
LA VERITA', SE CI SI METTE TUTTI INSIEME
di Giovanni Di Benedetto 5 agosto 2015
di Giovanni Di Benedetto 5 agosto 2015
“La considerazione della
verità è per un aspetto difficile, per un altro aspetto facile. Lo prova il
fatto che nessuno può raggiungerla in misura adeguata, ma gli uomini, tutti
insieme, non ne sono esclusi e anzi ciascuno può dire qualcosa intorno alla
natura delle cose, e se uno per uno non si raggiunge nessun risultato o si
raggiungono soltanto piccoli risultati, tuttavia, se ci si mette tutti insieme,
si ottiene un risultato apprezzabile”. Così scrive Aristotele nel secondo libro
della Metafisica. Certo, si sarebbe potuto riprendere la definizione
aristotelica di verità secondo la quale “vero è dire di ciò che è , che è, e di
ciò che non è, che non è”. Tuttavia, mi pare che lo spirito con cui Stefano
Caputo, che insegna Teoria dei linguaggi all’Università di Sassari, si è
cimentato nella stesura del suo bel libro pubblicato per i tipi della Laterza e
intitolato, lapidariamente, “Verità”, sia più vicino alla prima valutazione del
filosofo del Peripato più sopra rammentata. E in effetti, l’introduzione alle
teorie della verità, proposta da Caputo, sembra richiamare una grande
operazione collettiva nella quale studi, analisi e rispettivi convincimenti si
confrontano e si misurano evidenziando punti di forza ma anche debolezze che danno
luogo a legittime obiezioni Ma se il libro di Caputo aspirasse soltanto a questo, pur importante fine, potrebbe soltanto annoverarsi tra gli innumerevoli studi eruditi che circolano sull’argomento. Scrive l’autore: “ricerca e trasmissione di informazioni, cultura, conoscenza, ragionamento, convivenza pacifica e democrazia: al cuore di ognuno di questi aspetti centrali delle nostre vite incontriamo la verità” Il discorso, dunque, si fa più complesso. Ogni indagine della verità e della realtà deve fare i conti con il tema della convivenza pacifica e della democrazia. Il concetto di verità è, infatti, presente, in qualche modo, nelle pratiche democratiche nella misura in cui esse sono, o dovrebbero essere, pratiche di tipo argomentativo, e la nozione di verità costitutiva della concezione di buona argomentazione. Dunque, l’utilizzazione degli apparati teorici e degli strumenti logici e linguistici esaminati non potrà fare astrazione dal tema della politica e sarà funzionale alla realizzazione di una società democratica. Mi viene da pensare a come l’ordine del discorso dominante abbia oggi costruito una nuova metafisica, quella del monetarismo, sui principi teologici dell’austerità, del pareggio di bilancio, della sostenibilità del debito, della rigidità dei tassi di cambio e del libero mercato. Ebbene, il libro di Caputo può sorreggerci nell’individuare gli strumenti concettuali con i quali elaborare la verità della critica dell’economia politica da contrapporre alla fallacia della mistificazione capitalista.
Andiamo allora con ordine. Scrivere di verità è stata una delle massime aspirazioni di buona parte della filosofia, almeno fin dai tempi della scuola di Elea e di Parmenide. È nel secolo scorso, tuttavia, che emerge la connessione del problema della verità con i progetti di costruzione di un discorso scientifico elaborato a partire dalla rielaborazione dei fondamenti logico matematici da un lato, e, dall’altro, con la polemica contro la metafisica, considerata un tempo, diceva già Kant alla fine del Settecento, la regina di tutte le scienze. È all’interno di questa cornice che Caputo espone, in un racconto denso e teoricamente serrato, una successione argomentata e logicamente coerente delle differenti teorie della verità, da quella della corrispondenza fino alle teorie quantificazionali e del pluralismo aletico.
La versione tradizionale della teoria della corrispondenza, nello spiegare la natura della verità, si richiama alla necessità di ribadire la connessione tra parti degli enunciati ed entità della realtà extralinguistica. In essa si esprime la dipendenza della verità dalla realtà, ossia il fatto che la verità si dà a vedere nella misura in cui sussiste un accordo tra il portatore di verità e un’entità da esso rappresentata, sia essa concepita come un fatto o come un oggetto. Vanno annoverati all’interno di questa scena teorica, a vario titolo, i contributi di Moore, Russell e Wittgenstein e il suo isomorfismo strutturale.
Insieme alle teorie corrispondentiste, vengono esaminate le teorie epistemiche che si concentrano sul rapporto tra la natura della realtà e i modi in cui possiamo pervenire alla sua conoscenza, in particolar modo l’analisi coerentista e le teorie pragmatiste (Peirce e Putnam). Merito delle teorie epistemiche è quello di provare a spiegare il ruolo normativo della verità mettendolo in relazione alle credenze e ai criteri di razionalità degli esseri umani. In questo modo, la verità delle proposizioni si estende ad ambiti del discorso non fattuali, come per esempio quello morale o quello estetico.
Un posto centrale, nel libro, è occupato dal lavoro del logico polacco Alfred Tarski. Nello studio del rapporto tra le espressioni del linguaggio e i loro designati, Tarski ritiene possibile definire le condizioni di verità delle proposizioni più complesse a partire dalla definizione di verità delle proposizioni atomiche. L’esigenza da cui partiva il filosofo polacco era quella di proporre una nozione di verità scientificamente attendibile, che non precipitasse sotto il fuoco della polemica antimetafisica del neopositivismo logico e che riabilitasse, dunque, l’idea intuitiva di verità intesa come corrispondenza tra proposizioni e fatti. L’idea decisiva di Tarski è che, per evitare problemi insolubili e paradossi logici, non si possa definire in cosa consista l’essere vero in generale, ma solo in cosa consista l’essere vero per enunciati di specifici linguaggi, quei linguaggi cioè che non contengono fra le proprie espressioni la parola vero che si applica ai propri enunciati. Da qui l’esigenza di ricorrere a un metalinguaggio, cioè a un linguaggio che parli di un altro linguaggio, in cui sia possibile parlare degli asserti e dei fatti cui essi si riferiscono.
L’opera teorica e logica del filosofo polacco è all’origine di alcuni degli sviluppi più importanti della riflessione sulla verità, sviluppi che arrivano fino ai giorni nostri. Dai suoi studi, infatti, si sono originate, in direzioni contrapposte, alcune delle riflessioni sulla natura della verità più acute e interessanti: il neocorrispondentismo, da un lato, e il deflazionismo, dall’altro. Quest’ultimo, nella sua versione moderata, sposata dall’autore, o in quella radicale (nichilismo aletico), rappresenta una posizione tendente a “sgonfiare”, dunque sminuire, lo spessore metafisico della verità che sarebbe dovuto a una sorta di allucinazione linguistica. L’idea centrale del deflazionismo è che “la verità non ha una natura da scoprire, non è cioè una proprietà di cui sia possibile fornire un’analisi in termini di proprietà più fondamentali”, anche se l’espressione è vero è un predicato, ossia un’espressione con la quale attribuiamo alle cose una proprietà: la verità stessa.
In conclusione, mi sembra di poter dire che il libro, oltre ad occuparsi del problema di descrizioni scientificamente rigorose della realtà, possa indurre anche a riflettere su cosa oggi può essere il sapere (ed in particolare il sapere scientifico) e come questo può ambire a dire (e dunque cogliere) la verità. Un proposito non da poco, che Caputo pone a introduzione del proprio lavoro. Non c’è dubbio: non è possibile esaminare il problema della verità senza connetterlo al problema del soggetto portatore della verità. Insomma, è impossibile parlare della verità senza accostare logicamente questo tema alla politica, ossia al modo in cui si costruisce e si produce la verità. Qui, a mio avviso, si mostra il volto sfuggente, a cui si richiama l’autore nelle ultime pagine, della verità. L’ambiguità di ogni pretesa fondativa della verità si mostra cioè nel fatto che essa può essere intesa sia come principio di legittimazione di un determinato stato delle cose o ordinamento, sia come potente istanza critica dell’esistente e, dunque, del potere.
Ecco, penso che il merito del libro di Caputo risieda, oltre che nella straordinaria chiarezza con cui viene esposto lo stato dell’arte in temi di così complessa astrattezza logica quali quello della natura della verità, nell’evocare, fin dalle prime pagine, tutto un insieme di problemi che rimandano alle strategie con cui la critica dell’esistente si connette alla relazione tra verità e politica. E, dunque, al modo i cui la verità della critica può scardinare la realtà fattuale del potere che, troppo spesso ai giorni nostri, pretende, come teorizzava apologeticamente, ma lontano dalla verità, Francis Fukuyama, di mostrarsi al mondo nella forma della fine della storia, ossia di una realtà data e, per ciò stesso, eterna e immodificabile.
Andiamo allora con ordine. Scrivere di verità è stata una delle massime aspirazioni di buona parte della filosofia, almeno fin dai tempi della scuola di Elea e di Parmenide. È nel secolo scorso, tuttavia, che emerge la connessione del problema della verità con i progetti di costruzione di un discorso scientifico elaborato a partire dalla rielaborazione dei fondamenti logico matematici da un lato, e, dall’altro, con la polemica contro la metafisica, considerata un tempo, diceva già Kant alla fine del Settecento, la regina di tutte le scienze. È all’interno di questa cornice che Caputo espone, in un racconto denso e teoricamente serrato, una successione argomentata e logicamente coerente delle differenti teorie della verità, da quella della corrispondenza fino alle teorie quantificazionali e del pluralismo aletico.
La versione tradizionale della teoria della corrispondenza, nello spiegare la natura della verità, si richiama alla necessità di ribadire la connessione tra parti degli enunciati ed entità della realtà extralinguistica. In essa si esprime la dipendenza della verità dalla realtà, ossia il fatto che la verità si dà a vedere nella misura in cui sussiste un accordo tra il portatore di verità e un’entità da esso rappresentata, sia essa concepita come un fatto o come un oggetto. Vanno annoverati all’interno di questa scena teorica, a vario titolo, i contributi di Moore, Russell e Wittgenstein e il suo isomorfismo strutturale.
Insieme alle teorie corrispondentiste, vengono esaminate le teorie epistemiche che si concentrano sul rapporto tra la natura della realtà e i modi in cui possiamo pervenire alla sua conoscenza, in particolar modo l’analisi coerentista e le teorie pragmatiste (Peirce e Putnam). Merito delle teorie epistemiche è quello di provare a spiegare il ruolo normativo della verità mettendolo in relazione alle credenze e ai criteri di razionalità degli esseri umani. In questo modo, la verità delle proposizioni si estende ad ambiti del discorso non fattuali, come per esempio quello morale o quello estetico.
Un posto centrale, nel libro, è occupato dal lavoro del logico polacco Alfred Tarski. Nello studio del rapporto tra le espressioni del linguaggio e i loro designati, Tarski ritiene possibile definire le condizioni di verità delle proposizioni più complesse a partire dalla definizione di verità delle proposizioni atomiche. L’esigenza da cui partiva il filosofo polacco era quella di proporre una nozione di verità scientificamente attendibile, che non precipitasse sotto il fuoco della polemica antimetafisica del neopositivismo logico e che riabilitasse, dunque, l’idea intuitiva di verità intesa come corrispondenza tra proposizioni e fatti. L’idea decisiva di Tarski è che, per evitare problemi insolubili e paradossi logici, non si possa definire in cosa consista l’essere vero in generale, ma solo in cosa consista l’essere vero per enunciati di specifici linguaggi, quei linguaggi cioè che non contengono fra le proprie espressioni la parola vero che si applica ai propri enunciati. Da qui l’esigenza di ricorrere a un metalinguaggio, cioè a un linguaggio che parli di un altro linguaggio, in cui sia possibile parlare degli asserti e dei fatti cui essi si riferiscono.
L’opera teorica e logica del filosofo polacco è all’origine di alcuni degli sviluppi più importanti della riflessione sulla verità, sviluppi che arrivano fino ai giorni nostri. Dai suoi studi, infatti, si sono originate, in direzioni contrapposte, alcune delle riflessioni sulla natura della verità più acute e interessanti: il neocorrispondentismo, da un lato, e il deflazionismo, dall’altro. Quest’ultimo, nella sua versione moderata, sposata dall’autore, o in quella radicale (nichilismo aletico), rappresenta una posizione tendente a “sgonfiare”, dunque sminuire, lo spessore metafisico della verità che sarebbe dovuto a una sorta di allucinazione linguistica. L’idea centrale del deflazionismo è che “la verità non ha una natura da scoprire, non è cioè una proprietà di cui sia possibile fornire un’analisi in termini di proprietà più fondamentali”, anche se l’espressione è vero è un predicato, ossia un’espressione con la quale attribuiamo alle cose una proprietà: la verità stessa.
In conclusione, mi sembra di poter dire che il libro, oltre ad occuparsi del problema di descrizioni scientificamente rigorose della realtà, possa indurre anche a riflettere su cosa oggi può essere il sapere (ed in particolare il sapere scientifico) e come questo può ambire a dire (e dunque cogliere) la verità. Un proposito non da poco, che Caputo pone a introduzione del proprio lavoro. Non c’è dubbio: non è possibile esaminare il problema della verità senza connetterlo al problema del soggetto portatore della verità. Insomma, è impossibile parlare della verità senza accostare logicamente questo tema alla politica, ossia al modo in cui si costruisce e si produce la verità. Qui, a mio avviso, si mostra il volto sfuggente, a cui si richiama l’autore nelle ultime pagine, della verità. L’ambiguità di ogni pretesa fondativa della verità si mostra cioè nel fatto che essa può essere intesa sia come principio di legittimazione di un determinato stato delle cose o ordinamento, sia come potente istanza critica dell’esistente e, dunque, del potere.
Ecco, penso che il merito del libro di Caputo risieda, oltre che nella straordinaria chiarezza con cui viene esposto lo stato dell’arte in temi di così complessa astrattezza logica quali quello della natura della verità, nell’evocare, fin dalle prime pagine, tutto un insieme di problemi che rimandano alle strategie con cui la critica dell’esistente si connette alla relazione tra verità e politica. E, dunque, al modo i cui la verità della critica può scardinare la realtà fattuale del potere che, troppo spesso ai giorni nostri, pretende, come teorizzava apologeticamente, ma lontano dalla verità, Francis Fukuyama, di mostrarsi al mondo nella forma della fine della storia, ossia di una realtà data e, per ciò stesso, eterna e immodificabile.
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