Il
timoniere del Gruppo Fiat, Sergio Marchionne, ha annunciato durante l’ultimo
salone dell’auto a Detroit la creazione di 1.500 posti stabili grazie alle procedure del Jobs Act (la notizia la
trovate ad esempio sul CORSERA qui).
Il fatto ha grande rilevanza politica, nel quadro delle recenti riforme del
mercato del lavoro. Andiamo con ordine e vediamo come s’inseriscono tali
provvedimenti normativi nello scenario della crisi economica europea.
La crisi del 2008 iniziata dopo lo scoppio della bolla immobiliare statunitense in seguito al fallimento della banca Lehman Brothers, ha avuto ripercussioni, per via dell’integrazione dei mercati finanziari mondiali, anche in Europa. Chi ha subito maggiormente il colpo sono stati i paesi europei dell’area mediterranea e l’Irlanda (quelli che i media chiamavano PIIGS), ovvero i sistemi economici che si sono indebitati maggiormente con gli istituti di credito. Il boom dei debiti sovrani dei paesi come ad esempio Irlanda, Spagna e Portogallo (che prima del 2008 avevano rapporti debito/PIL bassi sotto il 60%) sono causati da un intervento pubblico dei governi nazionali per tentare di arginare l’insolvenza nel settore privato.
Infatti l’effetto combinato tra stabilità valutaria dell’area Euro, che ha reso però alcuni paesi più competitivi del nostro, e maggiore facilità di accesso al credito (leggi libera circolazione dei capitali), ha provocato l’aumento del flusso di credito che ha drogato il Pil dei paesi suddetti. Al momento dello scoppio della crisi dei Subprime le banche, anche europee, per rientrare dalle perdite dovute al crollo dei valori dei titoli che avevano come sottostanti i crediti immobiliari, hanno dovuto chiudere i rubinetti del credito (effetto sudden stop; vedi Sergio Cesaratto in “Oltre l’Austerità”). Così gli operatori economici privati si sono ritrovati indebitati e con redditi reali più bassi. Per evitare il collasso del sistema i governi dei paesi più indebitati, quelli che avevano dei deficit di bilancia dei pagamenti di parte corrente, sono intervenuti con l’aumento della spesa pubblica (casi di Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia, Italia e poi anche Francia).
Il paese che aveva accumulato più crediti verso l’estero, per via della maggiore propensione all’export e agli investimenti esteri in uscita, è la Germania che fino al 2010 godeva di un saldo positivo delle partite correnti superiore al 5% in termini di punti percentuali di PIL. Tale capacità teutonica è stata caratterizzata principalmente da un fattore importante, che oggi viene messo in gioco anche in Italia, ovvero quello delle riforme del lavoro. Gli aumenti di produttività del settore manifatturiero tedesco dovuti alla capacità di creare delle catene transnazionali che sfruttassero le economie di scala dovute all’integrazione produttiva e sfruttamento del basso salario dei paesi dell’est europeo, sono solo una parte del fenomeno. Bisogna anche aggiungere che tali picchi di produttività sono dovuti all’abbassamento del costo di lavoro per unità di prodotto causati principalmente dalle riforme del governo Schröder chiamate Hartz I, II, III e IV. Il Piano Hartz prende il nome dal suo ideatore, consulente del governo di allora, nonché ex dirigente Volkswagen.
Tali riforme hanno istituito una sorta di forma di “reddito minimo garantito”, grazie all’introduzione dei mini-job, con i quali più di 7,5 milioni di tedeschi sono costretti, per evitare la disoccupazione e la perdita di sussidi statali, ad accettare contratti a termine di 400 € mensili senza contributi previdenziali. Tali riforme hanno causato un calo dei salari reali in Germania, che sono passati da una media di € 31.000 circa del 1999 a € 29.800 circa nel 2010 contro aumenti di produttività e calo degli investimenti nello stesso periodo.
Quindi il modello tedesco che si vorrebbe importare in Italia non è tanto quello relativo alla capacità del settore industriale tedesco di investire in ricerca e sviluppo o di creare delle catene transazionali che accentuano un fenomeno di “centralizzazione senza concentrazione” - come l’ha definito Riccardo Bellofiore – bensì quello relativo al mercato del lavoro. Questa centralizzazione dei capitali caratterizza un nuovo modello imperialistico che influisce su un fenomeno di “mezzogiornificazione” europea, come lo ha definito in Italia Emiliano Brancaccio.
Ritorniamo alla premessa e alla dichiarazione di Marchionne di assumere circa 1000 nuovi addetti nel centro produttivo Fiat di Melfi. La prima cosa che si può pensare è che la riforma dell’art. 18 e del mercato del lavoro con l’introduzione, tra l’altro, delle “tutele crescenti” non può essere che un regalo dell’attuale governo a Confindustria. Secondo chi scrive la riforma s’inserisce in un quadro politico più complicato e più ampio. S’inserisce in particolare nel conflitto tra le classi che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni con un continuo peggioramento delle condizioni delle classi lavoratrici.
Secondo molti studiosi keynesiani che non individuano nella flessibilità del mercato del lavoro il problema della disoccupazione, non sussiste connessione tra rigidità dei contratti e livello di occupazione. Questa visione si contrappone all’interpretazione accademica che va per la maggiore nelle università e istituzioni politiche ed economiche occidentali, secondo la quale sarebbe il problema dei salari rigidi a creare effetti sulla curva dell’offerta aggregata e quindi sull’equilibrio del mercato (per approfondire il tema basta leggere un qualunque manuale di macroeconomia moderna, come ad esempio quello scritto - e che risulta tra i più adottati - da Olivier Blanchard).
Si ritiene invece che le dinamiche che muovono la scelta di effettuare le riforme del lavoro siano di tipo politico e che i provvedimenti adottati negli anni successivi allo scoppio della crisi dei Subprime fossero tese a recuperare competitività per stimolare gli investimenti privati senza però utilizzare gli effetti moltiplicativi di una politica economica espansiva (abbiamo ingoiato infatti l’austerità imposta dalle istituzioni sovranazionali). Al contrario si cerca ancora di scaricare sui salari la ripresa della produzione attraverso un aumento della pressione fiscale, una diminuzione del reddito per via del calo degli investimenti pubblici e privati e il ricatto derivante da alti tassi di disoccupazione e riforma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Insomma la disoccupazione non rappresenterebbe proprio un fenomeno prettamente tecnico che deriva da storture delle forze che intervengono sul mercato, bensì un fattore politico come rilevava anche Michael Kalecki in questo saggio del 1943 intitolato: “Aspetti politici del pieno impiego” .
Per concludere chi scrive è convinto che la ripresa ci sarà e gli investimenti, soprattutto esteri, arriveranno (peggiorando la bilancia dei pagamenti e quindi l’indebitamento estero e, di conseguenza, il settore industriale). Ma si ripartirà da poveri, da paese in via di sviluppo e non più da grande potenza mondiale. In fondo le avvisaglie arrivano dalle crescenti acquisizioni da parte dei grandi investitori esteri (un esempio qui).
Non è certo con l’austerità, la cui efficacia è risultata nulla come nel caso della Grecia, che possiamo uscire dal guado in cui ci siamo ficcati con l’adesione ai trattati europei. Sarà la scommessa futura di una forza politica di sinistra che sappia realmente analizzare la situazione politica ed economica, ed interpretare i reali bisogni delle classi lavoratrici.
La crisi del 2008 iniziata dopo lo scoppio della bolla immobiliare statunitense in seguito al fallimento della banca Lehman Brothers, ha avuto ripercussioni, per via dell’integrazione dei mercati finanziari mondiali, anche in Europa. Chi ha subito maggiormente il colpo sono stati i paesi europei dell’area mediterranea e l’Irlanda (quelli che i media chiamavano PIIGS), ovvero i sistemi economici che si sono indebitati maggiormente con gli istituti di credito. Il boom dei debiti sovrani dei paesi come ad esempio Irlanda, Spagna e Portogallo (che prima del 2008 avevano rapporti debito/PIL bassi sotto il 60%) sono causati da un intervento pubblico dei governi nazionali per tentare di arginare l’insolvenza nel settore privato.
Infatti l’effetto combinato tra stabilità valutaria dell’area Euro, che ha reso però alcuni paesi più competitivi del nostro, e maggiore facilità di accesso al credito (leggi libera circolazione dei capitali), ha provocato l’aumento del flusso di credito che ha drogato il Pil dei paesi suddetti. Al momento dello scoppio della crisi dei Subprime le banche, anche europee, per rientrare dalle perdite dovute al crollo dei valori dei titoli che avevano come sottostanti i crediti immobiliari, hanno dovuto chiudere i rubinetti del credito (effetto sudden stop; vedi Sergio Cesaratto in “Oltre l’Austerità”). Così gli operatori economici privati si sono ritrovati indebitati e con redditi reali più bassi. Per evitare il collasso del sistema i governi dei paesi più indebitati, quelli che avevano dei deficit di bilancia dei pagamenti di parte corrente, sono intervenuti con l’aumento della spesa pubblica (casi di Irlanda, Spagna, Portogallo, Grecia, Italia e poi anche Francia).
Il paese che aveva accumulato più crediti verso l’estero, per via della maggiore propensione all’export e agli investimenti esteri in uscita, è la Germania che fino al 2010 godeva di un saldo positivo delle partite correnti superiore al 5% in termini di punti percentuali di PIL. Tale capacità teutonica è stata caratterizzata principalmente da un fattore importante, che oggi viene messo in gioco anche in Italia, ovvero quello delle riforme del lavoro. Gli aumenti di produttività del settore manifatturiero tedesco dovuti alla capacità di creare delle catene transnazionali che sfruttassero le economie di scala dovute all’integrazione produttiva e sfruttamento del basso salario dei paesi dell’est europeo, sono solo una parte del fenomeno. Bisogna anche aggiungere che tali picchi di produttività sono dovuti all’abbassamento del costo di lavoro per unità di prodotto causati principalmente dalle riforme del governo Schröder chiamate Hartz I, II, III e IV. Il Piano Hartz prende il nome dal suo ideatore, consulente del governo di allora, nonché ex dirigente Volkswagen.
Tali riforme hanno istituito una sorta di forma di “reddito minimo garantito”, grazie all’introduzione dei mini-job, con i quali più di 7,5 milioni di tedeschi sono costretti, per evitare la disoccupazione e la perdita di sussidi statali, ad accettare contratti a termine di 400 € mensili senza contributi previdenziali. Tali riforme hanno causato un calo dei salari reali in Germania, che sono passati da una media di € 31.000 circa del 1999 a € 29.800 circa nel 2010 contro aumenti di produttività e calo degli investimenti nello stesso periodo.
Quindi il modello tedesco che si vorrebbe importare in Italia non è tanto quello relativo alla capacità del settore industriale tedesco di investire in ricerca e sviluppo o di creare delle catene transazionali che accentuano un fenomeno di “centralizzazione senza concentrazione” - come l’ha definito Riccardo Bellofiore – bensì quello relativo al mercato del lavoro. Questa centralizzazione dei capitali caratterizza un nuovo modello imperialistico che influisce su un fenomeno di “mezzogiornificazione” europea, come lo ha definito in Italia Emiliano Brancaccio.
Ritorniamo alla premessa e alla dichiarazione di Marchionne di assumere circa 1000 nuovi addetti nel centro produttivo Fiat di Melfi. La prima cosa che si può pensare è che la riforma dell’art. 18 e del mercato del lavoro con l’introduzione, tra l’altro, delle “tutele crescenti” non può essere che un regalo dell’attuale governo a Confindustria. Secondo chi scrive la riforma s’inserisce in un quadro politico più complicato e più ampio. S’inserisce in particolare nel conflitto tra le classi che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni con un continuo peggioramento delle condizioni delle classi lavoratrici.
Secondo molti studiosi keynesiani che non individuano nella flessibilità del mercato del lavoro il problema della disoccupazione, non sussiste connessione tra rigidità dei contratti e livello di occupazione. Questa visione si contrappone all’interpretazione accademica che va per la maggiore nelle università e istituzioni politiche ed economiche occidentali, secondo la quale sarebbe il problema dei salari rigidi a creare effetti sulla curva dell’offerta aggregata e quindi sull’equilibrio del mercato (per approfondire il tema basta leggere un qualunque manuale di macroeconomia moderna, come ad esempio quello scritto - e che risulta tra i più adottati - da Olivier Blanchard).
Si ritiene invece che le dinamiche che muovono la scelta di effettuare le riforme del lavoro siano di tipo politico e che i provvedimenti adottati negli anni successivi allo scoppio della crisi dei Subprime fossero tese a recuperare competitività per stimolare gli investimenti privati senza però utilizzare gli effetti moltiplicativi di una politica economica espansiva (abbiamo ingoiato infatti l’austerità imposta dalle istituzioni sovranazionali). Al contrario si cerca ancora di scaricare sui salari la ripresa della produzione attraverso un aumento della pressione fiscale, una diminuzione del reddito per via del calo degli investimenti pubblici e privati e il ricatto derivante da alti tassi di disoccupazione e riforma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Insomma la disoccupazione non rappresenterebbe proprio un fenomeno prettamente tecnico che deriva da storture delle forze che intervengono sul mercato, bensì un fattore politico come rilevava anche Michael Kalecki in questo saggio del 1943 intitolato: “Aspetti politici del pieno impiego” .
Per concludere chi scrive è convinto che la ripresa ci sarà e gli investimenti, soprattutto esteri, arriveranno (peggiorando la bilancia dei pagamenti e quindi l’indebitamento estero e, di conseguenza, il settore industriale). Ma si ripartirà da poveri, da paese in via di sviluppo e non più da grande potenza mondiale. In fondo le avvisaglie arrivano dalle crescenti acquisizioni da parte dei grandi investitori esteri (un esempio qui).
Non è certo con l’austerità, la cui efficacia è risultata nulla come nel caso della Grecia, che possiamo uscire dal guado in cui ci siamo ficcati con l’adesione ai trattati europei. Sarà la scommessa futura di una forza politica di sinistra che sappia realmente analizzare la situazione politica ed economica, ed interpretare i reali bisogni delle classi lavoratrici.
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