando scrive che “la semplicità della matematica, la sua nudità, la sua assenza di compromessi rispetto al livello medio delle cose e al magma delle opinioni, tutto questo orienta il pensiero e l’esistenza, di chi vi si dedica, verso la direzione della vera vita” (Badiou, Elogio delle matematiche, Mimesis, Milano-Udine, 2017, p.66). Insomma, “quello che ha causato la rovina del pitagorismo non sono gli incommensurabili, ma semplicemente il massacro dei pitagorici verso la metà del V secolo” (25).
Vale sottolineare che, come ricorda Platone nella Repubblica, l’insegnamento di Pitagora finalizzava l’attenzione per le matematiche alla preoccupazione etica per la condotta umana, per il conseguimento della felicità e della salvezza. Quest’ultima dipendeva dalla qualità dell’esistenza e dall’assunzione di regole e norme da applicare per la condotta e il comportamento umani. Scrive Platone che “Pitagora (…) fu in sommo grado amato per questa attività (educazione) e i suoi successori, che hanno chiamato il loro modo di vita pitagorico, risaltano in un certo senso tra tutti gli altri” (Repubblica 600 b). La contemplazione dei numeri, disvelando l’ordine matematico complessivo (kósmos) e l’armonia musicale dell’universo di cui si sarebbe dunque acquisita la consapevolezza, si configurava come tramite per la purificazione etica (del corpo) e spirituale (dell’anima). Come se, secondo i Greci, si potesse istituire una relazione tra l’armonia dell’ordine cosmico e l’armonia interiore dell’uomo impegnato nel perseguimento del bene, del bello e del vero. “Le matematiche, infatti, costituivano a loro giudizio – dice Simone Weil – non un esercizio della mente, ma una chiave della natura; chiave ricercata non in vista della potenza tecnica sulla natura, ma al fine di stabilire un’identità di struttura fra la mente umana e l’universo” (27), “un’affinità fra la mente umana e l’universo” (40).
Ora, la purificazione stessa consisteva “nel fatto che l’ordine dell’universo diventa oggetto d’amore” (82). È l’amore dell’uomo nei confronti della natura, una sorta di saggezza sistemica come sentimento di solidarietà che si fonda sull’indissolubile legame e sulla sostanziale identità dell’uomo con la natura. Per esistere l’uomo ha bisogno di relazioni, di essere in relazione con ciò che lo circonda perché l’individuo davvero indipendente è l’individuo che ama la natura, l’individuo che, per dirla con Spinoza, nell’amore intellettuale di Dio si comprende come più esteso, più gioioso e più amante. Più gioioso per l’appunto: secondo Simone Weil i Greci, che avevano una concezione dolorosa della vita perché coscienti del gravame della necessità delle forze naturali, sapevano anche cos’era la felicità: “Concepivano la felicità come equilibrio; equilibrio fra le parti dell’anima, equilibrio fra gli uomini, equilibrio fra il pensiero e il mondo. L’affinità fra geometria e giustizia, l’idea che il mondo è costituito da un’armonia, così come l’anima quando è ciò che deve essere, sono considerate da Platone come il tesoro di un’antica sapienza” (81).
Questa riflessione richiama una concezione della vita beata e felice che non comporta l’inerzia nei confronti della ineludibile necessità naturale, ma amore nei confronti delle cose per come ci appaiono nella loro necessità e gioia derivante dal nostro concreto agire. Qui, forzando un po’ le cose, ma mi auguro nella direzione pensata da Simone Weil, essere gioiosamente consapevoli di tale necessità non vorrà dire accontentarsi della realtà per come la si percepisce, ma agire e lottare per cambiare i contesti di cui l’uomo fa parte: non bisogna restare inermi nei confronti di coloro che fanno del male, né bisogna approvare chi pretende di affermare di vivere nel migliore dei mondi possibili. Dalla prospettiva indicata da Simone Weil il sapere dell’individuo è utile nella misura in cui comprende di essere armonicamente parte della totalità più vasta nella quale è inserito.
Un’ulteriore questione mi pare investa la delicatissima riflessione sulla natura e il carattere della scienza moderna. Si aggiunga, anche se indirettamente, la lucida critica dei limiti di quella concezione dello svolgimento storico che si fonda su una distorta fede nel progresso. A esemplificare i limiti della scienza moderna è l’algebra, quale tecnica dei segni che si sostituiscono al significato e che impediscono di pensare. L’algebra è sinonimo di automaticità meccanica che ha come fine la presunta efficacia della scienza moderna. Al contrario, secondo Simone Weil, lo spirito della scienza greca è, come si è detto, indisgiungibile dalla ricerca etica del bene e dal perseguimento di una condotta in grado di armonizzarsi con la collettività, la natura e l’universo intero. Da qui l’attenzione dedicata alla geometria che viene contrapposta, seguendo il percorso della riflessione sui greci, proprio all’algebra. Entra in gioco, come si è detto, l’attenzione per l’aritmo-geometria dei pitagorici secondo i quali il numero è rapporto che lega tutto. Dio, dice Simone Weil, non è un algebrista (p.15). Ecco perché, continua la sorella di André, “la matematica attuale (…) sembra molto lontana dal mondo” (28). Del resto, come scrive Carl B. Boyer, nella sua Storia della matematica, “la matematica del ventesimo secolo ha dato grande rilievo all’astrazione e si è sempre più interessata all’analisi di strutture generali. Ciò è visibile più chiaramente che altrove nelle opere pubblicate intorno alla metà del secolo dal matematico policefalo noto sotto il nome di Nicolas Bourbaki” (C. B. Boyer, Storia della matematica, Mondadori, Milano, 1968, p.718). Ma in fondo sarebbe questo, fin dagli albori dell’epoca moderna, il carattere, secondo Hume, delle proposizioni dell’aritmetica e dell’algebra: le loro conoscenze si ricaverebbero esclusivamente su un piano ideale, disgiunto da qualsiasi pretesa di corrispondere alla realtà esterna dell’esperienza. La conoscenza concettuale si rivela così un sapere riduzionistico che non si accorge dei limiti e dell’inadeguatezza con cui si accosta al mondo circostante. Spesso si confonde la rappresentazione della realtà con la realtà stessa, dimenticando il valore relativo dei simboli concettuali di cui si sostanzia la conoscenza. Di conseguenza, diventa arduo accorgersi non solo di essere inseriti ma anche di partecipare alle molteplici modificazioni che avvengono entro il contesto nel quale ci si trova.
Ci sono, infine, un paio di suggestioni che vale la pena ricordare. Alle pagine 84 e 85, riferendosi ai grandi artisti che associano concezioni del mondo e lavoro degli occhi e delle dita, scrive Simone Weil: “In generale penso che negli uomini di primissimo ordine nessuna attività sia senza intimi legami con tutte le altre”. Si veda anche pagina 97 dove la Weil ribadisce, forse precisandolo, tale convincimento: “In generale non penso che un uomo di primissimo ordine accetti una concezione della vita umana, del bene, ecc., dall’esterno, a casaccio (…), né che in un tale uomo possa esservi una qualche forma di attività senza strette relazioni con tutte le altre”. Uno degli aspetti più inquietanti della crisi contemporanea attiene alla frammentazione e liquefazione della soggettività, e dunque alla sua estraneazione. Il tema si può prestare a differenti interpretazioni e rischia di essere viscido e complesso. Tuttavia è certo che è necessario ripensare una nuova concezione dell’umanità che, entro una rinnovata ricomposizione unitaria, non si sottragga al dovere di affrontare le grandi tragedie del nostro tempo.
In questo senso, il pensiero della differenza, e insieme a esso la psicanalisi, la cultura ecologica della complessità, la cultura della nonviolenza e il marxismo, sono da annoverare tra le più importanti risorse cui formarsi e attingere tutto quanto può concorrere a perseguire questo compito di rinnovamento dell’umanità. Le considerazioni di Simone Weil fanno pensare a un’idea della coerenza che non si riduca a un becero e superficiale monolitismo comportamentale ma alla capacità di costruire, di fronte alla precaria fragilità delle esistenze flessibili che affrontano l’epoca contemporanea, un ideale regolativo che sappia tenere conto della complessità del tempo presente, che sappia meditare la relazione tra il fare e il pensare, che sappia considerare in modo pertinente il nostro stare al mondo in relazione plurale con gli altri e le altre.
Nell’aprile del 1940 Simone Weil scriveva al fratello André, detenuto a Rouen in attesa di giudizio di fronte al tribunale militare per renitenza alla leva, una bozza di lettera probabilmente mai spedita. André Weil è un giovane matematico, un ragazzo prodigio che ha scelto di consacrare tutta la propria esistenza allo studio della matematica. Ecco uno stralcio di quella missiva della sorella, indicativo del clima che si respirava in Francia al momento dello scontro bellico contro il nazifascismo: “Un’atmosfera pesante, fosca, soffocante è calata sul paese, così che la gente è giù di corda e scontenta di tutto, ma, per contro, è disposta a incassare qualunque cosa senza protestare e perfino senza stupirsene. Situazione tipica dei periodi di tirannide. Il malcontento generale, considerato sempre dagli osservatori superficiali come un indice della fragilità del potere, in realtà testimonia l’esatto contrario. Un malcontento sordo e diffuso è compatibile con una sottomissione pressoché illimitata per decine e decine d’anni; quando al sentimento della sventura si unisce l’assenza di speranza, come sta accadendo ora, gli uomini obbediscono sempre, fino a quando uno shock esterno non restituisca loro la speranza” (L’arte della matematica, Adelphi, Milano, 2018, p. 101). Sono parole dalle quali si evince, anche se sottotraccia, la denuncia per la crisi di senso che investe la società francese durante gli anni del secondo conflitto mondiale (ma forse, declinate nella direzione dell’attualità, che investe anche il nostro tempo) e che rimandano a un sentimento di spaesamento e frammentazione. Anche se l’occasione da cui muovono queste considerazioni, come si è detto, è strettamente connessa ai tragici eventi del secondo conflitto mondiale, tuttavia come non cogliere quel sentimento di estraneità con cui si è svuotata, nel contemporaneo, la vita sociale, caduta in preda di una crisi di senso che intossica in modo pervasivo la trama delle relazioni sociali?
Il bellissimo libro L’arte della matematica (Adelphi, Milano, 2018), di Simone e André Weil, curato da Maria Concetta Sala, si legge tutto d’un fiato: dal testo affiora nitidissima l’affettuosa complicità, la profondità dell’intesa e il tenero legame che accomuna fratello e sorella. L’erudizione dei due giovani interlocutori, che traspare dallo scambio epistolare, è davvero emozionante e, allo stesso tempo, sconcertante. I due sorvolano con una disinvoltura strabiliante i più svariati campi del sapere, dalle scienze matematiche, geometria e algebra in primis, alla filosofia antica, dalla sapienza orientale alla cultura del Seicento e illuministica, dalla letteratura alla riflessione sulla scienza contemporanea. A questo si aggiunge la forza con cui i due riescono a fare degli argomenti trattati materia viva e concreta dell’esistenza quotidiana, esperienza pratica, oltre che teorica. In loro il sapere si innesta vivamente nel travaglio quotidiano, l’uno che si fa incarcerare pur di ribadire la propria obiezione di coscienza contro la guerra, l’altra che riconduce ogni bisogno intellettuale e religioso all’impegno, per così dire, militante.
Ne La prima radice Simone Weil definisce lo sradicamento come la mancanza di “partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro” (La prima radice, SE, Milano, 1990, p.49). La sua causa è individuabile in una qualsivoglia forma di conquista, a volte militare, più spesso determinata dal potere del denaro e dalla dominazione economica. Ma anche l’istruzione e la trasmissione del sapere possono configurarsi come fattori che concorrono allo sviluppo di una pseudocultura sviluppatasi in un ambito molto ristretto, orientata verso lo specialismo e separata dal mondo. Scrive la giovane filosofa: “Ai giorni nostri, un uomo può appartenere alla società cosiddetta colta, senza avere nessuna idea sul destino dell’uomo, e d’altra parte, senza sapere (per esempio) che non tutte le costellazioni sono visibili in ogni stagione” (ibidem, p.51).
Forse la richiesta che Simone Weil rivolge al fratello André, di riflettere sul modo di fare intravedere ai profani la natura degli studi matematici per renderli fruibili anche al di fuori della ristretta cerchia di iniziati e specialisti della materia, può essere collocata entro quello sfondo teorico impregnato di riflessioni sulla crisi degli attuali sistemi sociali e dei modelli di trasmissione del sapere ad essi coerenti, entrambi tendenzialmente totalitari. Da questa prospettiva è comprensibile che emerga, nella giovane filosofa, il bisogno di ripensare i fondamenti del sapere tutto, e dunque anche di quello matematico, connettendoli alle istanze di cambiamento sociale e politico e al tentativo di ricongiungere armoniosamente dimensione individuale e dimensione collettiva, dimensione mondana e dimensione spirituale, immanenza e trascendenza. Perché, come scrive la sorella di André, “concepire l’universo come un equilibrio, un’armonia, è come farne uno specchio della salvezza” (95) (Da qui a seguire, ove non esplicitato diversamente, i numeri tra parentesi rimandano alle pagine de L’arte della matematica, Adelphi, Milano, 2018).
Da qui segue, innanzitutto, la particolare concezione, di Simone Weil, della scienza e della matematica antiche, in particolare della aritmo-geometria dei pitagorici e poi dei platonici. Tutto si svolge a partire da una serie di impegnative riflessioni sul problema degli incommensurabili. Aristotele ci informa che i pitagorici spiegavano il mondo naturale rinviando a relazioni numeriche. I fenomeni naturali, infatti, sarebbero stati spiegabili attraverso rapporti tra numeri: in questo modo si sarebbero potute evidenziare le analogie che sarebbero sussistite tra i fenomeni naturali e i rapporti numerici. Visto che attraverso i numeri si potevano esprimere e conoscere le cose della natura, i pitagorici concludevano che attraverso i numeri sarebbe stato possibile spiegare tutto.
La concezione pitagorica del numero era di tipo qualitativo, fisico-geometrico, e si risolveva nella disposizione spaziale di punti. È chiaro che questo modo di intendere il numero comportava il riferimento ai soli numeri interi concepiti come insiemi di più unità. Vale la pena di aggiungere, incidentalmente, che anche il fenomeno qualitativo del suono, da questo punto di vista, obbedisce a rapporti di natura quantitativa. Ma proprio il fondarsi del pitagorismo esclusivamente sui numeri interi faceva della concezione matematica una concezione basata sul discontinuo che rendeva impossibile tenere conto dei numeri irrazionali, ovvero dei numeri che esprimevano un rapporto tra due grandezze incommensurabili. Proprio l’applicazione del teorema di Pitagora a uno dei due triangoli isosceli in cui è possibile dividere un quadrato, dimostra che non può esistere alcun segmento, per quanto piccolo, che sia contenuto, per un numero esatto di volte, tanto nel lato quanto nella diagonale del quadrato: lato e diagonale sono incommensurabili e questo comporta l’impossibilità che ciascuno di essi sia costituito da un numero finito di punti. È dunque l’impossibilità di esprimere numericamente il rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato.
André Weil usa l’espressione logoi alogoi (le ragioni irrazionali, i rapporti senza rapporto), si potrebbe anche dire parole senza parola, per fare notare alla sorella che la scoperta dei numeri irrazionali e il problema dell’incommensurabilità avrebbe rappresentato un vero e proprio trauma per i Greci. Tuttavia sul problema degli incommensurabili e della proporzione scrive Simone Weil: “Non posso ammettere che si dica che i Greci si sono applicati «disperatamente» alla proporzione (…) o che abbiano avuto un sentimento così intenso della sproporzione fra l’uomo e Dio. Tutti gli uomini hanno il sentimento di una distanza infinita e al tempo stesso di un’unità assoluta fra l’uomo e Dio; questi due sentimenti contraddittori si combinano ovunque con infinite sfumature. Nei Greci l’angoscia e la disperazione erano estranee al sentimento del loro rapporto con il mondo, giacché essi preservavano sempre il senso della felicità” (80-81). Proprio la formula secondo la quale tutto è numero avrebbe, è vero, comportato uno scandalo, ma gioioso: “Se in un dato caso si è scoperto che anche ciò che non è numero continua nondimeno a essere in un certo senso numero, si può dire allora che tutto è numero – ossia rapporto” (79). Dunque “in tutte le cose, nessuna eccettuata, vi sono rapporti analoghi ai rapporti fra numeri” (88). Da qui l’idea che i numeri rappresentassero il principio.
Il problema degli incommensurabili nei pitagorici rimanda, secondo Simone, alla possibilità che un rapporto numerico, che non può essere espresso in numeri, non solo esista ma sia addirittura più puro perché svolto esclusivamente dall’intelletto senza l’ausilio dei sensi. Per inciso, un convincimento analogo mi pare si possa cogliere nelle considerazioni di Alain Badiou quando scrive che “la semplicità della matematica, la sua nudità, la sua assenza di compromessi rispetto al livello medio delle cose e al magma delle opinioni, tutto questo orienta il pensiero e l’esistenza, di chi vi si dedica, verso la direzione della vera vita” (Badiou, Elogio delle matematiche, Mimesis, Milano-Udine, 2017, p.66). Insomma, “quello che ha causato la rovina del pitagorismo non sono gli incommensurabili, ma semplicemente il massacro dei pitagorici verso la metà del V secolo” (25).
Vale sottolineare che, come ricorda Platone nella Repubblica, l’insegnamento di Pitagora finalizzava l’attenzione per le matematiche alla preoccupazione etica per la condotta umana, per il conseguimento della felicità e della salvezza. Quest’ultima dipendeva dalla qualità dell’esistenza e dall’assunzione di regole e norme da applicare per la condotta e il comportamento umani. Scrive Platone che “Pitagora (…) fu in sommo grado amato per questa attività (educazione) e i suoi successori, che hanno chiamato il loro modo di vita pitagorico, risaltano in un certo senso tra tutti gli altri” (Repubblica 600 b). La contemplazione dei numeri, disvelando l’ordine matematico complessivo (kósmos) e l’armonia musicale dell’universo di cui si sarebbe dunque acquisita la consapevolezza, si configurava come tramite per la purificazione etica (del corpo) e spirituale (dell’anima). Come se, secondo i Greci, si potesse istituire una relazione tra l’armonia dell’ordine cosmico e l’armonia interiore dell’uomo impegnato nel perseguimento del bene, del bello e del vero. “Le matematiche, infatti, costituivano a loro giudizio – dice Simone Weil – non un esercizio della mente, ma una chiave della natura; chiave ricercata non in vista della potenza tecnica sulla natura, ma al fine di stabilire un’identità di struttura fra la mente umana e l’universo” (27), “un’affinità fra la mente umana e l’universo” (40).
Ora, la purificazione stessa consisteva “nel fatto che l’ordine dell’universo diventa oggetto d’amore” (82). È l’amore dell’uomo nei confronti della natura, una sorta di saggezza sistemica come sentimento di solidarietà che si fonda sull’indissolubile legame e sulla sostanziale identità dell’uomo con la natura. Per esistere l’uomo ha bisogno di relazioni, di essere in relazione con ciò che lo circonda perché l’individuo davvero indipendente è l’individuo che ama la natura, l’individuo che, per dirla con Spinoza, nell’amore intellettuale di Dio si comprende come più esteso, più gioioso e più amante. Più gioioso per l’appunto: secondo Simone Weil i Greci, che avevano una concezione dolorosa della vita perché coscienti del gravame della necessità delle forze naturali, sapevano anche cos’era la felicità: “Concepivano la felicità come equilibrio; equilibrio fra le parti dell’anima, equilibrio fra gli uomini, equilibrio fra il pensiero e il mondo. L’affinità fra geometria e giustizia, l’idea che il mondo è costituito da un’armonia, così come l’anima quando è ciò che deve essere, sono considerate da Platone come il tesoro di un’antica sapienza” (81).
Questa riflessione richiama una concezione della vita beata e felice che non comporta l’inerzia nei confronti della ineludibile necessità naturale, ma amore nei confronti delle cose per come ci appaiono nella loro necessità e gioia derivante dal nostro concreto agire. Qui, forzando un po’ le cose, ma mi auguro nella direzione pensata da Simone Weil, essere gioiosamente consapevoli di tale necessità non vorrà dire accontentarsi della realtà per come la si percepisce, ma agire e lottare per cambiare i contesti di cui l’uomo fa parte: non bisogna restare inermi nei confronti di coloro che fanno del male, né bisogna approvare chi pretende di affermare di vivere nel migliore dei mondi possibili. Dalla prospettiva indicata da Simone Weil il sapere dell’individuo è utile nella misura in cui comprende di essere armonicamente parte della totalità più vasta nella quale è inserito.
Un’ulteriore questione mi pare investa la delicatissima riflessione sulla natura e il carattere della scienza moderna. Si aggiunga, anche se indirettamente, la lucida critica dei limiti di quella concezione dello svolgimento storico che si fonda su una distorta fede nel progresso. A esemplificare i limiti della scienza moderna è l’algebra, quale tecnica dei segni che si sostituiscono al significato e che impediscono di pensare. L’algebra è sinonimo di automaticità meccanica che ha come fine la presunta efficacia della scienza moderna. Al contrario, secondo Simone Weil, lo spirito della scienza greca è, come si è detto, indisgiungibile dalla ricerca etica del bene e dal perseguimento di una condotta in grado di armonizzarsi con la collettività, la natura e l’universo intero. Da qui l’attenzione dedicata alla geometria che viene contrapposta, seguendo il percorso della riflessione sui greci, proprio all’algebra. Entra in gioco, come si è detto, l’attenzione per l’aritmo-geometria dei pitagorici secondo i quali il numero è rapporto che lega tutto. Dio, dice Simone Weil, non è un algebrista (p.15). Ecco perché, continua la sorella di André, “la matematica attuale (…) sembra molto lontana dal mondo” (28). Del resto, come scrive Carl B. Boyer, nella sua Storia della matematica, “la matematica del ventesimo secolo ha dato grande rilievo all’astrazione e si è sempre più interessata all’analisi di strutture generali. Ciò è visibile più chiaramente che altrove nelle opere pubblicate intorno alla metà del secolo dal matematico policefalo noto sotto il nome di Nicolas Bourbaki” (C. B. Boyer, Storia della matematica, Mondadori, Milano, 1968, p.718). Ma in fondo sarebbe questo, fin dagli albori dell’epoca moderna, il carattere, secondo Hume, delle proposizioni dell’aritmetica e dell’algebra: le loro conoscenze si ricaverebbero esclusivamente su un piano ideale, disgiunto da qualsiasi pretesa di corrispondere alla realtà esterna dell’esperienza. La conoscenza concettuale si rivela così un sapere riduzionistico che non si accorge dei limiti e dell’inadeguatezza con cui si accosta al mondo circostante. Spesso si confonde la rappresentazione della realtà con la realtà stessa, dimenticando il valore relativo dei simboli concettuali di cui si sostanzia la conoscenza. Di conseguenza, diventa arduo accorgersi non solo di essere inseriti ma anche di partecipare alle molteplici modificazioni che avvengono entro il contesto nel quale ci si trova.
Ci sono, infine, un paio di suggestioni che vale la pena ricordare. Alle pagine 84 e 85, riferendosi ai grandi artisti che associano concezioni del mondo e lavoro degli occhi e delle dita, scrive Simone Weil: “In generale penso che negli uomini di primissimo ordine nessuna attività sia senza intimi legami con tutte le altre”. Si veda anche pagina 97 dove la Weil ribadisce, forse precisandolo, tale convincimento: “In generale non penso che un uomo di primissimo ordine accetti una concezione della vita umana, del bene, ecc., dall’esterno, a casaccio (…), né che in un tale uomo possa esservi una qualche forma di attività senza strette relazioni con tutte le altre”. Uno degli aspetti più inquietanti della crisi contemporanea attiene alla frammentazione e liquefazione della soggettività, e dunque alla sua estraneazione. Il tema si può prestare a differenti interpretazioni e rischia di essere viscido e complesso. Tuttavia è certo che è necessario ripensare una nuova concezione dell’umanità che, entro una rinnovata ricomposizione unitaria, non si sottragga al dovere di affrontare le grandi tragedie del nostro tempo.
In questo senso, il pensiero della differenza, e insieme a esso la psicanalisi, la cultura ecologica della complessità, la cultura della nonviolenza e il marxismo, sono da annoverare tra le più importanti risorse cui formarsi e attingere tutto quanto può concorrere a perseguire questo compito di rinnovamento dell’umanità. Le considerazioni di Simone Weil fanno pensare a un’idea della coerenza che non si riduca a un becero e superficiale monolitismo comportamentale ma alla capacità di costruire, di fronte alla precaria fragilità delle esistenze flessibili che affrontano l’epoca contemporanea, un ideale regolativo che sappia tenere conto della complessità del tempo presente, che sappia meditare la relazione tra il fare e il pensare, che sappia considerare in modo pertinente il nostro stare al mondo in relazione plurale con gli altri e le altre.
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