
L'ANIMA DEGLI ANIMALI
di Giovanni Di Benedetto 13 settembre 2015
di Giovanni Di Benedetto 13 settembre 2015
Secondo le stime del dipartimento dell’agricoltura degli Stati Uniti negli ultimi dodici mesi gli apicoltori hanno perso il 42 per cento delle colonie. Le api e gli altri insetti impollinatori hanno un ruolo fondamentale negli ecosistemi e per la sicurezza alimentare statunitense. Secondo l’istituto del mare del Perù la popolazione di acciughe nelle acque peruviane è calata drasticamente: ci sono attualmente 1,45 milioni di tonnellate di acciughe, contro le dieci presenti normalmente. Il calo sarebbe dovuto in parte all’aumento della temperatura dell’acqua. Ogni anno nel Mediterraneo, denuncia BirdLife International, 25 milioni di uccelli vengono uccisi illegalmente. Le popolazioni di quaranta specie di uccelli canori migratori, compresa la tortora comune, sono in declino, e il ritmo dell’abbattimento non è sostenibile. Gli uccelli sono uccisi soprattutto per essere mangiati, venduti nei mercati e nei ristoranti, e per divertimento. Sono alcune delle rilevanti pillole di informazione che periodicamente vengono riportate dal settimanale Internazionale, a dimostrazione di quanto drammaticamente attuale sia il problema della salvaguardia dell’equilibrio dell’ecosistema planetario, della sopravvivenza delle specie viventi e con esse di quella umana. È in questo quadro segnato dalla distruzione del rapporto di armonia che lega l’uomo al contesto naturale in cui vive, le cui testimonianze sono di terribile evidenza, che si colloca l’intelligente operazione di rilettura di alcuni classici dell’antichità operata da Roberto Pomelli e Pietro Li Causi ne L’anima degli animali, testo pubblicato per i Millenni dell’Einaudi e corredato dalle bellissime e davvero suggestive illustrazioni di Alessandro Sanna (pp. 551). Nel tempo presente i rapporti sociali con la natura, sempre più mediati dai fattori della scienza e della tecnologia, sono divenuti, di fatto, il più importante oggetto di dibattito e di scontro sociale. Dalle istanze sociali che si fanno carico della lotta contro la lobby politico militare che sponsorizza il nucleare alle agenzie sociali che si occupano dei cambiamenti climatici, alle rivendicazioni di attivisti che sollevano legittimamente il problema della salvaguardia della ricchezza e varietà delle specie animali, molte delle quali pericolosamente in via di estinzione. Ecco perché si sentiva il bisogno di un’operazione di rilettura di alcune fra le più significative testimonianze provenienti dall’Antichità, da Aristotele a Porfirio, passando per gli stoici e Plutarco, nel tentativo di definire cosa separa l’umanità dall’animalità.
La riflessione parte ovviamente dal tentativo di definire analogie e differenze tra antroposfera e zoosfera per giungere ai quesiti del dibattito contemporaneo sui diritti degli animali. Le categorie utilizzate dagli autori presi in esame quasi mai combaciano e si sovrappongono con quelle che vengono adottate a partire dalla modernità. Ciò non toglie che gli interrogativi posti dagli antichi abbiano una cogente attualità: è giusto fare soffrire gli animali, sfruttarne le capacità, costringerli in condizioni di aberrante cattività per nutrirsene? Si tratta di questioni che chiamano in causa settori disciplinari molteplici e che i due curatori affrontano con un piglio storico-filologico ad un tempo scientificamente accurato ma anche agile e moderno. È per questo che la lettura del volume, che si apre con i libri VIII e IX della Historia Animalium di Aristotele e che copre un arco di tempo che va dal IV secolo a. C. al III secolo d. C, è fluida e scorrevole.
Diciamo subito che a nostro avviso tutta la cultura greca, e in particolare la filosofia delle origini, esprime una acuta consapevolezza della profonda unione che l’umano intreccia con la natura. Da Talete ad Anassimandro, da Eraclito alla filosofia eleatica sembra quasi che dietro alla questione dell’ἀρχή, il principio che governa il mondo, possa celarsi l’idea di una sostanziale vincolo ecosistemico che lega tutte le cose e tutti i viventi. Sì, è vero, con Esiodo, per la prima volta, l’umano assume una posizione di privilegio rispetto a tutte le altre forme di vita, diversificandosi radicalmente dall’animale. Tuttavia, si tratta soltanto di una tra le tante possibili rappresentazioni culturali che attraversano l’orizzonte culturale della Grecia antica. Il pensiero filosofico delle origini, da Pitagora ad Empedocle, ci parla di una strettissima unità che caratterizza il mondo del vivente, un'unica grande armonia. D’altra parte neanche in Platone sembra si possa dire che si istituisca una frattura netta e incolmabile tra la sfera dell’umano e la sfera dell’animale. Nel filosofo del Liceo l’animalità diventa una degradazione dell’umano, così come la corporeità lo è della dimensione spirituale.
E qui arriviamo ad uno snodo teorico fondamentale. I due curatori del libro sottolineano che è ad Aristotele che la tradizione ha attribuito l’onere di avere provocato una insanabile rottura tra l’uomo, l’unico dotato di facoltà razionali, e l’animale. Tuttavia riconoscono che, nei lavori dedicati alla biologia, Aristotele ha elaborato un sistema più complesso dove a contrapposizioni rigide ed univoche si predilige l’indagine orizzontale di tutte le forme di vita intese nella loro complessa ma irriducibile dignità. Qui emerge un dispositivo che sottolinea le capacità delle singole specie, le variegate forme di interazione con il contesto ecosistemico, il fine ultimo di ogni individuo animale. L’approccio metodologico dello Stagirita si fonda sulla logica finalistica del telos specifico di ogni animale: “è infatti individuando le principali tendenze innate che si può capire cosa possa costituire un danno e una privazione per ogni essere vivente e, per converso, cosa possa permettergli non solo di permanere ma anche di fiorire”. In fondo è l’idea di un’intelligenza organizzatrice immanente che sorregge, per esempio, la teorizzazione di processi di auto-organizzazione in condizioni di lontananza dall’equilibrio elaborata da Prigoggine e Stenger in quel libro capitale per la riflessione epistemologica contemporanea pubblicato agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso e che si intitolava La Nuova Alleanza.
Ciò che comunque mancherebbe in Aristotele sarebbe l’elaborazione di una teoria che guardi alla relazione di giustizia tra l’uomo e gli animali e l’idea dell’illegittimità dell’uso della violenza nei loro confronti. Saranno poi gli stoici ad avallare un approccio nei confronti degli animali che, partendo dalla esclusione degli animali dalla comunità degli esseri viventi dotati di logos, approderà ad una svalutazione delle loro facoltà mentali e ad una conseguente assenza di responsabilità morale nei confronti del loro sfruttamento. Il consumo di carne a scapito della dieta vegetariana ne sarebbe il conseguente prolungamento.
Discorso del tutto divergente è possibile riscontrare in Plutarco e soprattutto in Porfirio dove astinenza alimentare, dieta vegetariana, vincoli di solidarietà tra discepoli, autodisciplina e limitazione del tempo dedicato al sonno costituivano le regole di un vero e proprio stile di vita, quel bios filosofico che intesseva la trama del quotidiano e che è stato magistralmente illustrato da Pierre Hadot. Secondo Porfirio, scrive Pomelli, “nulla più dell’abitudine a corrompere il corpo con gli alimenti di origine animale rischia di lasciare il filosofo in preda alla propria irrazionalità”. All’arroccamento antropocentrico dei filosofi del Portico occorre rispondere accostandosi al mondo degli animali con un’ottica relativistica e convenzionalista. Fra le tante riflessioni dell’autore del De Abstinentia mi piace citare la seguente che reputo di straordinaria lungimiranza e attualità: “La Natura, che ha creato gli animali, ha fatto in modo che essi avessero bisogno di noi uomini e che noi avessimo bisogno di loro, dotando le bestie di un connaturato sentimento di giustizia nei nostri confronti e noi del medesimo sentimento nei loro riguardi”. È l’idea di una solidarietà reciproca tra antroposfera e zoosfera senza la quale non può esserci, nel vero senso della parola, salvezza.
Certo, oggi le cose sono ancora più complesse. La modernità e la scienza classica, dai loro albori, hanno preteso di elaborare leggi eterne e, riduzionisticamente, di negare la mutevolezza e la corruttibilità del divenire naturale. I parametri galileiani, baconiani, cartesiani e newtoniani legati alla quantità si sono gradualmente affermati nel corso della rivoluzione scientifica a scapito del paradigma aristotelico incardinato sul dispositivo della qualità. A questo si aggiunga l’affermazione del capitalismo come punto di svolta nel passaggio da un mondo armonico e unitario ad un mondo dicotomico, scisso e asimmetrico. Se Porfirio poteva ancora permettersi di parlare della Terra come del focolare comune degli dèi e degli uomini oggi siamo approdati ad un mondo in cui gli animali, come tutto d’altra parte, sono merce da produrre su scala industriale (si pensi al bio-tech). Ci si chiede, per esempio, se è eticamente legittimo ingabbiare gli animali per crudeli esperimenti di vivisezione o ucciderli per soddisfare le esigenze effimere della moda. A conferma del fatto che il rapporto con la natura, in effetti, non può essere separato dai rapporti di produzione e dai conflitti sociali inerenti a quei rapporti.
Resta in sospeso un ultimo aspetto della questione, colto in modo particolare da Felice Cimatti in un suo recente intervento su Alias de Il Manifesto. Tutti i pensatori in rassegna si definiscono in quanto esseri umani, sono cioè portatori di un punto di vista da cui osservare il tema del rapporto tra umano e non umano/animale che non è neutro. Il paradosso consiste nel fatto che, da Aristotele a Porfirio, ognuno dei filosofi si avvicina al proprio interlocutore per confessargli, nascostamente ma non troppo, che il problema non è solo legato alla necessità di colmare quello spazio vuoto lasciato aperto dal non umano. Ma che solo a partire dalla definizione di esso sarà anche possibile, per differenza, analogia o contrapposizione, definire cosa è l’umano. Un paradosso emblematico, se si pensa al fatto che il nostro è un contesto culturale nel quale domina la pretesa dell’oggettività imparziale e disinteressata. E in cui perfino la stessa nozione di natura è una categoria sociale. Ed in effetti, in un mondo in cui sono i rapporti capitalistici di produzione a definire il rapporto concreto tra natura e società, l’oggettività non può essere intesa come una grandezza esterna alla società. Al contrario ne è un sottoprodotto, rappresenta cioè un effetto ideologico che mira a celare, dietro la presunta parvenza dell’asettica neutralità, precise responsabilità politiche e di potere funzionali al processo di accumulazione di specifici sottosistemi della società. È questo il compito più importante che si trova a dover affrontare chi si interroga criticamente sulle logiche a cui risponde lo sfruttamento e il maltrattamento degli animali. Ecco perché a noi non resta che auspicare che sia il lettore stesso a sentirsi partecipe, sulla scorta di quanto insegnano problematicamente gli antichi, non solo dell’umanità di chi scrive ma anche della dignità, se così si può dire, di tutti gli altri esseri viventi.
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