
LONTANI E VICINI
LE ROSE CHE SYRIZA NON COLSE
Costas Lapavitsas intervistato da George Souvlis
13 ottobre 2017
LE ROSE CHE SYRIZA NON COLSE
Costas Lapavitsas intervistato da George Souvlis
13 ottobre 2017
Pubblichiamo la traduzione italiana dell'intervista di George Souvlis a Costas Lapavitsas, apparsa .su Jacobin a marzo scorso
GS: Per incominciare, potresti presentarti concentrandoti sulle esperienze accademiche e politiche che più ti hanno influenzato? CL: Provengo dalla generazione che ha cominciato ad indagare il Mondo dopo la fine della dittatura dei colonnelli in Grecia. Durante questo periodo, la radicalizzazione politica fu un aspetto cruciale della società greca. La mia famiglia era di sinistra, così io naturalmente mi radicalizzai molto prima di iniziare i miei studi universitari. E tuttavia fu il contesto generale della Gran Bretagna negli anni Ottanta a risultare cruciale per la mia formazione. Durante questo periodo, compresi che il mondo era molto più ampio e la posta politica e ideologica in gioco molto più rilevante di quella che avevo conosciuto in Grecia negli anni ’70. Il grosso della mia maturazione politica, pertanto, avvenne in Gran Bretagna, e da allora sono stato attivo nei ranghi della sinistra britannica. Un’altra esperienza intellettuale cruciale fu scoprire il marxismo giapponese, circa tre decadi fa. Mi fornì una visione più ampia sia del marxismo che dell’economia, così come una più ampia prospettiva in merito al capitalismo. GS: Potresti nominarmi alcuni intellettuali – economisti e politologi – che siano stati cruciali per la tua formazione intellettuale di economista marxista? CL: Il primo libro che io abbia letto di economia politica è stato Il capitale monopolistico di Sweezy e Baran, quando ero piuttosto giovane. Si tratta di un grande libro, uno dei contributi più importanti al marxismo del XX secolo, e di lì mi viene un duraturo rispetto per la teoria economica di Sweezy. Inutile dire che ho anche letto buona parte dei testi di Marx attentamente, ma senza trattarli mai come testi sacri. Per me Marx è stato un grande pensatore e rivoluzionario, ma questo è quanto. Inoltre ho letto la solita serie completa dei marxisti classici. Vorrei sottolineare in particolare Trotsky, i cui scritti sulla Rivoluzione Russa, sullo sviluppo dell’Unione sovietica e sulla nascita del Fascismo negli anni tra le due guerre mondiali mi hanno influenzato profondamente. Sono stato parte a lungo di quella corrente della Sinistra che ha duramente criticato, fino a rigettare, l’Unione Sovietica. Infine la mia lettura specifica dell’economia marxista è un misto, in primo luogo, della rinascita marxista anglosassone degli anni ’70 e ’80, e in secondo luogo, del marxismo giapponese della scuola di pensiero di Uno. Ho un grande debito intellettuale verso molti autori ma vorrei qui citare Ben Fine e Laurence Harris in Gran Bretagna e Makoto Itoh e Tomohiko Sekine in Giappone. GS: Parliamo della Grecia. Syriza – dopo la sconfitta del nuovo bailout – ha messo insiem tutta una narrazione sulla natura ineluttabile di questo sviluppo, dando a intendere che questa fosse l’unica strada per andare avanti. Condividi questa lettura degli avvenimenti? Se non la condividi, qual era l’altra via? In termini economici, cosa avrebbe dovuto fare Syriza per evitare questi sviluppi? CL: È interessante notare che il principale argomento che proviene dall’attuale leadership di Syriza è che non ci fosse nient’altro che si potesse fare. Questo è esattamente lo stesso argomento adoperato da Nuova Democrazia, PASOK e tutti coloro che hanno guidato la Grecia per decenni. Tuttavia Syriza è salita al potere promettendo una via diversa che avrebbe portato un reale cambiamento in Grecia e in Europa. Io ho sostenuto Syriza a quel tempo perché un’altra strada era davvero possibile. Altrimenti, qual era esattamente lo scopo di Syriza? Avere Alexis Tsipras come primo ministro invece di Antonis Samaras di Nuova democrazia? Avere persone al governo che si definiscono “di sinistra” e sperano tutt’al più di implementare le politiche di austerità in maniera più soft? Io rigetto completamente questa visione. Il vero problema di Syriza non è che non ci fosse un’altra strada. Il vero problema è che la strategia adottata dalla sua leadership era dissennata sin dall’inizio. Era una politica sbagliata, un’impostazione economia sbagliata, una interpretazione del mondo sbagliata. In breve, loro volevano opporsi ai creditori e a trasformare la Grecia, e contemporaneamente rimanere nell’unione monetaria europea. Questo era impossibile, come sostenni all’epoca assieme a molti altri in Syriza. Noi abbiamo dato battaglia, opponendoci alla leadership e sostenendo una opzione alternativa di uscita dall’Euro e di default del debito pubblico. Questa era la sola alternativa realistica per la Grecia, che avrebbe potuto aprire la strada ad una trasformazione sociale radicale. Gli avvenimenti hanno dimostrato che avevamo pienamente ragione e che la strategia del gruppo dirigente era un nonsense. Però non siamo stati in grado di vincere politicamente e questo è il punto essenziale. Dopo il fallimento della sua strategia, Tsipras si è arreso ai creditori e ha adottato la loro politica. La resa di Syriza è una macchia nera per tutta la sinistra europea. GS: Quello che suggerisci riguarda il livello macro-economico. Non credi ci fossero altre alternative tattiche di breve periodo? (come ad esempio organizzare da subito un referendum, onde poter imporre – dal primo giorno al potere – il controllo sui capitali e le banche) Perché in definitiva si è dovuto imporre il controllo dei capitali all’ultimo momento e durante una congiuntura molto difficile, quando lo Stato greco era economicamente pressoché paralizzato. CL: Per cosa? A che scopo applicare tatticamente prima il controllo dei capitali, se Syriza non era preparata ad andare fino in fondo uscendo dall’Unione monetaria europea e dichiarare il default del debito? GS: Non è la mia posizione, ma alcuni sostengono che queste mosse avrebbero portato risultati migliori nei negoziati tra Syriza e la Troika, a paragone di quel che l’accordo successivo ha portato. Condividi questa posizione? CL: Un miglior negoziato per ottenere cosa? Questo è un modo sbagliato di pensare. Il problema di Syriza non era la tattica, sebbene i metodi di negoziazione di Tsipras, Varoufakis e gli altri fossero anche maldestri sin dall’inizio. Qual è lo scopo di irritare i creditori con un lessico e uno stile provocatori quando ti manca la forza di andare fino in fondo? Meglio indossare giacca e cravatta, ma essendo pronti a dichiarare default quando è necessario. Il problema di Syriza, comunque, non è stato il metodo ma la strategia. Non hanno capito cosa sia l'Europa, quanto implacabili fossero i creditori. Oltre tutto, non hanno compreso che l’unico modo di combattere l’enorme potere della Banca centrale Europea riguardo alla liquidità disponibile per l’economia fosse creare una valuta nazionale. Non c’era altra alternativa per un governo di sinistra. Dissi a Tsipras questo in una conversazione privata ma non volle ascoltare, perché ciò avrebbe condotto ad una reale rottura con le istituzioni dell’UE. Una rottura non era ciò che voleva per la sua formazione, disposizione e prospettiva politica. GS: Io penso sia stato cruciale per il fallimento di Syriza – questa è la mia opinione – che il partito non abbia detto la verità al popolo greco durante i negoziati. La verità su cosa stesse succedendo tra le due parti e quali interessi fossero in gioco. Sono certo che ricorderai come l’immagine principale prodotta dal partito in quella fase fosse che tutto era sotto controllo, che ci sarebbe stato un giusto accordo a beneficio di entrambe le parti, ecc. ecc. Credo che sia stata una scelta tattica sbagliata perché così Syriza ha smobilitato le persone, delegando il negoziato a un gruppo di specialisti, cioè il gruppo attorno a Tsipras. In questo modo, Syriza ha fatto credere che presto o tardi ci sarebbe stata una soluzione in favore dei loro interessi. La gente non era nemmeno ben informata su cosa stava succedendo a Bruxelles né era pronta a protestare in massa contro le minacce della Troika. Io credo che il Piano B avrebbe dovuto comportare la preparazione del popolo greco a quanto necessario in vista di una possibile rottura con l’UE. Cosa ne pensi? CL: Il supporto popolare e la preparazione politica della classe operaia e di più ampi strati sociali sarebbero stati di somma importanza per qualsiasi governo radicale che avesse voluto veramente cambiare le cose in Grecia. Syriza ha avuto l’opportunità di impegnarsi su questo fronte dopo le elezioni del 2012, quando divenne l’opposizione ufficiale, ma non lo fece. Invece, il gruppo dirigente ha promosso Alexis Tsipras come il prossimo primo ministro e come figura della sinistra globale. Dopo essere arrivati al potere, non hanno mai fornito risposte chiare alle questioni chiave, nemmeno quelle che la gente poneva esplicitamente. L’unico punto su cui sono stati irremovibili è che volevano rimanere dentro le istituzioni europee. Questo è uno dei pochi ambiti su cui siano stati onesti. Loro erano, e rimangono, devoti europeisti. Come, allora, avrebbero potuto preparare il popolo ad uno scontro cruciale con i creditori europei? Anche nel momento del referendum del luglio 2015, che avrebbe potuto essere chiaramente un momento di rottura, hanno meticolosamente impedito al popolo di prepararsi per la battaglia. I centri di potere in Grecia e fuori cercavano sistematicamente di terrorizzare la gente greca dicendo che un “No” avrebbe significato l’uscita dalla moneta unica e il disastro. Syriza e il suo gruppo dirigente non posero mai la questione in questi termini, ma dicevano sempre che il referendum era solo un’altra arma nei negoziati con i creditori. Alla fine si sono arresi trasformando un “No” in un “Sì”. Non hanno mai voluto una vera battaglia. GS: Pensi che questa scelta strategica sia connessa alle strategie adottate negli anni ’70 dai partiti eurocomunisti, oppure è stata una decisione dovuta alle persone attorno a Tsipras? Per esempio Ghiorgos Stathakis, l’attuale ministro dell'ambiente e dell’energia e uno dei maggiori consiglieri economici di Tsipras, è stata una delle persone più sincere di Syriza, quando iniziò a dire, dal novembre del 2016, che l’unica opzione realistica per il partito al potere fosse di firmare immediatamente un memorandum con la Troika. Qual è la tua idea su questo? Può questa scelta essere spiegata in riferimento a ragioni ideologiche, economiche o personali, oppure è un’intersezione di questi fattori che può dar conto della strategia adottata? CL: Non penso che possiamo collegare direttamente il disastro di Syriza con la tradizione euro-comunista. Ci sono molte correnti della storia della sinistra che sono confluite in Syriza. Alcune provengono dall’Eurocomunismo, ma altre delle più importanti provengono dalla tradizione stalinista del Partito Comunista greco (KKE). Una buona porzione del gruppo dirigente di Syriza era parte del gruppo dirigente del Partito Comunista e non eurocomunisti, secondo qualsiasi tipo di forzatura immaginativa. Il vero problema di Syriza non era l’eurocomunismo, ma come il partito sia stato formato e cosa sia diventato. Iniziò in maniera incerta nei primi anni ’90, soprattutto come Synaspismos, in effetti un ramo del Partito Comunista che era sempre stato non radicato e poco presente tra la classe operaia. Divenne Syriza negli anni 2000, un piccolo gruppo che vedeva sé stesso come un attore potenzialmente importante per la politica greca perché sembrava offrire una nuova modalità di fare politica pluralista, democratica e così via. La più importante trasformazione avvenne sotto la guida di Alekos Alavanos, che è stato forse il politico di sinistra di maggior talento della sua generazione. Syriza acquisì le caratteristiche di un nuovo partito di massa che poteva attrarre correnti molto differenti della Sinistra, in uno spazio di scambio e discussione costante. Era inoltre coscientemente movimentista. L’errore disastroso che fece Alavanos fu di dare la guida a Tsipras e al suo piccolo gruppo credendo di aprire la strada ad una nuova generazione, fresca e radicale. Tsipras si dimostrò enormemente ambizioso e allo stesso tempo abile a impossessarsi del partito. Portò Syriza ai grandi successi elettorali del 2011-2012. Attorno al 2010, Syriza era solo un piccolo partito tra i tanti della sinistra e, per essere franchi, diceva delle cose prive di senso rispetto alla natura della crisi in divenire. Tsipras coraggiosamente spinse il partito a prendere parte alle proteste di massa che avvenivano nelle piazze delle città greche. Soprattutto, Tsipras era preparato a dire che era pronto a governare, al contrario degli altri leader della sinistra. La combinazione del suo desiderio di governo e del coinvolgimento di Syriza nei movimenti delle piazze fu il propellente per il partito in vista delle elezioni del 2012. Divenne il governo in anticamera. Per un breve periodo di tempo, sembrò che Syriza rappresentasse una nuova forma di organizzazione, che potesse essere il futuro della sinistra non solo in Grecia ma anche in Europa. Un’ampia alleanza di varie correnti impegnate in un costante dibattito, con quadri forti, che avrebbe attratto il consenso elettorale per diventare il partito di governo. Nel 2015, la realtà è divenuta chiara: Syriza non era una nuova modalità di fare politica della sinistra, ma soltanto l’ultima incarnazione del potere dell’establishment politico greco. L’infinito dibattito politico interno e il movimentismo non sono stati garanzia di democrazia interna o di una sfida al capitalismo. Syriza si è dimostrata totalmente non-democratica al governo: un corpo politico amorfo con un capo onnipotente al centro e nessun reale dibattito politico. Si tratta di una macchina elettorale che si è legata allo Stato greco e cerca solo di mantenersi al potere. Non c’è futuro per la sinistra nel modello Syriza, questo è sicuro. GS: Il discorso che caratterizza la narrazione ufficiale del governo greco dopo l’accordo del luglio 2015, è che il loro governo, nonostante le grandi difficoltà incontrate sino ad ora, può essere definito una success story per via dei risultati fiscali che hanno condotto ad un incremento dell’avanzo primario dello Stato a circa il 4% del PIL nel 2016. Condividi l’ottimismo da parte del governo greco? Possiamo definire i loro risultati economici un successo? CL: Permettimi di collocare le cose nel loro reale contesto. La grande contrazione economica della Grecia è finita nel 2013. Dal 2014, l’economia greca è stata di fatto stagnante: un po’ di crescita e un po’ di calo. La parte peggiore della crisi era già finita da un anno prima che Syriza prendesse il potere. Perciò è ridicolo dire che Syriza abbia portato a qualche sorta di “successo” per la Grecia, o per il popolo greco. In termini fattuali, dopo l’avvento di Syriza, l’economia è tornata ad una debole recessione e ha proseguito lungo un percorso piatto per tutto il 2016, fino al 2017. Certo, nella politica greca è possibile creare una realtà parallela con la costante ripetizione di falsità: e Syriza è molto brava in questo. La verità risulta però ovvia nelle cifre e nelle vive esperienze del popolo. Nei termini delle scelte economiche reali, Syriza ha dato prova di essere il governo più obbediente che la Grecia abbia avuto dall’inizio della crisi. Loro hanno accettato le politiche economiche dei creditori, firmando il terzo accordo di salvataggio nell’agosto del 2015, e sono stati meticolosi nell’applicarlo. Non c’è nessun segnale di indipendenza, nessun esercizio di sovranità. A tal proposito, l’ultimo accordo che hanno firmato nel maggio del 2017, completando la seconda revisione del terzo salvataggio, segue obbedientemente i diktat dei creditori. Durante la sua ascesa al potere, Syriza fece molto clamore circa il negoziare con forza, l’essere duri e resistere ai creditori a differenza dei precedenti governi greci deboli. In pratica hanno dato prova di essere i peggiori negoziatori che la Grecia abbia mai avuto durante la crisi. I creditori li hanno completamente dominati, imponendo l’austerità, le tasse e il taglio delle pensioni, senza provvedere a nessun alleggerimento del debito. Il futuro della Grecia appare cupo. Probabilmente continuerà a stagnare: la crescita forse aumenterà un po’, poi scenderà un po’ e poi lo stesso nuovamente. Diventerà un Paese con una percentuale alta di disoccupazione e grandi differenze di reddito; un povero Paese la cui gioventù istruita emigrerà; un Paese invecchiato schiacciato da un debito alto; un piccolo irrilevante Paese ai margini dell’Europa. La sua classe dirigente ha accettato questo risultato: una storica bancarotta, nella quale Syriza gioca anche un suo ruolo. GS: E sul debito? Syriza ha proclamato che ci sarà presto un alleggerimento del debito. CL: Nel maggio 2016, l’Eurogruppo, che è l’istituzione che fondamentalmente determina l’unione monetaria, ha deciso un quadro operativo per il debito greco che Syriza ha accettato. Non ci sarà nessun haircut, perché non c’è nessun meccanismo dentro l’unione monetaria attraverso il quale uno Stato possa assumersi le perdite derivanti dalle scelte di un altro. In base all’accordo, il debito greco sarà considerato sostenibile finché il costo totale del suo mantenimento (interessi e principale) non ecceda il 15% del PIL annuale. Alla Grecia potrebbero essere offerti alcuni aiuti per raggiungere questa sostenibilità allungando i termini di alcuni debiti esistenti e riducendo gli interessi. Questo è il meglio che la Grecia possa sperare dai suoi “partner” nella UE. Perciò, la Grecia dovrà modellare la propria politica fiscale in maniera tale da ottenere un importante surplus primario per un periodo molto lungo. Il che significa: una bassa spesa pubblica e una tassazione alta, cioè una profonda austerità per decenni. Il che implica un basso tasso di crescita. Questa è una terribile situazione che rende il debito greco insolvibile a medio o lungo termine. Nel maggio del 2017, Syriza ha firmato un ulteriore accordo basato sullo stesso quadro di riferimento. Hanno legiferato ancora, riducendo le pensioni e imponendo tasse allo scopo di assicurare una austerità lacrime e sangue con un 3,5% di avanzo primario all’anno fino al 2022. Si sono inoltre accordati per raggiungere un ulteriore avanzo del 2% all’anno fino al 2060! Nonostante abbiano approvato queste misure straordinariamente dure, non hanno ricevuto nessuna concessione sul debito. Si tratta di una meravigliosa incompetenza. Hanno capitolato, abbandonando qualsiasi vestigio di sovranità nazionale e imponendo misure dure ai lavoratori, mentre hanno fallito orribilmente nell’assicurare qualsiasi condizione che consentisse all’economia greca di riprendersi riducendo la disoccupazione. Il governo di Syriza è una vergogna per il popolo greco e per la Sinistra internazionale. GS: Pensi che questa situazione in Grecia possa esser paragonata a quella degli Stati dell’America Latina durante la crisi degli anni ’80, dal momento che la crisi del debito è una caratteristica determinante in entrambi i casi? CL: Fino a un certo punto, sì, perché la crisi greca è stata in sostanza una crisi di bilancia dei pagamenti. Inoltre, la crisi è stata gestita dal FMI, pertanto possono essere rintracciate somiglianze con l’America latina. Tuttavia, il paragone più giusto non è quello con l’America Latina ma con la Germania della crisi successiva alla Prima Guerra Mondiale, la crisi delle riparazioni di guerra. Dopo aver perso la guerra, la Germania fu forzata a pagare alte riparazioni, principalmente alla Francia vittoriosa, mentre contemporaneamente subì restrizioni alla propria economia che ridussero la sua capacità di esportazione, e quindi di onorare i pagamenti richiesti. Per tutti gli anni Venti, la Germania fu messa in una posizione impossibile, come John Maynard Keynes comprese immediatamente. Il risultato finale fu, ovviamente, l’ascesa di Hitler, che denunziò il debito e militarizzò l’economia in preparazione della Seconda Guerra Mondiale. La Grecia è in una situazione simile. Il debito estero è alto e la Grecia è obbligata a effettuare pagamenti esteri, ma non può generare surplus estero dal momento che l’unione monetaria lo impedisce di fatto. I surplus dei bilanci sono al momento creati restringendo l’economia interna, cioè riducendo le prospettive di crescita. Si tratta di una situazione impossibile per la Grecia, che potrebbe solo essere risolta uscendo a viva forza dalla trappola. GS: L’ex ministro delle finanze Yanis Varoufakis ha sostenuto che esistesse un Piano B. Tu credi in questa dichiarazione? Se ce n’era uno, perché non è stato considerato dalla squadra di Tsipras come un’opzione durante le trattative con la Troika, quando c’era ancora spazio e tempo per manovrare? Nel caso Tsipras avesse giocato questa carta, che impatto credi avrebbe avuto in termini economici e politici? CL: E’ cosa di ogni giorno: ti crei una narrazione in merito al passato che ti consenta di guardarti allo specchio ogni mattina. In tanti reinventano il passato per adattarlo meglio alle esigenze del presente. So che la gente fa spesso la stessa cosa in politica, sebbene io cerchi personalmente di evitarlo per quanto possibile. Non c’è mai stato un Piano B nel senso proprio del termine, che sarebbe stato un piano per portare la Grecia fuori dall’unione monetaria, rompendo con l’Unione europea. Al massimo ci sono state alcune previsioni approssimative su cosa fare se la pressione dei creditori fosse stata soverchiante. Non hanno mai avuto un Piano B come io continuavo ad esigere – e proporre – cioè un insieme coerente e basato sull’appoggio popolare. Non poteva esserci, per Syriza, in quanto tale piano avrebbe necessariamente comportato l’uscita dall'Unione monetaria europea. I leader di Syriza, compreso Varoufakis, sono convinti europeisti che non avrebbero mai tollerato una rottura con l’Europa. I membri di Syriza, che erano anti-europeisti e chiedevano una rottura, sono stati alla fine cacciati via da Tsipras. GS: Recentemente tu e Theodore Mariolis avete scritto un report analitico, intitolato “Fallimento dell’eurozona, politiche tedesche e nuovi sentieri per la Grecia” pubblicato dall’Istituto RL. In questo testo descrivete i passaggi che un futuro governo dovrebbe seguire per la Grexit, affinché sia un progetto fattibile e senza conseguenze distruttive per la maggioranza del popolo greco. Cosa dovrebbe fare un futuro governo per rendere una possibile Grexit una success story, anche a lungo termine? CL: I passaggi di una Grexit sono chiari da lungo tempo. Non c’è alcun mistero. Per prima cosa, la Grexit richiede la riacquisizione della sovranità monetaria attraverso una legge del parlamento, che ridefinisca la valuta legale della nazione. Una conversione 1:1 dovrebbe essere immediatamente applicata ai contratti, ai flussi e alle somme di denaro che sono sottoposti alla legislazione greca. Allo stesso tempo, le banche andrebbero nazionalizzate, mentre andrebbero imposti il controllo dei capitali e il controllo dei movimenti di banca. Infine bisognerebbe assicurare rifornimenti regolari di medicine, cibo ed energia nel primo periodo, finché l’economia non avrà voltato pagina. Il problema economico principale sarebbe la svalutazione della nuova Dracma, la cui ampiezza dipenderebbe dallo stato dei conti pubblici e dalla forza dell’economia. Nel caso della Grecia, non è semplice stimarla, ma io credo che una svalutazione del 20% o 30% nella nuova posizione di equilibrio sia probabile. La svalutazione sarebbe positiva per l’industria greca che ha bisogno di riconquistare competitività nei mercati internazionali e in quelli interni. Anche i lavoratori avrebbero dei benefici nel medio termine in quanto l’occupazione sarebbe protetta, ma nel breve termine, avrebbero bisogno di un supporto, in particolare attraverso sussidi e sgravi fiscali. Questa non è una strada semplice, ma è perfettamente fattibile e richiede determinazione e partecipazione popolare. Ci sarebbe probabilmente un periodo di grandi difficoltà, dai sei ai dodici mesi circa, poi però l’economia volterebbe pagina. L’uscita, comunque, non sarebbe mai in sé una cura per i problemi greci. Io l’ho sempre pensata come parte di una diversa politica economica che dovrebbero cambiare l’equilibrio delle forze sociali in favore del lavoro contro il capitale, così da porre il Paese su una via diversa. La Grecia ha bisogno in altre parole di una ‘exit’ di segno progressivo. Per realizzare questo, due scelte sono fondamentali. Primo, il governo deve uscire dall’austerità, abbandonando il ridicolo e distruttivo obiettivo del 3,5% di avanzo primario. Dovrebbe aumentare la spesa pubblica per gli investimenti e altre cose, puntando principalmente sui servizi perché è il settore dove si crea velocemente occupazione. In secondo luogo, il governo dovrebbe adottare una strategia industriale usando risorse pubbliche allo scopo di riequilibrare l’economia in favore dell’industria e dell’agricoltura piuttosto che dei servizi. Se queste politiche venissero adottate, i benefici per il mondo del lavoro sarebbero sostanziali, i rapporti di potere tra le classi cambierebbero, le condizioni del lavoro sarebbero migliorate e ci sarebbe spazio per la redistribuzione dei redditi e della ricchezza. La Grecia potrebbe prendere una via per lo sviluppo con un carattere fortemente anticapitalista, che potrebbe condurre ad una riorganizzazione socialista della società. GS: In uno scenario di Grexit, dove si collocherebbe una Grecia fuori dall’UE nell’economia globale? Con chi e cosa commercerebbe? C’è da aspettarsi una guerra commerciale con la UE? CL: L’argomento della “guerra commerciale” è tipicamente adoperato dalla gente che o desidera continuare con le politiche di salvataggio oppure è troppo spaventata anche solo dal contemplare cambiamenti radicali. Sicuramente la Grecia affronterà delle difficoltà se perseguirà la via della rottura, non ultimo perché inevitabilmente dovrà dichiarare il default del suo debito. Del resto, è ampiamente noto e accettato che il debito greco è insostenibile. Il default è un affare serio, ma oggi non porta a guerre, boicottaggi e altri pittoreschi scenari. I Paesi continuano a funzionare e a sopravvivere. Dopo tutto, sarebbe lo Stato a fare default, non gli attori produttivi individuali. La rottura con l’UE è molto più rischiosa, e non avverrebbe semplicemente a causa del fallimento, ma anche perché la Grecia adotterebbe delle politiche economiche che sarebbero in contraddizione con quelle dell’UE. La Grecia dovrebbe essere preparata a questo al fine di rimettere in ordine la sua economia. Non ci sono scorciatoie: dovrebbe negoziare condizioni speciali, eccezioni e via dicendo, e dovrebbe essere preparata a combattere per le politiche di cui ha necessità. Se i lavoratori e gli strati popolari fossero determinati, il Paese potrebbe farcela. GS: Vediamo ora gli sviluppi relativi all’UE. Quale pensi che sarà il futuro dell’Eurozona e come consideri gli scenari prospettati dalla Commissione europea per un’Europa a più velocità, che sembra essere l’attuale piano tedesco per l’UE? CL: La crisi dell’Eurozona, come periodo distinto nello sviluppo storico dell’UE, è essenzialmente finita. La Germania ha imposto la sua soluzione e sconfitto tutte le opposizioni. La questione considerata va ribadita: la Germania ha prevalso e ha imposto la sua volontà sull’Europa negli ultimi sette anni. La sua posizione come Paese dominante è indiscutibile. Da quando ciò è avvenuto, è diventato anche chiaro che la nuova Europa è ampiamente stratificata, con un centro e varie periferie. La vecchia distinzione di centro e periferia, che i marxisti erano abituati ad utilizzare, è riemersa in Europa in una forma nuova e virulenta. Il centro, più specificatamente, è la base industriale tedesca fatta principalmente di automobili, chimica e macchine utensili. Non c’è nessun complesso industriale in Europa che possa essere vagamente paragonabile a quello tedesco, ad eccezione forse del Nord Italia. Il centro ha determinato diverse periferie, due delle quali risaltano. La prima è direttamente connessa al centro industriale tedesco: Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia e Slovenia. Questa periferia agisce come un hinterland del capitale industriale tedesco, fornendo lavoro, risorse e capacità produttive che vengono concentrate in Germania. La seconda periferia è a Sud: Grecia, Portogallo e Spagna. Queste sono economie con un’industria debole, una bassa produttività e una scarsa competitività, abituate ad avere un ampio settore pubblico che forniva lavoro ma che non può più farlo. Il loro ruolo è fornire personale lavorativo specializzato al centro tedesco. La stratificazione dell’Europa è la base di un enorme potere politico tedesco. L’ascesa della Germania non dipende da un piano del blocco storico tedesco, sebbene a un certo punto sia subentrata una politica cosciente. La leva più importante per assicurare l’ascesa della Germania è stata l’unione monetaria, che ha fornito alla Germania i mezzi per dominare commercialmente l’Europa e ha funzionato come base per il capitale industriale tedesco per esportare in Cina, Stati Uniti e via dicendo. Attraverso l’unione monetaria la Germania è emersa come una tra le maggiori potenze globali. Ma come tutti i processi capitalistici di questo tipo, le tensioni e le contraddizioni interne sono venute fuori. Questo ha a che fare principalmente con il centro dell’Europa e ci sono due questioni di rilevanza capitale. La prima concerne la Germania stessa. L’ascesa del capitale industriale tedesco sulle spalle dei lavoratori tedeschi: l’austerità continua in Germania, la compressione salariale, le restrizioni alla spesa pubblica, l’assenza di investimenti interni e la diminuzione della domanda interna. Queste sono le fondamenta del dominio capitalista tedesco dell’Europa che hanno dato gli strumenti al capitale tedesco per guadagnare nuove fette del mercato globale. Si tratta chiaramente di una situazione instabile e insostenibile a lungo termine. I due terzi dei lavoratori tedeschi sopravvivono in condizioni precarie con bassi salari e dure condizioni di lavoro. La seconda riguarda le relazioni tra Germania, Francia e Italia. Questo è un fattore maggiore di debolezza. La Francia è sicuramente un Paese del “centro” ma non può reggere il confronto con la Germania, non avendo la base industriale, la competitività e la possibilità determinare l’andazzo dell’unione monetaria. In effetti, il blocco storico francese non ha un piano strategico su come affrontare la Germania e sta diventando velocemente asservito a Berlino. L’Italia è forse messa peggio. Esiste nel Paese una significativa base industriale ma la sua presenza nell’unione monetaria è profondamente problematica perché non può competere in termini ragionevoli e il suo tasso di crescita è molto debole. L’Italia si trova in una situazione di austerità a bassa intensità da anni. Questo non può durare per sempre e le tensioni scoppieranno ad un certo punto. Per riassumere, l’ascesa della Germania ha stratificato l’Europa in modalità mai viste prima, generando enormi tensioni. Qui mi aspetto di vedere le eruzioni e le accelerazioni della storia, nei prossimi anni. GS: Pensi che queste eruzioni avverranno dall’alto o dal basso? CL: Negli anni recenti, abbiamo assistito all’ascesa dei populismi di destra e degli autoritarismi, spesso in forma fascista, in varie parti d’Europa. Questo è il risultato della stratificazione dell’Europa e dell’emergere del dominio tedesco. Inoltre, questo proviene dal ritrarsi della democrazia dal momento in cui l’Europa è diventata sempre più ineguale. Il fallimento della democrazia parlamentare, che è manifesto in Europa, e il fatto che il processo politico sia diventato separato dalle preoccupazioni dei lavoratori, è parte integrante dell’ascesa del capitale tedesco in Europa. La reazione ha preso inevitabilmente la forma di una richiesta di maggiore sovranità, e proviene dal basso: la gente sente di aver perso potere sul luogo in cui vive, in cui lavora, su chi fa le leggi, su chi applica la legge, su chi è responsabile e in che modo. C’è una domanda di sovranità popolare e nazionale in Europa. Nel passato le forze della Sinistra europea avrebbero formulato queste richieste per esprimere i bisogni e le aspirazioni della classe lavoratrice, opponendosi al grande business e all’ascesa tedesca in Europa. La tragedia è che la Sinistra non ha interpretato questo ruolo in Europa per anni, e, come risultato, la Destra è cresciuta, spesso anche appropriandosi di modalità della Sinistra così da dare una svolta autoritaria alle domande popolari. Ma non c’è nulla di inevitabile riguardo a questo sviluppo. Tutto dipende dal come reagirà la Sinistra da qui in poi. Non c’è nessun fermo attaccamento dei lavoratori all’estrema destra in Europa. La vera questione è se la Sinistra sarà in grado di organizzarsi e iniziare ad intervenire realmente. Il potenziale esiste. Quello che manca è una chiara comprensione dei problemi politici incendiari in Europa dal momento che la Sinistra continua a operare nel quadro di riferimento degli anni ’90 e 2000. Il tempo è arrivato perché la Sinistra esca da questa situazione e ritorni a interpretare nuovamente il suo ruolo storico in Europa. (traduzione di Giorgio Stamboulis) |
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