
LONTANI E VICINI
LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
(ovvero: chi ha paura di Shirley Williams?)
di Vincenzo Scalia 2 marzo 2019
LO SPETTRO DELLA SIGNORA THATCHER
(ovvero: chi ha paura di Shirley Williams?)
di Vincenzo Scalia 2 marzo 2019
Negli ultimi quattro anni la politica britannica ci ha abituati a un susseguirsi di colpi di scena. L’elezione di Jeremy Corbyn alla guida dei laburisti, il referendum sulla Brexit, l’inaspettata vittoria dei leavers, le dimissioni di David Cameron, la bocciatura dell’accordo sulla Brexit stessa. Negli ultimi giorni le scissioni all’interno dei due maggiori partiti hanno conquistato la ribalta. Il quadro politico britannico, di solito indicato come l’esempio da seguire dagli alfieri della democrazia bipartisan, in quanto presunto fautore di alternanza, stabilità e legittimità di sistema, registra dei costanti sussulti. Da qualche mese si ventila addirittura l’esistenza di un patto tra i due ex primi ministri, il conservatore John Major e il laburista Tony Blair, per creare un terzo partito che possa condizionare l’agone politico nazionale fino a giungere ad un secondo referendum sulla Brexit.
La recente instabilità politica, a nostro giudizio, ha radici lontane, che risalgono alla rivoluzione conservatrice portata avanti negli anni Ottanta da Margaret Thatcher, le cui conseguenze lo scenario attuale ha acuito. I laburisti hanno reagito alle sconfitte operaie di quel decennio cercando di inseguire un elettorato di opinione e ridimensionando la propria impronta di classe. Tony Blair, in nome del ritorno al governo e della Terza Via, ha cancellato dallo statuto del partito la trasformazione socialista della società, ha isolato, se non addirittura espulso, le frange estreme, proseguendo l’opera intrapresa da Neil Kinnock. Ne è conseguita una trasformazione sostanziale della struttura e dell’elettorato laburista. Alla componente tradizionale della militanza operaia, convogliata attraverso le rappresentanze sindacali, si sono sovrapposte quella dell’elettorato di opinione e il segmento della classe media formatasi tra le pieghe della new economy, di impronta liberal. Le nuove componenti, forti delle tre vittorie elettorali consecutive del 1997, del 2001 e del 2005, nonché di un assetto economico sostanzialmente stabile fino al 2008, hanno potuto esprimere una nuova classe dirigente laburista, fatta di tecnocrati, lobbisti e spin-doctors, più attenti alle vittorie elettorali che al radicamento sociale e all’elaborazione di progetti a lungo termine.
D’altra parte la sinistra radicale britannica non è riuscita a esprimere un’offerta politica nuova. Militant, SWP, Verdi, Socialist Party avevano provato, nel 2005, ad unirsi (quanto meno molti di loro) inRespect, una coalizione di sinistra che comprendeva anche parecchi attivisti delle comunità musulmane, e che aveva ben figurato nelle competizioni elettorali arrivando ad eleggere nel 2012 a Bradford West un deputato, George Galloway. Le speranze erano però presto naufragate tra leaderismi, frazionismi e accuse di fondamentalismo e sessismo, portando la sinistra radicale britannica a una marginalità perpetua, che nemmeno l’appoggio all’indipendentismo scozzese è riuscita a smuovere. Di conseguenza i laburisti hanno continuato ad essere il contenitore della sinistra britannica, ma senza una leadership omogenea e con una militanza che ha seguito i sussulti politici del momento. L’elezione di Jeremy Corbyn, seguita alla sconfitta elettorale del 2015, sembrava segnasse il ritorno del partito alla vecchia base e al vecchio apparato, suggellato dall’implementazione di una linea di sinistra. In realtà Corbyn aveva guadagnato la leadership grazie a un’imposizione fatta da UNITE, la confederazione sindacale che continua ad essere un attore centrale per gli equilibri del partito, ma la sua elezione non aveva coinciso con una ristrutturazione degli equilibri all’interno dell’organizzazione. In primo luogo gli stessi sindacati, che pensavano all’inizio di poter controllare Corbyn in cambio della sua elezione, si sono trovati in seguito spiazzati da certe prese di posizione da parte di quest’ultimo.
È emblematica la vicenda del Trident, il sommergibile nucleare alla cui realizzazione il Regno Unito sta partecipando attivamente. Corbyn si era opposto, salvo essere smentito immediatamente dai sindacati, che temevano di perdere i lavoratori impegnati nel progetto, sindacalizzati ed elettori laburisti. Come la leadership di Corbyn non “funziona” verso l’alto, così non funziona verso il basso, dove i nuovi militanti, che hanno aderito subito dopo la sua elezione, non dispongono di sufficiente esperienza politica, e in più sono dentro da troppo poco tempo per potere consolidare un indirizzo politico che si muova in sintonia rispetto alla linea promossa dal segretario. Infine, la frammentarietà dei laburisti si manifesta in tutta la sua gravità all’interno del gruppo parlamentare. Corbyn non disponeva dei voti necessari per candidarsi alla segreteria, dal momento che la classe dirigente blairiana controlla saldamente l’apparato, e dispone di quadri intermedi, finanziatori e militanti formatisi con l’idea che la guerra del Kosovo fosse giusta, che Saddam disponesse di armi di distruzione di massa, che l’Afghanistan andasse invaso, che la questione ebraica e l’appoggio allo Stato di Israele coincidessero in pieno.
Le accuse di antisemitismo nei confronti di Corbyn e della sinistra laburista affondano le loro radici esattamente in questo contesto di divaricazione tra base sindacale e apparato blairiano, nonché nello scollamento tra un leader ancora oggi troppo solitario e i suoi grandi elettori, vale a dire i sindacati. La destra blairiana ne è consapevole, e gioca sulle contraddizioni interne per delegittimare Corbyn, il quale sconta anche degli errori di calcolo propri. Ad esempio, non ha saputo approfittare della crisi interna ai conservatori, affondando il colpo del voto di sfiducia troppo tardi, quando la compagine governativa si era già ricompattata. Inoltre, il segretario laburista non ha mai espresso una posizione chiara sulla Brexit, scontentando sia quegli elettori e militanti laburisti che si sono pronunciati a favore, sia i fautori del Remain.Trovatosi in mezzo al guado delle spaccature interne e di una situazione allarmante e imprevista come quella della Brexit, Corbyn si sta dimostrando privo della capacità di imprimere una leadership di ampio respiro, quale sarebbe necessaria a guidare un partito con ambizioni di trasformazioni radicali.
Se Sparta piange, Atene non ride. Anche i conservatori si trovano in mezzo al guado. Da un lato, si accorgono che avere soffiato troppo sul fuoco della Brexit in funzione dei contrasti interni, rischia di travolgerli, evidenziando come il vuoto lasciato da Margaret Thatcher non è stato ancora coperto. Dall’altro lato, il baratro imminente li spinge a compattarsi per mere ragioni di sopravvivenza, senza produrre uno sbocco politico di cui il Regno Unito, in una fase di passaggi critici come quella odierna, avrebbe disperatamente bisogno.
Il problema, per conto nostro, è che i laburisti si stanno mostrando inadeguati a produrre questo sbocco. Dall’altro lato la storia britannica recente dimostra che le scissioni, se certo non fanno bene al Labour, peraltro non approdano alla creazione di soggetti politici duraturi. Fu così negli anni Ottanta, quando la scissione della ‘Gang of Four’ di Owen, Jenkins, Williams e Rodgers, salutata all’epoca come Segno dei Tempi, approdò ad una confluenza nel partito liberale di cui si sono perse le tracce. Rischia di essere lo stesso con l’Independent Group creato adesso da Umunna, Berger e soci. Anche se stavolta magari si fonda un partito insieme ad un pugno di ex conservatori. Soprattutto, lasciare il campo ai reduci della Terza Via, ultimo baluardo di una proposta politica che in Europa soccombe al populismo, rischia di produrre anche nel Regno Unito scenari simili a quelli continentali. Che Blair e Major spianino la strada all’UKIP e ai neofascisti? Preferiremmo di no. Soprattutto, preferiremmo Corbyn.
La recente instabilità politica, a nostro giudizio, ha radici lontane, che risalgono alla rivoluzione conservatrice portata avanti negli anni Ottanta da Margaret Thatcher, le cui conseguenze lo scenario attuale ha acuito. I laburisti hanno reagito alle sconfitte operaie di quel decennio cercando di inseguire un elettorato di opinione e ridimensionando la propria impronta di classe. Tony Blair, in nome del ritorno al governo e della Terza Via, ha cancellato dallo statuto del partito la trasformazione socialista della società, ha isolato, se non addirittura espulso, le frange estreme, proseguendo l’opera intrapresa da Neil Kinnock. Ne è conseguita una trasformazione sostanziale della struttura e dell’elettorato laburista. Alla componente tradizionale della militanza operaia, convogliata attraverso le rappresentanze sindacali, si sono sovrapposte quella dell’elettorato di opinione e il segmento della classe media formatasi tra le pieghe della new economy, di impronta liberal. Le nuove componenti, forti delle tre vittorie elettorali consecutive del 1997, del 2001 e del 2005, nonché di un assetto economico sostanzialmente stabile fino al 2008, hanno potuto esprimere una nuova classe dirigente laburista, fatta di tecnocrati, lobbisti e spin-doctors, più attenti alle vittorie elettorali che al radicamento sociale e all’elaborazione di progetti a lungo termine.
D’altra parte la sinistra radicale britannica non è riuscita a esprimere un’offerta politica nuova. Militant, SWP, Verdi, Socialist Party avevano provato, nel 2005, ad unirsi (quanto meno molti di loro) inRespect, una coalizione di sinistra che comprendeva anche parecchi attivisti delle comunità musulmane, e che aveva ben figurato nelle competizioni elettorali arrivando ad eleggere nel 2012 a Bradford West un deputato, George Galloway. Le speranze erano però presto naufragate tra leaderismi, frazionismi e accuse di fondamentalismo e sessismo, portando la sinistra radicale britannica a una marginalità perpetua, che nemmeno l’appoggio all’indipendentismo scozzese è riuscita a smuovere. Di conseguenza i laburisti hanno continuato ad essere il contenitore della sinistra britannica, ma senza una leadership omogenea e con una militanza che ha seguito i sussulti politici del momento. L’elezione di Jeremy Corbyn, seguita alla sconfitta elettorale del 2015, sembrava segnasse il ritorno del partito alla vecchia base e al vecchio apparato, suggellato dall’implementazione di una linea di sinistra. In realtà Corbyn aveva guadagnato la leadership grazie a un’imposizione fatta da UNITE, la confederazione sindacale che continua ad essere un attore centrale per gli equilibri del partito, ma la sua elezione non aveva coinciso con una ristrutturazione degli equilibri all’interno dell’organizzazione. In primo luogo gli stessi sindacati, che pensavano all’inizio di poter controllare Corbyn in cambio della sua elezione, si sono trovati in seguito spiazzati da certe prese di posizione da parte di quest’ultimo.
È emblematica la vicenda del Trident, il sommergibile nucleare alla cui realizzazione il Regno Unito sta partecipando attivamente. Corbyn si era opposto, salvo essere smentito immediatamente dai sindacati, che temevano di perdere i lavoratori impegnati nel progetto, sindacalizzati ed elettori laburisti. Come la leadership di Corbyn non “funziona” verso l’alto, così non funziona verso il basso, dove i nuovi militanti, che hanno aderito subito dopo la sua elezione, non dispongono di sufficiente esperienza politica, e in più sono dentro da troppo poco tempo per potere consolidare un indirizzo politico che si muova in sintonia rispetto alla linea promossa dal segretario. Infine, la frammentarietà dei laburisti si manifesta in tutta la sua gravità all’interno del gruppo parlamentare. Corbyn non disponeva dei voti necessari per candidarsi alla segreteria, dal momento che la classe dirigente blairiana controlla saldamente l’apparato, e dispone di quadri intermedi, finanziatori e militanti formatisi con l’idea che la guerra del Kosovo fosse giusta, che Saddam disponesse di armi di distruzione di massa, che l’Afghanistan andasse invaso, che la questione ebraica e l’appoggio allo Stato di Israele coincidessero in pieno.
Le accuse di antisemitismo nei confronti di Corbyn e della sinistra laburista affondano le loro radici esattamente in questo contesto di divaricazione tra base sindacale e apparato blairiano, nonché nello scollamento tra un leader ancora oggi troppo solitario e i suoi grandi elettori, vale a dire i sindacati. La destra blairiana ne è consapevole, e gioca sulle contraddizioni interne per delegittimare Corbyn, il quale sconta anche degli errori di calcolo propri. Ad esempio, non ha saputo approfittare della crisi interna ai conservatori, affondando il colpo del voto di sfiducia troppo tardi, quando la compagine governativa si era già ricompattata. Inoltre, il segretario laburista non ha mai espresso una posizione chiara sulla Brexit, scontentando sia quegli elettori e militanti laburisti che si sono pronunciati a favore, sia i fautori del Remain.Trovatosi in mezzo al guado delle spaccature interne e di una situazione allarmante e imprevista come quella della Brexit, Corbyn si sta dimostrando privo della capacità di imprimere una leadership di ampio respiro, quale sarebbe necessaria a guidare un partito con ambizioni di trasformazioni radicali.
Se Sparta piange, Atene non ride. Anche i conservatori si trovano in mezzo al guado. Da un lato, si accorgono che avere soffiato troppo sul fuoco della Brexit in funzione dei contrasti interni, rischia di travolgerli, evidenziando come il vuoto lasciato da Margaret Thatcher non è stato ancora coperto. Dall’altro lato, il baratro imminente li spinge a compattarsi per mere ragioni di sopravvivenza, senza produrre uno sbocco politico di cui il Regno Unito, in una fase di passaggi critici come quella odierna, avrebbe disperatamente bisogno.
Il problema, per conto nostro, è che i laburisti si stanno mostrando inadeguati a produrre questo sbocco. Dall’altro lato la storia britannica recente dimostra che le scissioni, se certo non fanno bene al Labour, peraltro non approdano alla creazione di soggetti politici duraturi. Fu così negli anni Ottanta, quando la scissione della ‘Gang of Four’ di Owen, Jenkins, Williams e Rodgers, salutata all’epoca come Segno dei Tempi, approdò ad una confluenza nel partito liberale di cui si sono perse le tracce. Rischia di essere lo stesso con l’Independent Group creato adesso da Umunna, Berger e soci. Anche se stavolta magari si fonda un partito insieme ad un pugno di ex conservatori. Soprattutto, lasciare il campo ai reduci della Terza Via, ultimo baluardo di una proposta politica che in Europa soccombe al populismo, rischia di produrre anche nel Regno Unito scenari simili a quelli continentali. Che Blair e Major spianino la strada all’UKIP e ai neofascisti? Preferiremmo di no. Soprattutto, preferiremmo Corbyn.
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