
L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI
Scritto da Calogero Lo Piccolo 3 giugno 2015
Scritto da Calogero Lo Piccolo 3 giugno 2015
Una donna sta lavorando ad un progetto
professionale impegnativo: un film che narra la storia di una fabbrica in
crisi, rilevata da una proprietà estera, i cui operai rischiano il
licenziamento. Al contempo, la mamma cardiopatica è ricoverata in ospedale e le sue condizioni si aggravano sempre più in modo irreversibile. Il fratello è un ingegnere che affronta con molto realismo e tanta dedizione la fase terminale della malattia materna, distaccandosi sempre più dal proprio lavoro e dalla propria vita. In ultimo, deciderà di licenziarsi. La figlia adolescente si barcamena tra difficoltà scolastiche e gestione dei rapporti familiari.
L'ultimo film di Nanni Moretti Mia Madre si può racchiudere in queste poche righe. È un film con una struttura narrativa apparentemente piana e quotidiana, capace di cogliere situazioni e atmosfere che molto probabilmente hanno attraversato la vita di molti. Sei impegnato a fare qualcosa, nel frattempo la vita è come un vento che tira in un'altra direzione, lasciandoti una sensazione di spiazzamento intenso. Nulla è più al proprio posto. E nulla conserva più lo stesso senso del prima.
Nella sua apparente semplicità, il film di Moretti racchiude una complessità di trama molto intrecciata. È un film sul lutto e sulla perdita, ma è anche e soprattutto un film sul lavoro, sul lavoro che si perde, sulla perdita di senso del proprio lavoro, sulla fatica quotidiana del lavoro, ma anche su quanto di utile e prezioso il proprio lavoro costituisca e costruisca, quanto ci rappresenti e quanto sia parte dell'eredità che consegniamo agli altri, alle nuove generazioni. Il rapporto tra la nonna morente e la nipote passa anche attraverso lo studio dei classici latini, essendo stata per tutta la propria vita la nonna la professoressa. È proprio questa complessità di trame e intrecci può essere un'utile guida per orientarci dentro alcuni dei temi portanti che riguardano la relazione tra benessere soggettivo e condizioni di crisi del contemporaneo.
Di cosa è rappresentativa questa storia? Ad un primo livello, della sensazione di spiazzamento che ci coglie in determinati frangenti delle nostre esistenze. Condizione molto umana, che fisiologicamente ha sempre connotato l'esistere e l'esistenza. Perdite, separazioni, lutti sono esperienze connaturate alle quotidiane vicende. Il lavoro del lutto è anche e soprattutto quel ricostruire un senso nuovo ai gesti quotidiani di sempre, quando il senso antecedente non è più accessibile per il dolore. La perdita è una stress intenso che innesca una profonda crisi, il cui primo sintomo sono i vissuti di alienazione e di spaesamento.
In che modo allora la storia narrata dal film racconta della contemporaneità? A mio parere, perché non racconta soltanto di private vicende che in momenti contingenti ciascuno si trova ad affrontare. La centratura non casuale sul lavoro apre molte finestre su quelle che sono oggi le condizioni di diffuso malessere sociale.
C'è una qualità diversa nella crisi che tutti stiamo provando faticosamente a fronteggiare, che spiazza e spaventa. Qualcosa che non sta tanto nella sua durata e nella sua intensità, pur includendole.
La qualità particolare e peculiare della attuale crisi è nella comune percezione di non reversibilità, di non transitorietà. Questi sono i vissuti più penosi, più densi, anche meno dicibili, che attraversano le trame dei discorsi oggi dei pazienti in analisi. La sensazione che il mondo intero stia slittando da qualche altra parte che ci rende tutti migranti. Anche se non ci spostiamo noi, è il mondo che va. Per questo che analogamente che per il lutto, le categorie possedute e padroneggiate perdono di senso, di presa sul reale, lasciandoci inermi e impauriti.
La crisi attuale è una macchina incessante di produzione di infelicità e malessere. Verso cui è molto difficile attivare e mettere soggettivamente in campo risorse efficaci di resistenza e resilienza. E alcuni dei perni centrali di questo diffuso disagio sono le profonde trasformazioni in atto nel mercato del lavoro.
Franco Berardi scriveva alcune settimane fa, dopo le azioni dei cosiddetti Black bloc in occasione delle manifestazioni anti- Expo del primo maggio, a sua volta citando una manifestante delle rivolte nere a Baltimora: "Non è più questione di democrazia, è questione di vita e di morte." E non v'è dubbio che la profondità del disagio sociale sempre più confonde i livelli in gioco, tra ciò che è democrazia, e ciò che è questione di vita o di morte.
Ci si ammala di troppo lavoro, ci si ammala perché non c'è lavoro, si muore di troppo lavoro e si muore per non riuscire a trovare un proprio posto nel mondo anche attraverso un dignitoso lavoro. Bifo dice, in modo più radicale, ci stanno uccidendo di lavoro e ci stanno uccidendo per la mancanza di lavoro. O ci si lascia morire, fisicamente e psichicamente.
La precarizzazione del mercato del lavoro ha queste incidenze sulle quotidiane esistenze. Il paradosso insolubile è che le sofferenze e l'infelicità sono soggettive e individuali, le macchine di produzione delle stesse sono politiche e sociali. È una profezia fin troppo facile e scontata, ma è doveroso farla: le riforme messe in atto dal governo Renzi sono e saranno macchine di produzione di infelicità sociale, come già si vedono in azione quelle dei precedenti governi delle cosiddette politiche di austerità. E una volta di più, mi appare emblematico che la madre morente del film sia una professoressa.
La riforma peggiore tra tante peggiori, per l'impatto sociale peggiorativo che avrà nelle esistenze di tanti, se andrà in porto, a me sembra quella della cosiddetta buona scuola. Il micidiale combinato tra riduzioni delle garanzie per tanti e i dogmi del neoliberismo, fondati sulla presunta libertà dell'autoimprenditoria, sulla competizione, sulla produttività quantitativa, sulla mobilità ecc., hanno alterato drasticamente le condizioni del lavoro. Ed il secolare ruolo che il lavoro ha avuto ed ha nella costruzione della identità di ciascuno di noi.
La questione non è tanto o soltanto che c'è meno offerta di lavoro, e sempre meno ce ne sarà per la crescente automatizzazione delle catene produttive. L'interstizio, per dirla alla Cianconi, nel quale siamo slittati, è che si sono alterati i rapporti di forza e le linee di conflitto tra sfruttatori e sfruttati. E il risultato è che siamo noi oggi i principali e primari sfruttatori di noi stessi, soggiogati dai dogmi neo liberisti.
Il ciclo di incontri che abbiamo titolato L'inutile fatica di essere se stessi prova a ragionare su tutto ciò. La depressione contemporanea si nutre di sentimenti di inadeguatezza. Mi sento in colpa perché non sono all'altezza, perché non sono adeguato. Il Super-Io attuale tiranneggia più attraverso l'Ideale dell' Io che la Coscienza Morale.
Ma questo è un problema di trame culturali sociali e politiche, cui non si può pensare di trovare soluzioni soltanto individuali e soggettive.
L'ultimo film di Nanni Moretti Mia Madre si può racchiudere in queste poche righe. È un film con una struttura narrativa apparentemente piana e quotidiana, capace di cogliere situazioni e atmosfere che molto probabilmente hanno attraversato la vita di molti. Sei impegnato a fare qualcosa, nel frattempo la vita è come un vento che tira in un'altra direzione, lasciandoti una sensazione di spiazzamento intenso. Nulla è più al proprio posto. E nulla conserva più lo stesso senso del prima.
Nella sua apparente semplicità, il film di Moretti racchiude una complessità di trama molto intrecciata. È un film sul lutto e sulla perdita, ma è anche e soprattutto un film sul lavoro, sul lavoro che si perde, sulla perdita di senso del proprio lavoro, sulla fatica quotidiana del lavoro, ma anche su quanto di utile e prezioso il proprio lavoro costituisca e costruisca, quanto ci rappresenti e quanto sia parte dell'eredità che consegniamo agli altri, alle nuove generazioni. Il rapporto tra la nonna morente e la nipote passa anche attraverso lo studio dei classici latini, essendo stata per tutta la propria vita la nonna la professoressa. È proprio questa complessità di trame e intrecci può essere un'utile guida per orientarci dentro alcuni dei temi portanti che riguardano la relazione tra benessere soggettivo e condizioni di crisi del contemporaneo.
Di cosa è rappresentativa questa storia? Ad un primo livello, della sensazione di spiazzamento che ci coglie in determinati frangenti delle nostre esistenze. Condizione molto umana, che fisiologicamente ha sempre connotato l'esistere e l'esistenza. Perdite, separazioni, lutti sono esperienze connaturate alle quotidiane vicende. Il lavoro del lutto è anche e soprattutto quel ricostruire un senso nuovo ai gesti quotidiani di sempre, quando il senso antecedente non è più accessibile per il dolore. La perdita è una stress intenso che innesca una profonda crisi, il cui primo sintomo sono i vissuti di alienazione e di spaesamento.
In che modo allora la storia narrata dal film racconta della contemporaneità? A mio parere, perché non racconta soltanto di private vicende che in momenti contingenti ciascuno si trova ad affrontare. La centratura non casuale sul lavoro apre molte finestre su quelle che sono oggi le condizioni di diffuso malessere sociale.
C'è una qualità diversa nella crisi che tutti stiamo provando faticosamente a fronteggiare, che spiazza e spaventa. Qualcosa che non sta tanto nella sua durata e nella sua intensità, pur includendole.
La qualità particolare e peculiare della attuale crisi è nella comune percezione di non reversibilità, di non transitorietà. Questi sono i vissuti più penosi, più densi, anche meno dicibili, che attraversano le trame dei discorsi oggi dei pazienti in analisi. La sensazione che il mondo intero stia slittando da qualche altra parte che ci rende tutti migranti. Anche se non ci spostiamo noi, è il mondo che va. Per questo che analogamente che per il lutto, le categorie possedute e padroneggiate perdono di senso, di presa sul reale, lasciandoci inermi e impauriti.
La crisi attuale è una macchina incessante di produzione di infelicità e malessere. Verso cui è molto difficile attivare e mettere soggettivamente in campo risorse efficaci di resistenza e resilienza. E alcuni dei perni centrali di questo diffuso disagio sono le profonde trasformazioni in atto nel mercato del lavoro.
Franco Berardi scriveva alcune settimane fa, dopo le azioni dei cosiddetti Black bloc in occasione delle manifestazioni anti- Expo del primo maggio, a sua volta citando una manifestante delle rivolte nere a Baltimora: "Non è più questione di democrazia, è questione di vita e di morte." E non v'è dubbio che la profondità del disagio sociale sempre più confonde i livelli in gioco, tra ciò che è democrazia, e ciò che è questione di vita o di morte.
Ci si ammala di troppo lavoro, ci si ammala perché non c'è lavoro, si muore di troppo lavoro e si muore per non riuscire a trovare un proprio posto nel mondo anche attraverso un dignitoso lavoro. Bifo dice, in modo più radicale, ci stanno uccidendo di lavoro e ci stanno uccidendo per la mancanza di lavoro. O ci si lascia morire, fisicamente e psichicamente.
La precarizzazione del mercato del lavoro ha queste incidenze sulle quotidiane esistenze. Il paradosso insolubile è che le sofferenze e l'infelicità sono soggettive e individuali, le macchine di produzione delle stesse sono politiche e sociali. È una profezia fin troppo facile e scontata, ma è doveroso farla: le riforme messe in atto dal governo Renzi sono e saranno macchine di produzione di infelicità sociale, come già si vedono in azione quelle dei precedenti governi delle cosiddette politiche di austerità. E una volta di più, mi appare emblematico che la madre morente del film sia una professoressa.
La riforma peggiore tra tante peggiori, per l'impatto sociale peggiorativo che avrà nelle esistenze di tanti, se andrà in porto, a me sembra quella della cosiddetta buona scuola. Il micidiale combinato tra riduzioni delle garanzie per tanti e i dogmi del neoliberismo, fondati sulla presunta libertà dell'autoimprenditoria, sulla competizione, sulla produttività quantitativa, sulla mobilità ecc., hanno alterato drasticamente le condizioni del lavoro. Ed il secolare ruolo che il lavoro ha avuto ed ha nella costruzione della identità di ciascuno di noi.
La questione non è tanto o soltanto che c'è meno offerta di lavoro, e sempre meno ce ne sarà per la crescente automatizzazione delle catene produttive. L'interstizio, per dirla alla Cianconi, nel quale siamo slittati, è che si sono alterati i rapporti di forza e le linee di conflitto tra sfruttatori e sfruttati. E il risultato è che siamo noi oggi i principali e primari sfruttatori di noi stessi, soggiogati dai dogmi neo liberisti.
Il ciclo di incontri che abbiamo titolato L'inutile fatica di essere se stessi prova a ragionare su tutto ciò. La depressione contemporanea si nutre di sentimenti di inadeguatezza. Mi sento in colpa perché non sono all'altezza, perché non sono adeguato. Il Super-Io attuale tiranneggia più attraverso l'Ideale dell' Io che la Coscienza Morale.
Ma questo è un problema di trame culturali sociali e politiche, cui non si può pensare di trovare soluzioni soltanto individuali e soggettive.
Commento lasciato da Enrico Francesco Genovese il 4 giugno 2015
Riflessioni interessanti che invitano ad un ripensamento della funzione sociale delle professioni di aiuto, ad aggiornare lo "strumentario" in uso dello psicologo (approcci, assetti, chiavi di lettura, percorsi formativi) . Mi ha colpito il titolo "L'inutile ect" che comunica pessimismo, come si volesse affermare l'irrilevanza di lavorare sulla propria soggettività, in un mondo sempre più lavorativamente precario. Mentre l'ambiente sociale è in rapido mutamento, "slitta" verso esiti imprevedibili in direzione di una sempre maggiore restrizione delle risorse materiali, al contrario è vieppiù utile -a mio avviso- comprendere l'orizzonte di senso in cui collocare la propria vicenda individuale all'interno di macroprocessi sociali, per cercare di intrecciare il proprio filo nella trama complessiva dell'epoca in cui viviamo.
Riflessioni interessanti che invitano ad un ripensamento della funzione sociale delle professioni di aiuto, ad aggiornare lo "strumentario" in uso dello psicologo (approcci, assetti, chiavi di lettura, percorsi formativi) . Mi ha colpito il titolo "L'inutile ect" che comunica pessimismo, come si volesse affermare l'irrilevanza di lavorare sulla propria soggettività, in un mondo sempre più lavorativamente precario. Mentre l'ambiente sociale è in rapido mutamento, "slitta" verso esiti imprevedibili in direzione di una sempre maggiore restrizione delle risorse materiali, al contrario è vieppiù utile -a mio avviso- comprendere l'orizzonte di senso in cui collocare la propria vicenda individuale all'interno di macroprocessi sociali, per cercare di intrecciare il proprio filo nella trama complessiva dell'epoca in cui viviamo.
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