
“Finita, è finita, sta per finire, sta forse per finire”
Samuel Beckett, Finale di partita
Quella dell’insegnante è una figura professionale e sociale che spesso il cinema e la letteratura hanno mostrato nel suo aspetto patetico o ridicolo, anche laddove le intenzioni erano piuttosto di renderle un omaggio ed esprimere rispetto e perfino riconoscenza per la funzione fondamentale di cui si fa carico.
Due sono i prototipi di questo ambivalente atteggiamento culturale che è insieme satirico e apologetico: il degradato e biasimevole professor Rath e il rassegnato e lodevole Mr. Chips. Cioè un’icona del prestigio autorevole che subisce una radicale umiliazione e un’immagine della subordinazione edificante che alla fine assurge a una gloria postuma.
Tragicamente ridicolo, il primo, ovvero il personaggio del professor Rath ne L’angelo azzurro (Der blaue Engel, 1930) di Josef von Sternberg, travolto e distrutto fino all’ignominia dalla passione morbosa nei confronti della femme fatale Lola interpretata da Marlene Dietrich.
Una figura emblematica, quella di Rath (che di nome fa Immanuel, come Kant, ma a cui gli studenti con disprezzo hanno attribuito il nomignolo di “Unrat”, cioè sporcizia). La sua indecorosa parabola muove a pietà ma soprattutto a riprovazione.
Più patetica invece la vicenda di Addio, Mr. Chips! (Goodbye, Mr. Chips, 1939) di Sam Wood (tratto dall’omonimo romanzo di James Hilton). La storia del professor Charles Chipping, eternamente frustrato nelle sue ambizioni di carriera e imprigionato in una dimensione per lui troppo angusta, commuove e intenerisce, ma in fondo conferma i luoghi comuni sul sacrificio del docente, ancorché ricompensato dall’affetto e dalla stima dei suoi discepoli, e sul suo essere una sorta di missionario laico relegato in un ruolo oscuro e mediocre ma di primaria importanza per la collettività.
In entrambi i casi si tratta di esempi drammatici, di cui talora si può ridere come dell’anziana signora imbellettata di cui parla Pirandello ne L’umorismo, cioè per un superficiale “avvertimento del contrario”.
Insegnare è quindi un mestiere che in qualche modo fa sorridere o suscita un senso di commiserazione, una pietas cui tuttavia non sfugge quanto di buffo e di grottesco connota la vita scolastica.
Silhouette fragilissima, anche e forse soprattutto nel suo aspetto severo e autoritario, il docente è sovente descritto (con veritiera approssimazione) come chi si trova pericolosamente in bilico, sull’orlo di un esaurimento nervoso, costantemente sul punto di soccombere, sopraffatto dagli alunni o dalla ottusità dell’istituzione o infine dalla ripetitività ossessiva delle sue mansioni, ed è quindi sempre alla ricerca di strategie di sopravvivenza.
Il suo compito pertanto non viene percepito come un vero lavoro, ma come una specie di tragicomica parodia.
In Timidezza e dignità (1994) di Dag Solstad (*), una delle più significative voci della letteratura norvegese, incontriamo una di queste figure di docenti devastati dalla loro fatale marginalità.
Si tratta di Elias Rukla, un cinquantenne “leggermente alcolizzato” che per metà della sua vita ha insegnato Letteratura e Storia nelle scuole norvegesi. Lo vediamo, all’inizio del romanzo, mentre si accinge a tenere la sua lezione in un Istituto Superiore di Fagerborg, a Oslo, davanti a una classe silenziosamente ostile.
“Era da loro come gruppo che percepiva quella massiccia avversione che emanava dai loro corpi. Presi individualmente potevano anche risultare simpatici, ma nell’insieme, disposti come adesso nei loro banchi, costituivano un’ostilità strutturale, rivolta contro di lui e contro tutto ciò che lui rappresentava”
Tuttavia Elias non cerca di aggirare l’ostacolo con accorgimenti conciliativi o mediazioni di sorta, ma inizia la sua consueta lezione più o meno frontale su L’anitra selvatica di Henrik Ibsen.
Da un punto di vista didattico, direbbero gli esperti di pedagogia, sta già compiendo un primo errore (che avrà, come vedremo, conseguenze fatali). Errore che consiste sostanzialmente nella sottovalutazione del problema comunicativo e nella rinuncia al dialogo. Tuttavia ogni altro approccio sarebbe stato ugualmente fallimentare, giacché il blocco comunicativo non è una impasse particolare e circoscritta tra un insegnante vecchio stile e la sua classe, bensì una corto circuito generazionale che corrisponde a un mutamento culturale profondo e collettivo, cioè a un sentimento che è divenuto sociale ed epocale.
La discrasia è quindi soprattutto crono-antropologica: due fasi storiche della cultura norvegese (ed europea) si confrontano in quell’aula gravida d’insofferenza (reciproca) e avvertono l’impossibilità assoluta dello scambio di esperienze e di opinioni.
È una situazione di anacronismo che le due parti vivono come assurda e insopportabile. Non si tratta di semplice noia o di normalissima indolenza da parte degli alunni. È avvenuta una rottura più profonda.
Nel corso dei suoi venticinque anni di carriera il professor Elias Rukla ha visto cambiare la scuola e la società di cui essa fa parte, ma non si è reso conto pienamente di quanto il suo mandato professionale e intellettuale sia divenuto nel frattempo irreparabilmente obsoleto.
Egli finora ha ritenuto che la sua missione sociale fosse quella di conservare e trasmettere di generazione in generazione quei valori culturali su cui si fondano la civiltà e il sentimento nazionali, che ne costituiscono il patrimonio spirituale. Valori artistici, estetici, ma anche etici e politici, che si riferiscono a un più ampio panorama culturale, ossia la civiltà occidentale, di cui concorrono a definire il profilo.
Ovviamente si tratta di un patrimonio in evoluzione, necessariamente problematico e pertanto trasmissibile solo criticamente.
Ecco perché l’atto della mediazione generazionale di tale lascito, ancorché condiviso, non può essere meccanico o neutrale, ma deve essere il frutto di un dibattito, di una relazione, di un processo di opposizione e di resistenza.
Anche Elias, da giovane, ha contestato la sua stessa formazione culturale, soprattutto attraverso la chiave di lettura del marxismo, ma ha pure accettato di prendere in consegna i capisaldi della grande letteratura, cioè del canone norvegese, e di riproporli a sua volta, passando il testimone alle nuove generazioni.
Tale continuità dialettica, tra rielaborazione e conservazione, è ormai venuta meno. Per fatale consunzione, in primo luogo. Ma soprattutto per uno sconvolgente mutamento antropologico.
Beninteso, anche prima, quando Elias frequentava il liceo o nel corso del suo insegnamento “fino a qualche anno prima”, lo studio di Ibsen in “soporifere ore di lezione” causava una fisiologica noia. E non solo negli alunni.
Lui stesso, il sapiente professor Rukla, si è talora sentito intrappolato in una routine soffocante. Ma adesso i suoi studenti dimostrano un’acredine diversa, un astio che va oltre l’uggia o lo stesso tedio: “Si sentivano né più né meno che molestati”.
Nessuno dileggia o polemizza, come in fondo sarebbe auspicabile. Nessuno si esibisce in “qualche trovata bambinesca” per suscitare ilarità. Nemmeno le battute di un umorismo goliardico scuotono il torpore rancoroso della classe.
Da parte sua, anche Elias si rifiuta di svilire con qualche lusinga ipocrita Ibsen e la sua lezione.
“Ah, se solo l’insegnante fosse riuscito a dire: Non è vero che Ibsen è un vecchio classico polveroso. La verità è che è emozionante quasi come un giallo. E così avrebbe potuto spiegare in che modo Ibsen era emozionante quasi come un giallo. Così avrebbe dato loro qualcosa che potesse riguardarli”.
Elias giustamente non cede a questa pusillanime e mistificante ruffianeria. Ma cade nell’errore opposto, che gli è ferale.
Nel tentativo di sfuggire alla sensazione claustrofobica del suo ruolo ciclico, vorrebbe attirare l’attenzione dei ragazzi su un personaggio del tutto secondario del dramma L’anitra selvatica, il dottor Relling, e sulle remote ragioni psicologiche d’una sua sibillina battuta.
In realtà la curiosità e la scoperta sono tutte e solo sue. Per di più egli sa bene che il suo lavoro non consiste nella produzione di “interpretazioni ispirate sulle grandi opere letterarie della cultura nazionale”, bensì soltanto nel “formare quegli allievi immaturi e portarli a capire alcuni fondamenti su cui si basano questa nazione e questa civiltà, e di cui sia lui, l’insegnante adulto, sia loro, i giovani allievi acerbi e confusi, facevano parte”.
Ma tale comunione, già assai labile, si spezza del tutto allorché l’acribia ermeneutica del professore mette a dura prova la pazienza residua dei suoi alunni, che infine sbottano in un “sospiro sconsolato” talmente forte ed esplicito che pare “un urlo selvaggio”, un liberatorio e “spudorato” ruggito di insofferenza e di incompatibilità.
Siamo a un passo dalla catastrofe. Elias comunque sa ancora rendersi conto delle vere motivazioni dei suoi alunni:
“Perché era al di là di ogni dubbio, in fin dei conti, considerate tutte le circostanze, che erano loro ad avere ragione e lui ad avere torto. Il suo insegnamento non era all’altezza, perché i presupposti su cui si basava non erano validi per loro, ed era solo questione di tempo, temeva, perché fosse evidente a tutti che la sua mansione, già oggi abbastanza penosa, sarebbe diventata del tutto superflua”.
Elias, ha una chiara visione del proprio destino professionale, del tramonto ineluttabile del proprio sistema di riferimenti valoriali.
Dag Solstad lo porta impietosamente fino al punto di non ritorno in cui l’insegnante, trascinato da un senso di iraconda impotenza, offenderà gli alunni e distruggerà con ridicola veemenza il suo ombrello sbattendolo ripetutamente sul bordo di una fontana, forse sotto lo sguardo allibito dei suoi superiori.
La tragedia si è consumata. Elias ha dato spettacolo della sua inettitudine, che non è una tabe individuale, come in certa letteratura dei primi del Novecento, ma il sintomo di una dimensione storica della crisi contemporanea.
La sua carriera è compromessa. Anzi, sicuramente verrà licenziato e l’intera sua esistenza andrà a rotoli. “È terribile, ma non c’è via di ritorno” sono le sue ultime lapidarie parole con cui si chiude un romanzo che consiste nello scorticante esame di coscienza di Elias, nello scandaglio interiore con cui egli riconsidera i fatti della sua vita, i suoi rapporti di amicizia, il suo matrimonio, i suoi studi, le sue esperienze politiche.
Un flusso amaro e disilluso di ricordi e riflessioni che è pure un ripensamento tormentato sulla stessa democrazia, ormai ridotta a un “pantano” in cui tutto s’infanga, compresa l’arte e la vita.
Con i suoi abiti lisi e il suo modesto stipendio, il professor Rukla sembrava destinato all’opaco decoro di Chips e invece gli tocca la deriva disonorevole di Rath. Ma il suo scandalo non è l’attrazione autodistruttiva per la virago conturbante, la sirenica Lulu, bensì l’amore ormai sterile per la letteratura, la pretesa di socializzare con i suoi alunni l’analisi esegetica, laddove essi tutt’al più avrebbero tollerato una mera acquisizione acritica di nozioni elementari.
Oltre un ventennio ci separa ormai da questo libro che tuttavia esprime in modo esemplare la crisi d’identità dell’intellettuale, in generale, e dell’insegnante (che ne è una controfigura e a volte una caricatura) in particolare, mettendo in discussione l’idea stessa di cultura in un’epoca in cui ogni messaggio rivela finalità pubblicitarie.
Come l’intellettuale, e perfino in maniera più acuta, anche l’insegnante (di cui Elias Rukla è l’emblematica raffigurazione) è un escluso “socialmente fuori gioco” che non riesce “più a stare dietro al suo tempo” e sperimenta sulla sua pelle una “sconfitta senza fine”.
Si è illuso di poter dar voce, continuità e perfino stabilità a quel sistema o canone di opere e di autori in cui consiste “l’autocoscienza della nazione”, e ora, nel generale oblio, scopre di essere “diventato trasparente” per i suoi interlocutori naturali e per la società tutta: una specie di fantasma ammutolito, che dai margini della sua inesistenza non ha più nulla da dire al mondo dei vivi, a sua volta incapace di dialogare e finanche di vivere.
E niente di cui parlare ai suoi stessi colleghi, sprofondati anch’essi nel vuoto inespressivo della loro inessenzialità.
Il tempo delle utopie è tramontato. La lezione è finita.
Con un pessimismo radicale ma assolutamente attendibile, Dag Solstad ci mostra col suo apologo antiretorico e anticonsolatorio un aspetto della scuola che spesso viene taciuto o edulcorato. Cioè il suo essere un luogo di costrizione e compressione per tutti quelli che vi operano. Un luogo di incomprensione e rifiuti, ma anche di repressione di malumori e talora furori, di implosioni a orologeria, di sadici meccanismi di controllo e d’incontrollabile follia.
(*) Dag Solstad, Timidezza e dignità (Genanse og verdighet) Milano, Iperborea, 2010, traduzione di Massimo Ciaravolo.
Samuel Beckett, Finale di partita
Quella dell’insegnante è una figura professionale e sociale che spesso il cinema e la letteratura hanno mostrato nel suo aspetto patetico o ridicolo, anche laddove le intenzioni erano piuttosto di renderle un omaggio ed esprimere rispetto e perfino riconoscenza per la funzione fondamentale di cui si fa carico.
Due sono i prototipi di questo ambivalente atteggiamento culturale che è insieme satirico e apologetico: il degradato e biasimevole professor Rath e il rassegnato e lodevole Mr. Chips. Cioè un’icona del prestigio autorevole che subisce una radicale umiliazione e un’immagine della subordinazione edificante che alla fine assurge a una gloria postuma.
Tragicamente ridicolo, il primo, ovvero il personaggio del professor Rath ne L’angelo azzurro (Der blaue Engel, 1930) di Josef von Sternberg, travolto e distrutto fino all’ignominia dalla passione morbosa nei confronti della femme fatale Lola interpretata da Marlene Dietrich.
Una figura emblematica, quella di Rath (che di nome fa Immanuel, come Kant, ma a cui gli studenti con disprezzo hanno attribuito il nomignolo di “Unrat”, cioè sporcizia). La sua indecorosa parabola muove a pietà ma soprattutto a riprovazione.
Più patetica invece la vicenda di Addio, Mr. Chips! (Goodbye, Mr. Chips, 1939) di Sam Wood (tratto dall’omonimo romanzo di James Hilton). La storia del professor Charles Chipping, eternamente frustrato nelle sue ambizioni di carriera e imprigionato in una dimensione per lui troppo angusta, commuove e intenerisce, ma in fondo conferma i luoghi comuni sul sacrificio del docente, ancorché ricompensato dall’affetto e dalla stima dei suoi discepoli, e sul suo essere una sorta di missionario laico relegato in un ruolo oscuro e mediocre ma di primaria importanza per la collettività.
In entrambi i casi si tratta di esempi drammatici, di cui talora si può ridere come dell’anziana signora imbellettata di cui parla Pirandello ne L’umorismo, cioè per un superficiale “avvertimento del contrario”.
Insegnare è quindi un mestiere che in qualche modo fa sorridere o suscita un senso di commiserazione, una pietas cui tuttavia non sfugge quanto di buffo e di grottesco connota la vita scolastica.
Silhouette fragilissima, anche e forse soprattutto nel suo aspetto severo e autoritario, il docente è sovente descritto (con veritiera approssimazione) come chi si trova pericolosamente in bilico, sull’orlo di un esaurimento nervoso, costantemente sul punto di soccombere, sopraffatto dagli alunni o dalla ottusità dell’istituzione o infine dalla ripetitività ossessiva delle sue mansioni, ed è quindi sempre alla ricerca di strategie di sopravvivenza.
Il suo compito pertanto non viene percepito come un vero lavoro, ma come una specie di tragicomica parodia.
In Timidezza e dignità (1994) di Dag Solstad (*), una delle più significative voci della letteratura norvegese, incontriamo una di queste figure di docenti devastati dalla loro fatale marginalità.
Si tratta di Elias Rukla, un cinquantenne “leggermente alcolizzato” che per metà della sua vita ha insegnato Letteratura e Storia nelle scuole norvegesi. Lo vediamo, all’inizio del romanzo, mentre si accinge a tenere la sua lezione in un Istituto Superiore di Fagerborg, a Oslo, davanti a una classe silenziosamente ostile.
“Era da loro come gruppo che percepiva quella massiccia avversione che emanava dai loro corpi. Presi individualmente potevano anche risultare simpatici, ma nell’insieme, disposti come adesso nei loro banchi, costituivano un’ostilità strutturale, rivolta contro di lui e contro tutto ciò che lui rappresentava”
Tuttavia Elias non cerca di aggirare l’ostacolo con accorgimenti conciliativi o mediazioni di sorta, ma inizia la sua consueta lezione più o meno frontale su L’anitra selvatica di Henrik Ibsen.
Da un punto di vista didattico, direbbero gli esperti di pedagogia, sta già compiendo un primo errore (che avrà, come vedremo, conseguenze fatali). Errore che consiste sostanzialmente nella sottovalutazione del problema comunicativo e nella rinuncia al dialogo. Tuttavia ogni altro approccio sarebbe stato ugualmente fallimentare, giacché il blocco comunicativo non è una impasse particolare e circoscritta tra un insegnante vecchio stile e la sua classe, bensì una corto circuito generazionale che corrisponde a un mutamento culturale profondo e collettivo, cioè a un sentimento che è divenuto sociale ed epocale.
La discrasia è quindi soprattutto crono-antropologica: due fasi storiche della cultura norvegese (ed europea) si confrontano in quell’aula gravida d’insofferenza (reciproca) e avvertono l’impossibilità assoluta dello scambio di esperienze e di opinioni.
È una situazione di anacronismo che le due parti vivono come assurda e insopportabile. Non si tratta di semplice noia o di normalissima indolenza da parte degli alunni. È avvenuta una rottura più profonda.
Nel corso dei suoi venticinque anni di carriera il professor Elias Rukla ha visto cambiare la scuola e la società di cui essa fa parte, ma non si è reso conto pienamente di quanto il suo mandato professionale e intellettuale sia divenuto nel frattempo irreparabilmente obsoleto.
Egli finora ha ritenuto che la sua missione sociale fosse quella di conservare e trasmettere di generazione in generazione quei valori culturali su cui si fondano la civiltà e il sentimento nazionali, che ne costituiscono il patrimonio spirituale. Valori artistici, estetici, ma anche etici e politici, che si riferiscono a un più ampio panorama culturale, ossia la civiltà occidentale, di cui concorrono a definire il profilo.
Ovviamente si tratta di un patrimonio in evoluzione, necessariamente problematico e pertanto trasmissibile solo criticamente.
Ecco perché l’atto della mediazione generazionale di tale lascito, ancorché condiviso, non può essere meccanico o neutrale, ma deve essere il frutto di un dibattito, di una relazione, di un processo di opposizione e di resistenza.
Anche Elias, da giovane, ha contestato la sua stessa formazione culturale, soprattutto attraverso la chiave di lettura del marxismo, ma ha pure accettato di prendere in consegna i capisaldi della grande letteratura, cioè del canone norvegese, e di riproporli a sua volta, passando il testimone alle nuove generazioni.
Tale continuità dialettica, tra rielaborazione e conservazione, è ormai venuta meno. Per fatale consunzione, in primo luogo. Ma soprattutto per uno sconvolgente mutamento antropologico.
Beninteso, anche prima, quando Elias frequentava il liceo o nel corso del suo insegnamento “fino a qualche anno prima”, lo studio di Ibsen in “soporifere ore di lezione” causava una fisiologica noia. E non solo negli alunni.
Lui stesso, il sapiente professor Rukla, si è talora sentito intrappolato in una routine soffocante. Ma adesso i suoi studenti dimostrano un’acredine diversa, un astio che va oltre l’uggia o lo stesso tedio: “Si sentivano né più né meno che molestati”.
Nessuno dileggia o polemizza, come in fondo sarebbe auspicabile. Nessuno si esibisce in “qualche trovata bambinesca” per suscitare ilarità. Nemmeno le battute di un umorismo goliardico scuotono il torpore rancoroso della classe.
Da parte sua, anche Elias si rifiuta di svilire con qualche lusinga ipocrita Ibsen e la sua lezione.
“Ah, se solo l’insegnante fosse riuscito a dire: Non è vero che Ibsen è un vecchio classico polveroso. La verità è che è emozionante quasi come un giallo. E così avrebbe potuto spiegare in che modo Ibsen era emozionante quasi come un giallo. Così avrebbe dato loro qualcosa che potesse riguardarli”.
Elias giustamente non cede a questa pusillanime e mistificante ruffianeria. Ma cade nell’errore opposto, che gli è ferale.
Nel tentativo di sfuggire alla sensazione claustrofobica del suo ruolo ciclico, vorrebbe attirare l’attenzione dei ragazzi su un personaggio del tutto secondario del dramma L’anitra selvatica, il dottor Relling, e sulle remote ragioni psicologiche d’una sua sibillina battuta.
In realtà la curiosità e la scoperta sono tutte e solo sue. Per di più egli sa bene che il suo lavoro non consiste nella produzione di “interpretazioni ispirate sulle grandi opere letterarie della cultura nazionale”, bensì soltanto nel “formare quegli allievi immaturi e portarli a capire alcuni fondamenti su cui si basano questa nazione e questa civiltà, e di cui sia lui, l’insegnante adulto, sia loro, i giovani allievi acerbi e confusi, facevano parte”.
Ma tale comunione, già assai labile, si spezza del tutto allorché l’acribia ermeneutica del professore mette a dura prova la pazienza residua dei suoi alunni, che infine sbottano in un “sospiro sconsolato” talmente forte ed esplicito che pare “un urlo selvaggio”, un liberatorio e “spudorato” ruggito di insofferenza e di incompatibilità.
Siamo a un passo dalla catastrofe. Elias comunque sa ancora rendersi conto delle vere motivazioni dei suoi alunni:
“Perché era al di là di ogni dubbio, in fin dei conti, considerate tutte le circostanze, che erano loro ad avere ragione e lui ad avere torto. Il suo insegnamento non era all’altezza, perché i presupposti su cui si basava non erano validi per loro, ed era solo questione di tempo, temeva, perché fosse evidente a tutti che la sua mansione, già oggi abbastanza penosa, sarebbe diventata del tutto superflua”.
Elias, ha una chiara visione del proprio destino professionale, del tramonto ineluttabile del proprio sistema di riferimenti valoriali.
Dag Solstad lo porta impietosamente fino al punto di non ritorno in cui l’insegnante, trascinato da un senso di iraconda impotenza, offenderà gli alunni e distruggerà con ridicola veemenza il suo ombrello sbattendolo ripetutamente sul bordo di una fontana, forse sotto lo sguardo allibito dei suoi superiori.
La tragedia si è consumata. Elias ha dato spettacolo della sua inettitudine, che non è una tabe individuale, come in certa letteratura dei primi del Novecento, ma il sintomo di una dimensione storica della crisi contemporanea.
La sua carriera è compromessa. Anzi, sicuramente verrà licenziato e l’intera sua esistenza andrà a rotoli. “È terribile, ma non c’è via di ritorno” sono le sue ultime lapidarie parole con cui si chiude un romanzo che consiste nello scorticante esame di coscienza di Elias, nello scandaglio interiore con cui egli riconsidera i fatti della sua vita, i suoi rapporti di amicizia, il suo matrimonio, i suoi studi, le sue esperienze politiche.
Un flusso amaro e disilluso di ricordi e riflessioni che è pure un ripensamento tormentato sulla stessa democrazia, ormai ridotta a un “pantano” in cui tutto s’infanga, compresa l’arte e la vita.
Con i suoi abiti lisi e il suo modesto stipendio, il professor Rukla sembrava destinato all’opaco decoro di Chips e invece gli tocca la deriva disonorevole di Rath. Ma il suo scandalo non è l’attrazione autodistruttiva per la virago conturbante, la sirenica Lulu, bensì l’amore ormai sterile per la letteratura, la pretesa di socializzare con i suoi alunni l’analisi esegetica, laddove essi tutt’al più avrebbero tollerato una mera acquisizione acritica di nozioni elementari.
Oltre un ventennio ci separa ormai da questo libro che tuttavia esprime in modo esemplare la crisi d’identità dell’intellettuale, in generale, e dell’insegnante (che ne è una controfigura e a volte una caricatura) in particolare, mettendo in discussione l’idea stessa di cultura in un’epoca in cui ogni messaggio rivela finalità pubblicitarie.
Come l’intellettuale, e perfino in maniera più acuta, anche l’insegnante (di cui Elias Rukla è l’emblematica raffigurazione) è un escluso “socialmente fuori gioco” che non riesce “più a stare dietro al suo tempo” e sperimenta sulla sua pelle una “sconfitta senza fine”.
Si è illuso di poter dar voce, continuità e perfino stabilità a quel sistema o canone di opere e di autori in cui consiste “l’autocoscienza della nazione”, e ora, nel generale oblio, scopre di essere “diventato trasparente” per i suoi interlocutori naturali e per la società tutta: una specie di fantasma ammutolito, che dai margini della sua inesistenza non ha più nulla da dire al mondo dei vivi, a sua volta incapace di dialogare e finanche di vivere.
E niente di cui parlare ai suoi stessi colleghi, sprofondati anch’essi nel vuoto inespressivo della loro inessenzialità.
Il tempo delle utopie è tramontato. La lezione è finita.
Con un pessimismo radicale ma assolutamente attendibile, Dag Solstad ci mostra col suo apologo antiretorico e anticonsolatorio un aspetto della scuola che spesso viene taciuto o edulcorato. Cioè il suo essere un luogo di costrizione e compressione per tutti quelli che vi operano. Un luogo di incomprensione e rifiuti, ma anche di repressione di malumori e talora furori, di implosioni a orologeria, di sadici meccanismi di controllo e d’incontrollabile follia.
(*) Dag Solstad, Timidezza e dignità (Genanse og verdighet) Milano, Iperborea, 2010, traduzione di Massimo Ciaravolo.
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