
Mi piace pensare che prima o poi dal fantastico baule manganelliano di inediti d’ogni foggia e ispirazione salti fuori il resoconto di un viaggio sulla luna coraggiosamente compiuto dall’inappuntabile professor Giorgio Manganelli verso la fine degli anni Sessanta, per conto, mettiamo, di un immaginario Istituto Italiano per la Ricerca Aereospaziale e rimasto sino a oggi inedito per ovvie, e ormai superate, ragioni di segretezza. Cosa mai potrebbe scrivere l’umoroso, il mercuriale Manganelli dopo un’intrusiva permanenza di un paio di settimane sull’astro più cantato vagheggiato sospirato dai poeti? Forse scriverebbe che, al pari di Ascoli Piceno, non esiste, o che in fondo, quanto a bellezza e mistero, è stato dai suddetti poeti sopravvalutato.
Nell’attesa che il selenico reportage veda la luce tipografica per la gioia dei ‘Manganofili’ che forse come me lo stanno già sognando a occhi aperti, possiamo goderci questo breve ma scoppiettante Viaggio in Africa(Adelphi), estroso, acuto resoconto frutto di un curioso e imprevedibile incarico “tecnico”: redigere un resoconto sociologico-letterario in vista della realizzazione di una strada lungo la costa orientale di quel continente, dal Cairo a Dar es Salaam (anno domini 1970: nessuna delle due relazioni preparate da Manganelli fu accolta dal committente, la multinazionale Bonifica, che pagò allo scrittore “tre milioni rateizzati”).
Ci fosse malizia o rotundainconsapevolezza da parte dell’incaricante, poco importa. Quel che importa è che dobbiamo a un felice “scambio di persona” questo primo imprescindibile capitolo del superbo e insuperato “romanzo di viaggio” dello scrittore milanese, costituzionalmente destinato alla più pavida stanzialità, ma trasformatosi in tempo utile, grazie all’intuizione terapeutica dello psicanalista (e astrologo) junghiano Ernst Bernhard che lo aveva in cura, in un pressoché perfetto trasvolatore di climi e meridiani, di costumi, culture e variegate – quanto inevitabili – superstizioni. Insomma, il viaggio come cura ma, soprattutto, come scrittura.
Perché Manganelli, in apparenza svagato e irresistibilmente digressivo, impersona quasi in essenza il modello ideale del viaggiatore: si lascia stupire, talvolta si incanta al cospetto del meraviglioso, ma subito dopo interroga, vuol sapere, cerca le cause, consulta numeri, dati, avanza ipotesi; sa vedere e descrivere come pochi, il suo sguardo è prensile, sempre vigile, coglie i dettagli significativi, le connessioni che aiutano a comprendere; mette lo stile letterario al servizio della nuova e sconosciuta realtà con cui per un certo numero di giorni o di settimane deve fare i conti, trasformando l’esperienza personale, l’avventura, in narrazione. (Cina e altri orientiè, di quanto appena detto, la summa e il punto apicale).
L’Africa di Manganelli, l’Africa di quasi mezzo secolo fa è tutto ciò che l’Europa non è: il luogo dell’essenziale, del leggero, dell’impermanente; delle sterminate distanze e della scarsa e dislocata presenza umana. Ma è anche – è bene non dimenticarlo – il frutto di un’allucinazione, di una fantasia alla quale l’uomo europeo ha finito per credere: un sogno di beato arcaismo; un eden, al quale però è impossibile fare ritorno. Da noi il progetto e la storia, l’ansia e il desiderio di futuro; laggiù le stagioni, il tempo ciclico, l’impossibilità della vita che da secoli si scontra con un clima ostile e una geografia difficile.
“Appaiono i laghi” scrive Manganelli, fotografando una visione dall’alto: “la vegetazione esplode, il verde si incupisce, l’acqua si scioglie in palude, in terra fangosa e torbida”. In queste terre, la contiguità tra uomini e animale è inevitabile. Negli spazi africani, “uomini e animali cercano l’acqua con pari diritto”; l’uomo e la natura – la vera natura inaddomesticabile – vivono spalla a spalla, si implicano a vicenda in un rapporto regolato da leggi immemorabili.
“Il villaggio umano” nota lo scrittore, “si inserisce con sue paure e le sue temerarie angosce in un promontorio di erbe palustri, insetti, belve”.
In questo scenario di wildnesse solitudine lo spaesamento è inevitabile; e al ritorno in patria il viaggiatore potrà avere ricordi e impressioni contraddittorie, che cambiano a seconda dell’atteggiamento, della postura mentale o del grado di adesione al fascino di quell’assoluta alterità che si appena lasciato alle spalle.
Ancora un’opposizione: in Africa le città sono “rare e lontanissime” dislocate in una estensione terrestre che si configura come un “pachiderma planetario abitato e percorso da insetti lievissimi e provvisori”; in Europa, invece, domina la densità, la programmazione, l’anticipazione nevrotica dell’avvenire.
Perciò chi torna da un viaggio africano sarà indotto a contrapporre mentalmente a quella densità “questo pianeta accidentalmente umano”, dove cioè l’uomo sembra letteralmente il prodotto di un caso altamente improbabile.
Certo, ci sono città anche in Africa. Per esempio Addis Abeba, una capitale. Ma che città è? Be’, è una città africana, ovvero l’adattamento locale del modello occidentale. E quindi capanne a poca distanza da grattacieli, e strade “larghe, lisce, agevoli, indispensabili per macchine che non ci sono”, dove chilometri “dividono un palazzo da un palazzo, e, in mezzo, umili e umiliate capanne, nascosta talora come una piaga vergognosa”.
O Nairobi. Anche qui capanne, un sobborgo nobiliare, un centro e persino una clinica per gente dalla pelle stranamente chiara. Le strade hanno l’aria europea e sono fitte di alberghi. Tutto secondo le migliori e rassicuranti apparenze. Ma appena “fuori da quegli angoli retti” le parole comuni delle società occidentali, dice il nostro reporter, “entrano in deliquescenza”, e la virulenta “lebbra della miseria avvolge tutto senza grazia e senza innocenza”.
Da allora non pare sia cambiato molto, e anzi si può dire che la cancrena di quella malintesa e disperante modernità ha fatto il suo corso sino in fondo e non pare esserci scampo. Eppure Nairobi era in quell’anno una delle città più avanzate del continente nero, destinata a diventare sin dalla fondazione un centro economico e operaio.
Alla fine degli anni Sessanta contava trecentomila abitanti, un traffico decisamente congestionato, soffriva di sovraffollamento e ospitava una “sterminata bidonville” in una periferia che lo scrittore definisce “torva e sbagliata”, e dove, osserva acutamente, “si riconosce il divorzio tra urbanesimo e arcaicità africana”, un divorzio che ha liberato i mostri che, decennio dopo decennio, sono arrivati sino ai giorni nostri, quando invece un modello diverso di costruzione urbana della convivenza, un diverso modo di intendere la modernizzazione avrebbero potuto e saputo conciliare la cultura della tradizione tribale, in evoluzione, e la prospettiva di un urbanesimo “dal volto umano”.
Poi sotto lo sguardo del viaggiatore passano la più mite e umana Mombasa, “una città stratificata dal tempo”, dove il tempo “non ha perso la sua insinuante dolcezza”, e l’orientaleDar es Salaam, fondata dagli arabi nell’Ottocento e in seguito razionalizzata dai tedeschi, i quali imposero un loro ordinato piano regolatore che strinse “il quartiere orientale in una rete funzionale”. Ma oggi, scrive Manganelli, è una città “elegante e asciutta, abitata da uomini dell’interno che ora per la prima volta scoprono la dimensione cittadina”.
E di nuovo – impercorribile, impenetrabile – lo spazio, che fa venire quello che ancora si chiama “mal d’Africa”, l’acuto desiderio del ritorno, a nostalgia di una vita che l’europeo non potrà mai avere. Ma una autentica esperienza africana è impossibile per il viaggiatore occidentale, stretto tra il poetico cinematografico e la divulgazione giornalistica che diffonde l’idea di un’Africa “immersa in un’allusione cannibalesca che ci consente un’agevole superiorità etica ed un brivido di rassicurante lontananza”.
Estraneità e lontananza, dunque; una terra vasta, diversa e inafferrabile, nel cui perimetro il viaggiatore europeo resta un semplice e protetto spettatore mobile. Tornato a casa, ricorderà se stesso in mezzo “a quella gente e quelle immagini inevitabilmente come una cosa estranea, un errore, una prepotenza”, ricorderà “un viaggio veloce in mezzo a oggetti infinitamente lenti”. Annota Manganelli, a un tempo ironico e profetico: “Qualunque sia la sorte dell’Africa, pensa l’europeo con sollievo, occorreranno secoli per farne una Svizzera”.
Bellezza e paesaggio, afferma giustamente l’inviato Manganelli, non hanno nulla a che fare con questo enorme continente, sono invenzioni occidentali inesportabili. La prima è servita all’annessione culturale, che ha accompagnato quella materiale. Il secondo, consolazione romantica del metropolitano, non può esistere in un luogo dove l’eccezione è l’uomo, che vive, “appena appoggiato a un immane dorso geografico, un’irta convivenza di foresta, montagne, vallate progettate nei primi giorni della creazione e depositate su un pianeta paziente” [corsivo mio].
Si potrebbe andare avanti così ancora per molto, seguendo passo passo l’itinerario dello scrittore incantato e lucido, arreso al fascino africano e nello stesso tempo vigile, consapevole, memorioso; passando da un’acutezza a un’impennata stilistica (la meraviglia dei doppi, tripli aggettivi che aprono visioni simultanee cubiste…), da una osservazione psicologica a un paradosso illuminante.
Ma è meglio concludere evidenziando una pagina nella quale Manganelli si interroga in modo problematico e sottilmente contraddittorio sull’effetto negativo della speranza che il contatto con l’occidente può innescare; una speranza che già allora sembrava destinata a non essere realizzata, o realizzata nelle forme degradanti e corrotte che conosciamo.
“Insieme ai nuovi vestiti e ai nuovi cibi l’africano impara inedite speranze e disperazioni” annota Manganelli. “Si lascia alle spalle il mondo in qualche modo funzionale della tribù, e va verso quale alternativa? La bidonville di Nairobi, la pubblicità delle compagnie aeree dedicata a uomini che vanno a piedi scalzi?”
Eppure, tre pagine dopo, lo stesso reporter scrive che la disperazione africana “può essere placata solo da una impetuosa aggressione di futuro” [cors. mio]. Il buon futuro, fatto di giustizia sociale e progresso a misura d’uomo, che laggiù non è mai arrivato, e che molti cercano di afferrare provando avventurosamente di raggiungere le sponde meridionali (ma non solo) di una Europa che non li vuole.
Nell’attesa che il selenico reportage veda la luce tipografica per la gioia dei ‘Manganofili’ che forse come me lo stanno già sognando a occhi aperti, possiamo goderci questo breve ma scoppiettante Viaggio in Africa(Adelphi), estroso, acuto resoconto frutto di un curioso e imprevedibile incarico “tecnico”: redigere un resoconto sociologico-letterario in vista della realizzazione di una strada lungo la costa orientale di quel continente, dal Cairo a Dar es Salaam (anno domini 1970: nessuna delle due relazioni preparate da Manganelli fu accolta dal committente, la multinazionale Bonifica, che pagò allo scrittore “tre milioni rateizzati”).
Ci fosse malizia o rotundainconsapevolezza da parte dell’incaricante, poco importa. Quel che importa è che dobbiamo a un felice “scambio di persona” questo primo imprescindibile capitolo del superbo e insuperato “romanzo di viaggio” dello scrittore milanese, costituzionalmente destinato alla più pavida stanzialità, ma trasformatosi in tempo utile, grazie all’intuizione terapeutica dello psicanalista (e astrologo) junghiano Ernst Bernhard che lo aveva in cura, in un pressoché perfetto trasvolatore di climi e meridiani, di costumi, culture e variegate – quanto inevitabili – superstizioni. Insomma, il viaggio come cura ma, soprattutto, come scrittura.
Perché Manganelli, in apparenza svagato e irresistibilmente digressivo, impersona quasi in essenza il modello ideale del viaggiatore: si lascia stupire, talvolta si incanta al cospetto del meraviglioso, ma subito dopo interroga, vuol sapere, cerca le cause, consulta numeri, dati, avanza ipotesi; sa vedere e descrivere come pochi, il suo sguardo è prensile, sempre vigile, coglie i dettagli significativi, le connessioni che aiutano a comprendere; mette lo stile letterario al servizio della nuova e sconosciuta realtà con cui per un certo numero di giorni o di settimane deve fare i conti, trasformando l’esperienza personale, l’avventura, in narrazione. (Cina e altri orientiè, di quanto appena detto, la summa e il punto apicale).
L’Africa di Manganelli, l’Africa di quasi mezzo secolo fa è tutto ciò che l’Europa non è: il luogo dell’essenziale, del leggero, dell’impermanente; delle sterminate distanze e della scarsa e dislocata presenza umana. Ma è anche – è bene non dimenticarlo – il frutto di un’allucinazione, di una fantasia alla quale l’uomo europeo ha finito per credere: un sogno di beato arcaismo; un eden, al quale però è impossibile fare ritorno. Da noi il progetto e la storia, l’ansia e il desiderio di futuro; laggiù le stagioni, il tempo ciclico, l’impossibilità della vita che da secoli si scontra con un clima ostile e una geografia difficile.
“Appaiono i laghi” scrive Manganelli, fotografando una visione dall’alto: “la vegetazione esplode, il verde si incupisce, l’acqua si scioglie in palude, in terra fangosa e torbida”. In queste terre, la contiguità tra uomini e animale è inevitabile. Negli spazi africani, “uomini e animali cercano l’acqua con pari diritto”; l’uomo e la natura – la vera natura inaddomesticabile – vivono spalla a spalla, si implicano a vicenda in un rapporto regolato da leggi immemorabili.
“Il villaggio umano” nota lo scrittore, “si inserisce con sue paure e le sue temerarie angosce in un promontorio di erbe palustri, insetti, belve”.
In questo scenario di wildnesse solitudine lo spaesamento è inevitabile; e al ritorno in patria il viaggiatore potrà avere ricordi e impressioni contraddittorie, che cambiano a seconda dell’atteggiamento, della postura mentale o del grado di adesione al fascino di quell’assoluta alterità che si appena lasciato alle spalle.
Ancora un’opposizione: in Africa le città sono “rare e lontanissime” dislocate in una estensione terrestre che si configura come un “pachiderma planetario abitato e percorso da insetti lievissimi e provvisori”; in Europa, invece, domina la densità, la programmazione, l’anticipazione nevrotica dell’avvenire.
Perciò chi torna da un viaggio africano sarà indotto a contrapporre mentalmente a quella densità “questo pianeta accidentalmente umano”, dove cioè l’uomo sembra letteralmente il prodotto di un caso altamente improbabile.
Certo, ci sono città anche in Africa. Per esempio Addis Abeba, una capitale. Ma che città è? Be’, è una città africana, ovvero l’adattamento locale del modello occidentale. E quindi capanne a poca distanza da grattacieli, e strade “larghe, lisce, agevoli, indispensabili per macchine che non ci sono”, dove chilometri “dividono un palazzo da un palazzo, e, in mezzo, umili e umiliate capanne, nascosta talora come una piaga vergognosa”.
O Nairobi. Anche qui capanne, un sobborgo nobiliare, un centro e persino una clinica per gente dalla pelle stranamente chiara. Le strade hanno l’aria europea e sono fitte di alberghi. Tutto secondo le migliori e rassicuranti apparenze. Ma appena “fuori da quegli angoli retti” le parole comuni delle società occidentali, dice il nostro reporter, “entrano in deliquescenza”, e la virulenta “lebbra della miseria avvolge tutto senza grazia e senza innocenza”.
Da allora non pare sia cambiato molto, e anzi si può dire che la cancrena di quella malintesa e disperante modernità ha fatto il suo corso sino in fondo e non pare esserci scampo. Eppure Nairobi era in quell’anno una delle città più avanzate del continente nero, destinata a diventare sin dalla fondazione un centro economico e operaio.
Alla fine degli anni Sessanta contava trecentomila abitanti, un traffico decisamente congestionato, soffriva di sovraffollamento e ospitava una “sterminata bidonville” in una periferia che lo scrittore definisce “torva e sbagliata”, e dove, osserva acutamente, “si riconosce il divorzio tra urbanesimo e arcaicità africana”, un divorzio che ha liberato i mostri che, decennio dopo decennio, sono arrivati sino ai giorni nostri, quando invece un modello diverso di costruzione urbana della convivenza, un diverso modo di intendere la modernizzazione avrebbero potuto e saputo conciliare la cultura della tradizione tribale, in evoluzione, e la prospettiva di un urbanesimo “dal volto umano”.
Poi sotto lo sguardo del viaggiatore passano la più mite e umana Mombasa, “una città stratificata dal tempo”, dove il tempo “non ha perso la sua insinuante dolcezza”, e l’orientaleDar es Salaam, fondata dagli arabi nell’Ottocento e in seguito razionalizzata dai tedeschi, i quali imposero un loro ordinato piano regolatore che strinse “il quartiere orientale in una rete funzionale”. Ma oggi, scrive Manganelli, è una città “elegante e asciutta, abitata da uomini dell’interno che ora per la prima volta scoprono la dimensione cittadina”.
E di nuovo – impercorribile, impenetrabile – lo spazio, che fa venire quello che ancora si chiama “mal d’Africa”, l’acuto desiderio del ritorno, a nostalgia di una vita che l’europeo non potrà mai avere. Ma una autentica esperienza africana è impossibile per il viaggiatore occidentale, stretto tra il poetico cinematografico e la divulgazione giornalistica che diffonde l’idea di un’Africa “immersa in un’allusione cannibalesca che ci consente un’agevole superiorità etica ed un brivido di rassicurante lontananza”.
Estraneità e lontananza, dunque; una terra vasta, diversa e inafferrabile, nel cui perimetro il viaggiatore europeo resta un semplice e protetto spettatore mobile. Tornato a casa, ricorderà se stesso in mezzo “a quella gente e quelle immagini inevitabilmente come una cosa estranea, un errore, una prepotenza”, ricorderà “un viaggio veloce in mezzo a oggetti infinitamente lenti”. Annota Manganelli, a un tempo ironico e profetico: “Qualunque sia la sorte dell’Africa, pensa l’europeo con sollievo, occorreranno secoli per farne una Svizzera”.
Bellezza e paesaggio, afferma giustamente l’inviato Manganelli, non hanno nulla a che fare con questo enorme continente, sono invenzioni occidentali inesportabili. La prima è servita all’annessione culturale, che ha accompagnato quella materiale. Il secondo, consolazione romantica del metropolitano, non può esistere in un luogo dove l’eccezione è l’uomo, che vive, “appena appoggiato a un immane dorso geografico, un’irta convivenza di foresta, montagne, vallate progettate nei primi giorni della creazione e depositate su un pianeta paziente” [corsivo mio].
Si potrebbe andare avanti così ancora per molto, seguendo passo passo l’itinerario dello scrittore incantato e lucido, arreso al fascino africano e nello stesso tempo vigile, consapevole, memorioso; passando da un’acutezza a un’impennata stilistica (la meraviglia dei doppi, tripli aggettivi che aprono visioni simultanee cubiste…), da una osservazione psicologica a un paradosso illuminante.
Ma è meglio concludere evidenziando una pagina nella quale Manganelli si interroga in modo problematico e sottilmente contraddittorio sull’effetto negativo della speranza che il contatto con l’occidente può innescare; una speranza che già allora sembrava destinata a non essere realizzata, o realizzata nelle forme degradanti e corrotte che conosciamo.
“Insieme ai nuovi vestiti e ai nuovi cibi l’africano impara inedite speranze e disperazioni” annota Manganelli. “Si lascia alle spalle il mondo in qualche modo funzionale della tribù, e va verso quale alternativa? La bidonville di Nairobi, la pubblicità delle compagnie aeree dedicata a uomini che vanno a piedi scalzi?”
Eppure, tre pagine dopo, lo stesso reporter scrive che la disperazione africana “può essere placata solo da una impetuosa aggressione di futuro” [cors. mio]. Il buon futuro, fatto di giustizia sociale e progresso a misura d’uomo, che laggiù non è mai arrivato, e che molti cercano di afferrare provando avventurosamente di raggiungere le sponde meridionali (ma non solo) di una Europa che non li vuole.
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