
LICENZIAMENTI ALMAVIVA
I lavoratori incrociano le cuffie
di Giovanni Di Benedetto 13 aprile 2016
I lavoratori incrociano le cuffie
di Giovanni Di Benedetto 13 aprile 2016
La mattina del 13 Aprile si apre al Ministero per lo sviluppo economico un tavolo tecnico tra sindacati, governo e rappresentanti aziendali. Nello stesso frangente è convocato lo sciopero nazionale. Il nostro articolo vuole essere una prima testimonianza di appoggio e sostegno alla vertenza dei lavoratori dei call center perché pensiamo che la loro lotta è anche la nostra. Ha collaborato alla stesura dell’articolo un operatore di Almaviva che, per ovvie ragioni, preferisce rimanere anonimo.
In una recente inchiesta pubblicata su Conquiste del lavoro (3.04.16) risulta che in Sicilia il rischio di povertà riguarda il 40% circa di abitanti, che il 26% vive in condizioni di grave deprivazione e che a Palermo, dopo Milano e Roma, vive il maggior numero di persone senza fissa dimora. Due dati, in particolare, risaltano dall’inchiesta: il primo riguarda il dato della disoccupazione che nel capoluogo siciliano è del 23,16% ma che sfiora quasi il 60% per quanto riguarda i giovani; il secondo è relativo al fatto che a determinare percorsi di progressiva emarginazione verso il disagio sociale è innanzitutto, insieme alla separazione dal coniuge, la perdita di un lavoro stabile. Secondo i sindacati, in Sicilia, ci sarebbero quasi due milioni di persone che non percepirebbero reddito perché inattive o disoccupate.
L’economia palermitana non attraversa un momento particolarmente felice: dalla Cedi Sicilia di Carini, fornitrice dei supermercati Sisa, che ha in corso il licenziamento collettivo di 139 lavoratori, alla condizione sempre precaria di almeno 280 tute blu della Keller, dalla Formazione professionale regionale con 4500 lavoratori a rischio licenziamento alla vertenza ormai cronica dei Cantieri navali, senza commesse per i 600 operai dell’impianto e gli oltre 1000 dell’indotto. L’osservatorio nazionale della Confesercenti ha registrato, negli ultimi due mesi, 1214 aziende in meno per una perdita complessiva, nel ramo del commercio, di 8000 posti di lavoro.
È in questo scenario drammatico che occorre situare il caso di apertura della procedura di mobilità per 1670 lavoratori palermitani deciso da Almaviva Contact, una società del gruppo Almaviva, multinazionale delle telecomunicazioni che, con le sue 38 sedi italiane e 19 estere, conta circa 45.000 addetti. Senza un’adeguata dislocazione del caso Almaviva nel drammatico contesto della crisi economica siciliana e palermitana non si coglie fino in fondo la tragica portata dell’operazione di messa in mobilità dei lavoratori del call center palermitano. Con i suoi 13.000 lavoratori in Italia e 32.000 all’estero, Almaviva è il 6° Gruppo privato italiano per numero di occupati al mondo, il 3° a guida imprenditoriale. Almaviva Contact, che ha in Italia varie sedi, tra cui Milano, Roma, Napoli, Rende, Catania, Palermo, solo in Sicilia conta circa 7000 dipendenti. Lavora in “outsourcing”, acquisisce cioè commesse da parte di grandi aziende che preferiscono, per risparmiare sui costi, esternalizzare parte delle proprie attività, e i suoi dipendenti rispondono per aziende come Wind, Sky, Tim, Enel, Alitalia ecc.
Nei call center ci sono due tipologie di lavoratori: i lavoratori a tempo indeterminato che ricevono le chiamate dei clienti delle compagnie telefoniche piuttosto che dei clienti Enel, Sky o Alitalia, fornendo servizi di informazione e assistenza, e i collaboratori a progetto, che hanno un contratto a tempo determinato e la cui busta paga è determinata dalle ore di effettiva conversazione telefonica eseguita in azienda e dagli obiettivi raggiunti. A Palermo Almaviva Contact è approdata nel 2001 e, a tutt’oggi, conta circa 3000 dipendenti a tempo indeterminato e circa 1000 collaboratori a progetto, dislocati in due sedi: Via Tommaso Marcellini (dove si gestiscono Wind, Sky, Enel) e Via Cordova (dove si gestiscono Tim, Alitalia, Amg gas).
I colossi come Wind, Sky, Enel, per poter affidare ad altre aziende la gestione dell’assistenza tecnica della propria clientela o delle vendite, devono partecipare a delle “gare al ribasso” in cui i call center come Almaviva si propongono con delle offerte dettate dal costo dei propri lavoratori e dai propri servizi. A queste gare possono partecipare anche i call center che hanno delocalizzato la loro forza lavoro all’estero, cosa che Almaviva fino ad ora non ha fatto. Questi fanno delle offerte molto vantaggiose a causa di un ridotto sistema di costi, primo fra tutti il costo del lavoro. A seguito di questa concorrenza al ribasso i call center italiani perdono le commesse. E a perdere non sono solo le aziende italiane ma anche i loro lavoratori che rischiano la disoccupazione, e, cosa che non tutti sanno ma che coinvolge tutta la popolazione che possiede un telefonino, un televisore collegato a Sky o che ama viaggiare e prenota attraverso i call center, a perdere sono i clienti di questi colossi che, oltre ad avere un mediocre servizio per un’evidente problema linguistico, rischiano che i loro dati (non solo dati anagrafici ma numeri di conto corrente, numeri di carte di credito, documenti di identità) vengano trasferiti all’estero dove potrebbero non essere tutelati come in Italia.
D’altra parte tutto ciò in Italia è consentito dalla normativa vigente: un’azienda può chiudere la sua sede italiana e trasferire le sue attività all’estero con il benestare delle leggi italiane. In realtà la legge di stabilità 147/2013 comma 60 prevede che, alle aziende che delocalizzano riducendo il proprio personale del 50%, vengano tolti gli incentivi statali, ma questa perdita viene applicata solo se la delocalizzazione avviene in un paese fuori dall'Europa. Per di più, se un'azienda delocalizza riducendo il personale del 40% mantiene gli incentivi. Ma non si tratta dell’unico stratagemma per ridurre i costi da competitività. Un’azienda, infatti, può scegliere di diversificare lo spettro delle proprie attività e dei propri rami industriali tagliando quelli meno remunerativi. In un articolo a firma di Antonio Fraschilla su La Repubblica del 3 Aprile si scrive che il gruppo Almaviva “in Belgio dal 2014 ha una società d’information technology che si è appena aggiudicata una gara da 32 milioni di euro dell’Europol, l’Agenzia finalizzata alla lotta al crimine dell’Ue. Insomma il gruppo è in salute. I sindacati da tempo chiedono di riqualificare il personale nei call center per poter essere utilizzato anche in questi rami floridi dell’azienda, soprattutto alla luce degli esuberi enormi appena avviati” (Per Almaviva commessa da 32 milioni. Ma in Belgio). O ancora, senza che la normativa corrente abbia la possibilità di impedirlo, è possibile che un gruppo industriale, contemporaneamente alla messa in mobilità di un certo numero di lavoratori, possa attivarsi per reclutare nuovo personale da utilizzare, questa volta, con requisiti contrattuali ancora più deboli di quelli, già scarsamente corposi, in dotazione ai lavoratori a tempo indeterminato.
I lavoratori dei call center non sono lavoratori precari, sono lavoratori a tempo indeterminato, non sono ragazzini ma lavoratori dell’età media di 40 anni, non sono senza cultura o senza “un pezzo di carta”, sono sicuramente tutti diplomati e per la maggior parte laureati, anche con dottorati alle spalle. Hanno accettato di lavorare in un call center perché questo è quello che la loro terra gli ha offerto, pensando inizialmente che sarebbe stato un lavoro temporaneo. Sono passati 15 anni, si sono formate coppie, ci sono stati matrimoni, nascite, acquisti di case con relativi mutui. È un lavoro che ha permesso a moltissime persone di sbarcare il lunario, magari di programmare un futuro e, perché no, mettere su famiglia.
Adesso la proprietà, in data 21 marzo 2016, dopo aver fatto ricorso, negli ultimi 5 anni, agli ammortizzatori sociali dello Stato (quindi pagati anche da tutti noi), ha aperto ufficialmente la messa in mobilità per 2988 persone in tre delle sedi italiane di cui 1670 solo a Palermo, nonostante pare che il governo abbia dato la possibilità di prorogare fino al 2017 l’utilizzo dei contratti di solidarietà. Significa che dal 21 marzo è iniziato un vero e proprio count down di 75 giorni utili per incontrare le istituzioni, finora assenti, per poter trovare un accordo che eviti un vero e proprio dramma sociale. I dipendenti stanno facendo scioperi, volantinaggi, manifestazioni, fiaccolate, ogni giorno un sit in diverso in vari punti della città, per avere visibilità e per scongiurare quello che si teme il 5 giugno 2016, data ultima per trovare un accordo, perché dietro quel numero, 1670, ci sono persone, ci sono bambini, ci sono genitori anziani, ci sono mariti e mogli che lavorano nella stessa azienda, ci sono cinquantenni che per gli ultimi 15 anni della loro vita si sono specializzati in questo lavoro, ci sono detentori di mutui. Peraltro dai recenti incontri tra azienda e sindacati trapela una eventualità che sembra, purtroppo, piuttosto logica: se si licenziano 1670 lavoratori significa che ci si avvia alla totale smobilitazione del sito produttivo e che, quindi, anche i restanti 1300, prima o poi, subiranno lo stesso destino di messa in mobilità con relativa perdita del posto di lavoro.
La realtà è sempre molto più complessa, contraddittoria e crudele, ma in fin dei conti anche molto più credibile, delle rappresentazioni ideologiche e virtuali, spesso rozze nella loro luccicante illusorietà, che il potere economico nella società deregolamentata del libero mercato continua a veicolare. Eppure i fattori che operano all’interno della macchina della grande illusione sono strumenti potenti e credibili. Fino a quando, almeno, non viene svelato l’arcano della grande illusione e si scopre quanto lo stato delle cose sia radicalmente differente. Tanto differente da provare poi quasi vergogna per essersi lasciati attrarre dai bagliori di un mondo che, a prima vista, sembra leibnizianamente il migliore dei mondi possibili. Qualsiasi grande multinazionale può esprimere, a parole, encomiabili e lodevoli dichiarazioni di intenti. Per esempio i grandi gruppi imprenditoriali possono candidamente affermare di puntare all’eccellenza delle persone e al lavoro di gruppo per assicurare la soddisfazione dei clienti. Nelle pubblicità che promuovono la mission dell’impresa, le competenze e il valore delle persone sarebbero il patrimonio dell’azienda, la chiave dei suoi successi. E a proposito della responsabilità sociale dell’impresa non manca mai quel particolare riferimento in base al quale i propri dipendenti sarebbero considerati come una risorsa strategica; entro lo scenario della globalizzazione l’imprenditore non farebbe altro che promuoverne lo sviluppo professionale, i diritti umani e quelli del lavoro.
A leggere questa successione di ingenue banalità e superficiali luoghi comuni si può restare esterrefatti, soprattutto se li si confronta con avvenimenti che catapultano traumaticamente l’osservatore su un altro piano di realtà. A ben vedere un altro affare, è proprio il caso di dire, con le sue leggi, i suoi meccanismi interni e il suo svolgimento storico. Una storia questa volta più credibile e purtroppo davvero reale, che gioca un ruolo decisivo per la sorte di 1670 famiglie. Da questa prospettiva locuzioni come quelle relative al considerazione del lavoro e alla valorizzazione delle capacità e del merito delle persone rischiano di apparire, se espresse da parte della direzione di un’azienda, senza alcun senso. Il fatto è che ogni impresa che si rispetti ha il bisogno, se vuole garantirsi un sufficiente margine di profitti, di fare quadrare i conti e, in caso di dissesto o deficit finanziario, chiudere bottega. Ma allora, se il mercato non possiede quelle virtù salvifiche di cui sarebbe depositaria un’inesistente mano invisibile, in grado di riequilibrare le storture della sfera economica, che cosa si aspetta a intervenire attraverso la politica? Magari smettendola di erogare soltanto incentivi, sgravi contributivi e agevolazioni all’impresa ma regolamentando settori nei quali la concorrenza tra grandi multinazionali si basa sulla costante riduzione al ribasso dei diritti dei lavoratori, sanzionando gli abusi, costringendo le aziende committenti a internalizzare lavoratori e servizi di tale importanza strategica e, perché no, nazionalizzando per revocare i licenziamenti e garantire il mantenimento dei posti di lavoro. Si ritornerebbe così ad affidare ai pubblici poteri quei ruoli di tutela costituzionale del diritto al lavoro e di salvaguardia della coesione sociale che, legittimamente, gli competono e che possono garantire la collettività di fronte agli ormai tristemente cronici disastri ciclici del modo di produzione dominante.
In una recente inchiesta pubblicata su Conquiste del lavoro (3.04.16) risulta che in Sicilia il rischio di povertà riguarda il 40% circa di abitanti, che il 26% vive in condizioni di grave deprivazione e che a Palermo, dopo Milano e Roma, vive il maggior numero di persone senza fissa dimora. Due dati, in particolare, risaltano dall’inchiesta: il primo riguarda il dato della disoccupazione che nel capoluogo siciliano è del 23,16% ma che sfiora quasi il 60% per quanto riguarda i giovani; il secondo è relativo al fatto che a determinare percorsi di progressiva emarginazione verso il disagio sociale è innanzitutto, insieme alla separazione dal coniuge, la perdita di un lavoro stabile. Secondo i sindacati, in Sicilia, ci sarebbero quasi due milioni di persone che non percepirebbero reddito perché inattive o disoccupate.
L’economia palermitana non attraversa un momento particolarmente felice: dalla Cedi Sicilia di Carini, fornitrice dei supermercati Sisa, che ha in corso il licenziamento collettivo di 139 lavoratori, alla condizione sempre precaria di almeno 280 tute blu della Keller, dalla Formazione professionale regionale con 4500 lavoratori a rischio licenziamento alla vertenza ormai cronica dei Cantieri navali, senza commesse per i 600 operai dell’impianto e gli oltre 1000 dell’indotto. L’osservatorio nazionale della Confesercenti ha registrato, negli ultimi due mesi, 1214 aziende in meno per una perdita complessiva, nel ramo del commercio, di 8000 posti di lavoro.
È in questo scenario drammatico che occorre situare il caso di apertura della procedura di mobilità per 1670 lavoratori palermitani deciso da Almaviva Contact, una società del gruppo Almaviva, multinazionale delle telecomunicazioni che, con le sue 38 sedi italiane e 19 estere, conta circa 45.000 addetti. Senza un’adeguata dislocazione del caso Almaviva nel drammatico contesto della crisi economica siciliana e palermitana non si coglie fino in fondo la tragica portata dell’operazione di messa in mobilità dei lavoratori del call center palermitano. Con i suoi 13.000 lavoratori in Italia e 32.000 all’estero, Almaviva è il 6° Gruppo privato italiano per numero di occupati al mondo, il 3° a guida imprenditoriale. Almaviva Contact, che ha in Italia varie sedi, tra cui Milano, Roma, Napoli, Rende, Catania, Palermo, solo in Sicilia conta circa 7000 dipendenti. Lavora in “outsourcing”, acquisisce cioè commesse da parte di grandi aziende che preferiscono, per risparmiare sui costi, esternalizzare parte delle proprie attività, e i suoi dipendenti rispondono per aziende come Wind, Sky, Tim, Enel, Alitalia ecc.
Nei call center ci sono due tipologie di lavoratori: i lavoratori a tempo indeterminato che ricevono le chiamate dei clienti delle compagnie telefoniche piuttosto che dei clienti Enel, Sky o Alitalia, fornendo servizi di informazione e assistenza, e i collaboratori a progetto, che hanno un contratto a tempo determinato e la cui busta paga è determinata dalle ore di effettiva conversazione telefonica eseguita in azienda e dagli obiettivi raggiunti. A Palermo Almaviva Contact è approdata nel 2001 e, a tutt’oggi, conta circa 3000 dipendenti a tempo indeterminato e circa 1000 collaboratori a progetto, dislocati in due sedi: Via Tommaso Marcellini (dove si gestiscono Wind, Sky, Enel) e Via Cordova (dove si gestiscono Tim, Alitalia, Amg gas).
I colossi come Wind, Sky, Enel, per poter affidare ad altre aziende la gestione dell’assistenza tecnica della propria clientela o delle vendite, devono partecipare a delle “gare al ribasso” in cui i call center come Almaviva si propongono con delle offerte dettate dal costo dei propri lavoratori e dai propri servizi. A queste gare possono partecipare anche i call center che hanno delocalizzato la loro forza lavoro all’estero, cosa che Almaviva fino ad ora non ha fatto. Questi fanno delle offerte molto vantaggiose a causa di un ridotto sistema di costi, primo fra tutti il costo del lavoro. A seguito di questa concorrenza al ribasso i call center italiani perdono le commesse. E a perdere non sono solo le aziende italiane ma anche i loro lavoratori che rischiano la disoccupazione, e, cosa che non tutti sanno ma che coinvolge tutta la popolazione che possiede un telefonino, un televisore collegato a Sky o che ama viaggiare e prenota attraverso i call center, a perdere sono i clienti di questi colossi che, oltre ad avere un mediocre servizio per un’evidente problema linguistico, rischiano che i loro dati (non solo dati anagrafici ma numeri di conto corrente, numeri di carte di credito, documenti di identità) vengano trasferiti all’estero dove potrebbero non essere tutelati come in Italia.
D’altra parte tutto ciò in Italia è consentito dalla normativa vigente: un’azienda può chiudere la sua sede italiana e trasferire le sue attività all’estero con il benestare delle leggi italiane. In realtà la legge di stabilità 147/2013 comma 60 prevede che, alle aziende che delocalizzano riducendo il proprio personale del 50%, vengano tolti gli incentivi statali, ma questa perdita viene applicata solo se la delocalizzazione avviene in un paese fuori dall'Europa. Per di più, se un'azienda delocalizza riducendo il personale del 40% mantiene gli incentivi. Ma non si tratta dell’unico stratagemma per ridurre i costi da competitività. Un’azienda, infatti, può scegliere di diversificare lo spettro delle proprie attività e dei propri rami industriali tagliando quelli meno remunerativi. In un articolo a firma di Antonio Fraschilla su La Repubblica del 3 Aprile si scrive che il gruppo Almaviva “in Belgio dal 2014 ha una società d’information technology che si è appena aggiudicata una gara da 32 milioni di euro dell’Europol, l’Agenzia finalizzata alla lotta al crimine dell’Ue. Insomma il gruppo è in salute. I sindacati da tempo chiedono di riqualificare il personale nei call center per poter essere utilizzato anche in questi rami floridi dell’azienda, soprattutto alla luce degli esuberi enormi appena avviati” (Per Almaviva commessa da 32 milioni. Ma in Belgio). O ancora, senza che la normativa corrente abbia la possibilità di impedirlo, è possibile che un gruppo industriale, contemporaneamente alla messa in mobilità di un certo numero di lavoratori, possa attivarsi per reclutare nuovo personale da utilizzare, questa volta, con requisiti contrattuali ancora più deboli di quelli, già scarsamente corposi, in dotazione ai lavoratori a tempo indeterminato.
I lavoratori dei call center non sono lavoratori precari, sono lavoratori a tempo indeterminato, non sono ragazzini ma lavoratori dell’età media di 40 anni, non sono senza cultura o senza “un pezzo di carta”, sono sicuramente tutti diplomati e per la maggior parte laureati, anche con dottorati alle spalle. Hanno accettato di lavorare in un call center perché questo è quello che la loro terra gli ha offerto, pensando inizialmente che sarebbe stato un lavoro temporaneo. Sono passati 15 anni, si sono formate coppie, ci sono stati matrimoni, nascite, acquisti di case con relativi mutui. È un lavoro che ha permesso a moltissime persone di sbarcare il lunario, magari di programmare un futuro e, perché no, mettere su famiglia.
Adesso la proprietà, in data 21 marzo 2016, dopo aver fatto ricorso, negli ultimi 5 anni, agli ammortizzatori sociali dello Stato (quindi pagati anche da tutti noi), ha aperto ufficialmente la messa in mobilità per 2988 persone in tre delle sedi italiane di cui 1670 solo a Palermo, nonostante pare che il governo abbia dato la possibilità di prorogare fino al 2017 l’utilizzo dei contratti di solidarietà. Significa che dal 21 marzo è iniziato un vero e proprio count down di 75 giorni utili per incontrare le istituzioni, finora assenti, per poter trovare un accordo che eviti un vero e proprio dramma sociale. I dipendenti stanno facendo scioperi, volantinaggi, manifestazioni, fiaccolate, ogni giorno un sit in diverso in vari punti della città, per avere visibilità e per scongiurare quello che si teme il 5 giugno 2016, data ultima per trovare un accordo, perché dietro quel numero, 1670, ci sono persone, ci sono bambini, ci sono genitori anziani, ci sono mariti e mogli che lavorano nella stessa azienda, ci sono cinquantenni che per gli ultimi 15 anni della loro vita si sono specializzati in questo lavoro, ci sono detentori di mutui. Peraltro dai recenti incontri tra azienda e sindacati trapela una eventualità che sembra, purtroppo, piuttosto logica: se si licenziano 1670 lavoratori significa che ci si avvia alla totale smobilitazione del sito produttivo e che, quindi, anche i restanti 1300, prima o poi, subiranno lo stesso destino di messa in mobilità con relativa perdita del posto di lavoro.
La realtà è sempre molto più complessa, contraddittoria e crudele, ma in fin dei conti anche molto più credibile, delle rappresentazioni ideologiche e virtuali, spesso rozze nella loro luccicante illusorietà, che il potere economico nella società deregolamentata del libero mercato continua a veicolare. Eppure i fattori che operano all’interno della macchina della grande illusione sono strumenti potenti e credibili. Fino a quando, almeno, non viene svelato l’arcano della grande illusione e si scopre quanto lo stato delle cose sia radicalmente differente. Tanto differente da provare poi quasi vergogna per essersi lasciati attrarre dai bagliori di un mondo che, a prima vista, sembra leibnizianamente il migliore dei mondi possibili. Qualsiasi grande multinazionale può esprimere, a parole, encomiabili e lodevoli dichiarazioni di intenti. Per esempio i grandi gruppi imprenditoriali possono candidamente affermare di puntare all’eccellenza delle persone e al lavoro di gruppo per assicurare la soddisfazione dei clienti. Nelle pubblicità che promuovono la mission dell’impresa, le competenze e il valore delle persone sarebbero il patrimonio dell’azienda, la chiave dei suoi successi. E a proposito della responsabilità sociale dell’impresa non manca mai quel particolare riferimento in base al quale i propri dipendenti sarebbero considerati come una risorsa strategica; entro lo scenario della globalizzazione l’imprenditore non farebbe altro che promuoverne lo sviluppo professionale, i diritti umani e quelli del lavoro.
A leggere questa successione di ingenue banalità e superficiali luoghi comuni si può restare esterrefatti, soprattutto se li si confronta con avvenimenti che catapultano traumaticamente l’osservatore su un altro piano di realtà. A ben vedere un altro affare, è proprio il caso di dire, con le sue leggi, i suoi meccanismi interni e il suo svolgimento storico. Una storia questa volta più credibile e purtroppo davvero reale, che gioca un ruolo decisivo per la sorte di 1670 famiglie. Da questa prospettiva locuzioni come quelle relative al considerazione del lavoro e alla valorizzazione delle capacità e del merito delle persone rischiano di apparire, se espresse da parte della direzione di un’azienda, senza alcun senso. Il fatto è che ogni impresa che si rispetti ha il bisogno, se vuole garantirsi un sufficiente margine di profitti, di fare quadrare i conti e, in caso di dissesto o deficit finanziario, chiudere bottega. Ma allora, se il mercato non possiede quelle virtù salvifiche di cui sarebbe depositaria un’inesistente mano invisibile, in grado di riequilibrare le storture della sfera economica, che cosa si aspetta a intervenire attraverso la politica? Magari smettendola di erogare soltanto incentivi, sgravi contributivi e agevolazioni all’impresa ma regolamentando settori nei quali la concorrenza tra grandi multinazionali si basa sulla costante riduzione al ribasso dei diritti dei lavoratori, sanzionando gli abusi, costringendo le aziende committenti a internalizzare lavoratori e servizi di tale importanza strategica e, perché no, nazionalizzando per revocare i licenziamenti e garantire il mantenimento dei posti di lavoro. Si ritornerebbe così ad affidare ai pubblici poteri quei ruoli di tutela costituzionale del diritto al lavoro e di salvaguardia della coesione sociale che, legittimamente, gli competono e che possono garantire la collettività di fronte agli ormai tristemente cronici disastri ciclici del modo di produzione dominante.
Commento lasciato da Mario Guarino il 14 aprile 2016
Molte aziende con una mano agguantano gli aiuti statali mentre con l'altra prendono per il colletto i lavoratori e li sbattono fuori. Gli aiuti che Renzi così generosamente ha offerto alle imprese, gli sgravi contributivi, l'alleggerimento degli oneri fiscali, rappresentano un danno per l'intera collettività. Poi verranno a raccontarci del passivo dell'INPS, della riduzione degli oneri deducibili etc.. La squallida realtà è che il governo italiano come la maggior parte dei governi europei, è il governo dei padroni. Purtroppo oggi manca il collante tra le tante lotte in corso. Una volta questo collante era rappresentato da un forte Partito Comunista, che operava per "linee interne" mediante il sindacato (la CGIL). Il problema odierno è ricostruire la solidarietà sociale tra i lavoratori e tra chi è fuori dal mondo del lavoro... Occorrerebbe una credibilità e una autorevolezza che la sinistra ha perduto e che sarà difficile riconquistare.
Molte aziende con una mano agguantano gli aiuti statali mentre con l'altra prendono per il colletto i lavoratori e li sbattono fuori. Gli aiuti che Renzi così generosamente ha offerto alle imprese, gli sgravi contributivi, l'alleggerimento degli oneri fiscali, rappresentano un danno per l'intera collettività. Poi verranno a raccontarci del passivo dell'INPS, della riduzione degli oneri deducibili etc.. La squallida realtà è che il governo italiano come la maggior parte dei governi europei, è il governo dei padroni. Purtroppo oggi manca il collante tra le tante lotte in corso. Una volta questo collante era rappresentato da un forte Partito Comunista, che operava per "linee interne" mediante il sindacato (la CGIL). Il problema odierno è ricostruire la solidarietà sociale tra i lavoratori e tra chi è fuori dal mondo del lavoro... Occorrerebbe una credibilità e una autorevolezza che la sinistra ha perduto e che sarà difficile riconquistare.
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