
IN TEORIA
LA GRANDE INVERSIONE:
DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
di Giordano Sivini 25 gennaio 2019
(seconda parte, qui la prima parte)
LA GRANDE INVERSIONE:
DALLA VALORIZZAZIONE ALLA FINANZIARIZZAZIONE
di Giordano Sivini 25 gennaio 2019
(seconda parte, qui la prima parte)
Le letture dell’inversione
Arrighi prevede a livello mondiale un quadro inedito di rapporti sociali retti da una competizione tra capitali controllata da un nuovo Stato egemone. La sua analisi riguarda l’evoluzione del capitalismo, segnata da ‘agenti capitalisti’ che si arricchiscono attraverso la produzione materiale o l’investimento finanziario dove più conviene, e da Stati che in situazioni di crisi fiscale si fanno concorrenza per accaparrarsi liquidità. Storicamente si susseguono quattro cicli, ciascuno segnato dall’egemonia di uno Stato, nei quali ad una fase di espansione materiale segue una fase di espansione finanziaria; il termine ‘inversione’, citato da Braudel[1], definisce il passaggio da una fase all’altra. Nella fase finanziaria di ogni ciclo lo scoppio in sequenza di bolle speculative segna l’approssimarsi della crisi finale dello Stato egemone, e la liquidità si rivolge a Stati emergenti che la orientano verso nuovi orizzonti produttivi, superando i limiti del sistema precedente; distruggendo e redistribuendo ricchezza in termini materiali e monetari.
Pubblicando nel 1994 l’edizione inglese de Il Lungo Ventesimo Secolo, Arrighi sostiene che la conclusione dell’ultima fase finanziaria preannuncia la fine della storia del capitalismo. La sfera di azione spaziale e funzionale dei capitali produttivi è infatti esaurita; la liquidità mondiale che deve essere mobilitata per ristrutturare nuovi rapporti politici, produttivi e sociali, è in gran parte nelle mani degli Stati dell’Oriente asiatico; più tardi - nel 2007 con Adam Smith a Pechino[2] - è alla Cina che guarda, emersa nel frattempo come potenza finanziaria ed economica. L’ipotesi è che l’egemonia che si sta profilando, diversamente da quelle precedenti, potrebbe basarsi su un progetto di sostenibilità umana e ambientale condiviso da un sistema di Stati capaci di condizionare il mercato in cui si muovono i capitali. Le premesse per il realizzarsi di questa prospettiva stanno nei principi teorici di Adam Smith che suggeriscono di contenere le tendenze predatorie dei capitalisti, e nella storia dello sviluppo ‘industrioso’ della Cina e dell’Oriente asiatico.
Smith guarda ad una società divisa in tre ordini, dipendenti rispettivamente dalla rendita, dal salario e dal profitto. I primi due sostengono i consumi e spingono il mercato ad allargarsi aumentando la divisione sociale del lavoro, da cui dipende la crescita della produttività e del benessere economico. Questo processo virtuoso incontra limiti nei capitalisti, che tendono a realizzare profitti comprimendo i salari. A questo deve ovviare “uno Stato forte, capace di creare e riprodurre le condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso, capace di servirsene come di un efficace strumento di governo e capace di imporgli delle regole intervenendo attivamente per limitarne le conseguenze socialmente o politicamente negative”[3].
All’egemonia statunitense in crisi potrebbe seguire, sostiene Arrighi, una world-market society, in cui l’economia sarebbe regolata da meccanismi di mercato sottoposti al controllo degli Stati, tornando all’assetto dei cicli precedenti in cui le imprese capitalistiche “erano incassate in un sistema di Stati”[4]. L’intervento non riguarderebbe la proprietà e il controllo dei mezzi di produzione, come nella tradizione socialista, ma gli scambi di mercato, in modo da dare più potere al lavoro e meno al capitale. La world-market society, ponendo limiti ai capitali, segnerebbe l’esaurimento della storia del capitalismo, e con essa verrebbe anche posta fine alla ripetitività, ciclo per ciclo, dell’alternanza tra fasi di espansione economica e fasi di espansione finanziaria. Nell’inversione finale la liquidità verrebbe indirizzata alla realizzazione di un mondo diversamente produttivo.
David Harvey non fa, come Arrighi, riferimento al capitalismo ma al movimento del capitale in quanto suo motore. In Marx e la follia del capitale[5] constata che “il capitale produttivo di interesse è diventato una potente e indipendente forza trainante dell’accumulazione”[6]. E’ una situazione che negli anni ’70 aveva escluso potesse mai verificarsi: “Il potere del capitale finanziario (quale che sia la definizione di questo blocco istituzionalizzato) - aveva scritto - è necessariamente un potere circoscritto, e non può mai diventare smisurato o totalmente egemonico”[7]. La riproducibilità senza fine del capitale, allora assunta a fondamento teorico, non sembra tuttavia minacciata dall’inversione, se è una crisi come altre verificatesi in passato. Ogni crisi che blocca il movimento del capitale viene superata dalla svalutazione di ciò che lo blocca, così che il capitale “reinventa se stesso e si tramuta in qualcos’altro, che può essere meglio o peggio per le persone”[8]. Le sue instabilità “vengono affrontate, riplasmate e reingegnerizzate per creare una nuova versione di quel che è il capitalismo”[9].
Questa certezza viene intaccata negli anni recenti da alcune tendenze: da un lato la caduta del tasso di profitto e la riduzione del valore prodotta dalla contrazione del lavoro che lo produce: dall’altro la massimizzazione del profitto monetario senza produzione di valore e plusvalore. “Combinate (e quel che sta succedendo mostra che entrambe le tendenze sono percepibili), potrebbero essere catastrofiche”[10].
Negli anni ’70 Harvey aveva escluso che in Marx ci fossero fondamenti per sostenere la tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto. In Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, riconsidera però il peso delle controtendenze. “Non è chiaro se Marx pensava che queste forze di contrasto fossero o meno sufficienti per prevenire indefinitamente la caduta del valore della produzione e dei profitti”[11]. Harvey prende anche atto che l’esaurimento del lavoro in conseguenza dello sviluppo tecnologico è una rilevante contraddizione. “Dal punto di vista del lungo termine del capitale, sembra che siamo su una ‘ultima frontiera’ per l’assorbimento di lavoro in tutto il capitalismo globale”[12], e “se andiamo verso un mondo in cui il lavoro sociale di questo tipo [produttivo di merce] scompare, non esiste valore da rappresentare”[13].
Infine Harvey rileva che la riproduzione del capitale produttivo di merce è ormai nelle mani del capitale produttivo di interesse. “L’abbandono della base metallica del sistema monetario agli inizi degli anni settanta del secolo scorso ha consentito alla circolazione del capitale produttivo di interesse di conquistarsi il ruolo di principio guida senza freni dell’accumulazione infinita di capitale”[14]. Si rende manifesto “il dualismo in quello che è stato concettualizzato come un unico flusso di valore in movimento”[15] per la pretesa del capitale produttivo di interesse, erogando credito, di appropriarsi di una parte sempre maggiore del plusvalore prodotto e realizzato. Con la crisi dell’accumulazione questa pretesa si è spinta fino a configurare un’economia dell’espropriazione. “Marx percepiva chiaramente che, fra tutti i pericoli futuri che avrebbe dovuto affrontare la riproduzione del capitale, questo alla fine si sarebbe potuto dimostrare fatale”[16].
Il pericolo viene tuttavia esorcizzato, assumendo che il debito è uno stimolo alla valorizzazione. Circola come capitale fittizio fino a “degenerare in un vasto schema Ponzi in cui i debiti di ieri sono coperti oggi con crediti più elevati”[17], ma contiene in sé il germe del credito. Il debito è anti-valore ma “ha un ruolo fondamentale anche nel definire e garantire il futuro del capitale. La lotta contro l’anti-valore tiene sveglio, per così dire, il capitale. Il bisogno di redimere l’anti-valore è una forza che impone attenzione alla produzione di valore”[18]. Harvey stesso si accorge però dei limiti di questa tesi. Se l’accumulazione del debito supera la capacità di produrre e realizzare valore, ci si muove su un orizzonte in cui “il peonaggio del debito impastoia il futuro per le persone come per intere economie”[19].
Nel suo ultimo libro Harvey accenna alla tesi di Kurz relativa alla crisi finale del capitale. E’ una dimostrazione della difficoltà in cui si trova nella disperata ricerca di ridefinire una classe antagonistica al capitale capace di agire efficacemente nel capitalismo neoliberista. Con Kurz però non si misura[20], a differenza di François Chesnais, che - da sempre sulle orme teoriche di Harvey – richiama l’attenzione in una recente intervista, sulla “tendenza del capitalismo al tracollo finale” preconizzata da Mandel e da Kurz, accentuata dalla robotizzazione che riduce il volume del valore prodotto e del plusvalore realizzato[21].
La scomparsa del valore è considerata da Kurz come conseguenza della contraddizione interna al capitale tra sviluppo delle forze produttive e riduzione del lavoro sociale creatore del valore. E’ un processo diventato strutturalmente irreversibile dopo che, in conseguenza della terza rivoluzione industriale della microelettronica, “la base della riproduzione capitalistica ha incontrato il suo limite assoluto, anche se il collasso (in senso sostanziale) ancora non si è realizzato sul livello fenomenico formale"[22].
Su questa tesi convergono le interpretazioni di Marx che fanno capo alla Critica del valore. Il capitale non è un rapporto sociale antagonistico tra capitale e lavoro, come nella tradizione marxista del movimento operaio, ma è un soggetto automatico che genera valore. L'espressione soggetto automatico è usata da Marx in un breve passaggio nel capitolo quarto del primo libro del Capitale: “Il valore passa continuamente da una forma all'altra, senza perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un soggetto automatico”[23]. Un astratto movimento di riproduzione del valore mediante il lavoro sociale determina, nelle forme della merce e del denaro, le relazioni sociali costitutive del capitalismo riplasmando continuamente tutti i soggetti viventi in suoi agenti inconsci; “permea tutte le classi sociali e filtra o forma tutto il pensare e l’agire”[24].
Il capitale produttivo di interesse, per Kurz, è di norma strettamente connesso alla valorizzazione. L’interesse conseguito attraverso il credito (D-D’) è capitale-denaro parte del plusvalore (D-M-D’). “Il capitale denaro dell'economia industriale non è altro che lo stadio finanziario provvisorio della metamorfosi perpetua dell'accumulazione capitalista, ed è quindi un capitale denaro che, in quanto tale, non cessa di ri-trasformarsi direttamente in mezzo di produzione (c) e in forza lavoro vivente (v)”[25].
Tuttavia, aggiunge Kurz, “succede continuamente che la relazione fra il capitale reale ed il capitale finanziario si rompa da un punto di vista o dall'altro (…). La cosa diventa un problema sociale generale solo quando da una parte il capitale fittizio proveniente dai crediti senza copertura che hanno rotto con la creazione del valore reale del capitale in funzione, e dall’altra i titoli azionari (immobiliari ecc.) puramente speculativi o i debiti dello Stato, superano una certa massa critica”[26]. Allora il capitale produttivo di interesse produce capitale fittizio, poiché “il capitale denaro prestato non è stato utilizzato dal debitore nel circuito produttivo del capitale, e non ha svolto veramente la funzione di capitale (che utilizza realmente della forza lavoro), oppure questo utilizzo non ha sortito effetto”[27].
Fin dall’origine i titoli del Tesoro sono capitale fittizio in quanto non finalizzati alla valorizzazione. La loro storia secolare è legata all’espansione del capitale produttivo di merce sostenuta dall’intervento dello Stato. L’emissione di questi titoli si è fatta però storicamente tanto massiccia da soffocare la creazione di valore, provocando un paradossale rovesciamento del rapporto tra Stato e società: “non è più la società a nutrire lo Stato, perché questi ne sbrighi gli ‘affari generali’, ma viceversa è lo Stato a dover nutrire con il capitale fittizio la società”[28]. Così, con la crisi, “le imprese, gli Stati, le famiglie, continuano a restare a galla per un certo tempo e si indebitano creando capitale fittizio, mentre i loro reali profitti, redditi, ecc. regrediscono o si fermano del tutto”[29].
“Il collasso della relazione di valore non aspetta, ‘per partire’, che sia avvenuta l'eliminazione dell'ultimo lavoratore dalla produzione immediata, ma inizia proprio in quel momento storico in cui la relazione generale fra eliminazione e riassorbimento del lavoro vivente immediatamente produttivo comincia a ‘ribaltarsi’[30]. Si tratta di un processo storico iniziato approssimativamente fra l’inizio e la metà degli anni ’70, che - osservava Kurz nel 1986 - “durerà forse per molti decenni”[31]. Quel che importa è che la connessione tra capitale produttivo di interesse e capitale produttivo di merce è “irreversibilmente squarciata”, e il processo di accumulazione continua “guidato solo dalle creazioni, ormai incontrollate, del capitale fittizio e del denaro senza sostanza nelle loro diverse forme fenomeniche (…). Il denaro desostanzializzato non passa neanche più per i mercati finanziari regolari; la riproduzione sociale in forma di merce viene piuttosto alimentata direttamente con quantità di valuta create dal nulla, in base alla sola decisione statale”[32]. Il capitale produttivo di interesse eroga crediti a fronte di debiti che, se non vengono ripianati, alimentano bolle finanziarie; quando scoppiano non resta niente di quel che è stato generato sulla loro base.
Ernst Lohoff, che condivide la teoria del capitale come soggetto automatico e della sua crisi finale, contrappone all’intransigenza di Kurz la necessità di individuare nella sfera finanziaria la capacità “di produrre, in qualche modo, una forma peculiare di moltiplicazione del capitale che permette di sostituire, transitoriamente, l'accumulazione di plusvalore”[33], spiegando così la crescita degli anni ’80 e ’90 del ‘900.
Il suo lavoro parte da premesse diverse da Kurz, in quanto considera tutti i titoli finanziari come duplicati del credito. Li definisce merci di tipo particolare, ‘merci derivate’ o ‘merci di ordine 2’, che rappresentano la promessa di realizzare plusvalore per far fronte agli interessi e al rimborso, essendo ‘merci di ordine 1’ quelle che si basano sul lavoro vivo che attribuisce loro valore, riconosciuto nella circolazione come plusvalore e ricchezza sociale.
Con l’inversione le ‘merci derivate’ producono “una sorta di ricchezza capitalistica che non è per nulla meno reale della variante della ricchezza capitalistica fondata sullo sfruttamento effettivo del lavoro vivo”[34]. E’ venuta infatti meno la capacità del denaro di rappresentare il valore. “Sono i titoli finanziari depositati presso la banca centrale ad assumere la funzione di merce-denaro” e la banca centrale copre i bisogni dell’economia.[35]. Perciò “l'accumulazione reale di valore nella produzione di beni non può essere concepita come la sola fonte che alimenta l'accumulazione sociale totale del capitale. La moltiplicazione dei duplicati del capitale nella forma delle merci del mercato dei capitali può esser considerata come fonte del processo globale di accumulazione capitalistico”[36].
Conclusioni
Harvey, Kurz e Lohoff sviluppano analisi sul terreno del capitale produttivo di interesse, abbandonando prematuramente quello del capitale produttivo di merce, travolto con l’inversione nella sua stessa essenza costitutiva del capitalismo. Il capitale fittizio è per Lohoff un agente di valorizzazione diretto, per Harvey un agente indiretto attraverso il debito, per Kurz un suo simulacro: nel quadro teorico di Arrighi è addirittura il soggetto che porta il capitale produttivo di merce alla rottura storica con il capitalismo industriale. Le loro indicazioni convergono sull’insostenibile protrarsi nel tempo della erosione delle condizioni sociali di riproduzione da un lato; della corrosione delle relazioni egemoniche degli Stati Uniti dall’altro.
Kurz e Lohoff enunciano la fine del valore. Harvey sembra avviarsi a prospettare la fine del capitale, benché finora coerentemente abbarbicato al quadro teorico degli anni ’70 del ‘900, quello derivato dal movimento operaio che ha accompagnato lo sviluppo del capitale e ne è uscito sconfitto, lasciando, come scrive Wolfgang Streek, le classi possidenti - “trincerate in una piazzaforte politicamente imprendibile: l’industria della finanza internazionale”[37] - libere di produrre barbarie fino alla loro propria estinzione.
Kurz, rileggendo Marx, rimuove il campo della lotta di classe. Harvey invece, stordito dalla violenza con cui stanno esplodendo le contraddizioni costitutive del capitale, non riesce a dare alla classe un significato che possa definirla come nuovo soggetto antagonistico[38]. Indica però la necessità di superare le posizioni persistenti in quella parte del movimento che ha messo “eccessivamente in evidenza” la contraddizione tra capitale e lavoro nella teoria e nella prassi[39]. Storicamente il movimento operaio l’ha praticata soltanto in termini di ricomposizione finalizzata al progresso nel capitalismo. Lo rileva Claudio Napoleoni nel 1970: “Il capitalismo non crolla né esce fuori di sé in modo evoluzionistico: il suo superamento è concepibile soltanto sulla base di un intervento sociale e politico”[40]. Altri economisti hanno continuato invece a sostenere la tesi dell’oggettività dell’accumulazione senza fine, nel “presupposto cieco che ogni stadio di sviluppo delle forze produttive sarà eternamente in grado di generare il meccanismo di compensazione basato sulle nuove industrie e quindi sulla rinnovata capacità di assorbimento capitalistico di un’immane quantità di lavoro vivo su quel livello di sviluppo”[41].
Harvey ha provato ad articolare oggettività e soggettività rilevando nel capitale “x” contraddizioni, che la classe, come piede di porco, potrebbe/dovrebbe forzare. Kurz si è limitato ad una sola fondamentale: il lavoro sociale produce valore, i capitali ne traggono plusvalore, la loro competizione alimenta una produttività che riduce il lavoro. Viene interpretata talora come processo oggettivo: “Il capitale lavora ‘per noi’, autodistruggendosi”[42]. Ma per Kurz, all’opposto, la soggettività è essenziale e penetrante, retrospettivamente e nel presente.
“L’obiettivo che si vuole presentare oggi ‘come irreversibile oggettività’ - scrive - avrebbe potuto emergere in una qualsiasi fase dello sviluppo capitalistico”. Invece, “né le ribellioni del settecento e dell’inizio dell’ottocento, né il vecchio movimento operaio e nemmeno i movimenti sociali degli ultimi decenni sono stati capaci di produrre tale coscienza. Al contrario: le forme capitaliste del lavoro astratto, della valorizzazione del valore e dello Stato moderno sono state sempre più interiorizzate"[43]. Oggi, il blocco della valorizzazione attribuisce a questo obiettivo una dimensione esistenziale. “O si rompe il feticismo della forma sociale o la vita della società sarà ‘disattivata’ in modo quanto mai più catastrofico”[44]. Il lavoro deve essere assunto come categoria negativa, altrimenti quanto più quello residuale diventa precario e obsoleto, tanto più si diffondono ideologie che alimentano le discriminazioni e la paura. Gli interessi vitali non sono negoziabili, i criteri di finanziabilità devono essere rifiutati. “Ciò non sarà l’atto di un ‘soggetto oggettivo’, ma di essere umani che vogliono essere tali e nulla più” [45].
Kurz confina tuttavia la prassi al mondo delle forme che sopravvivono alla fine del valore. Per Harvey e Lohoff il terreno definito dal capitale produttivo di merce sarebbe invece ancora potenzialmente praticabile, ma trascurano gli effetti che la pressione del capitale fittizio esercita sulla dinamica competitiva che gli è propria accelerandone la centralizzazione. La produttività aumenta e il lavoro sociale si contrae, fino all’Industria 4.0 che considera la forza lavoro esplicitamente in gran parte spreco.
[1] Arrighi G., Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano, 1996 (ed. orig. 1994), p. 23.
[2] Arrighi G., Adam Smith a Pechino, Milano, Feltrinelli, 2007 (ed. orig. 2007).
[3] Ivi, p. 57.
[4] Arrighi G., Trascrizione del ciclo di lezioni tenute dal 9 al 17 dicembre nel Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica dell’Università della Calabria.
[5] Harvey D., Marx e la follia del capitale, Milano, Feltrinelli, 2018 (ed. orig. 2017).
[6] Ivi, p. 69.
[7] Harvey D., Limits to capital, cit., p. 299.
[8] Ivi, p. 17.
[9] Harvey D., Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 9 (ed.orig. 2014).
[10] Harvey D., Marx e la follia, cit., p. 111.
[11] Harvey D., Diciassette contraddizioni, cit., p. 114.
[12] Ibidem.
[13] Ivi, p. 115.
[14] Ivi, p. 75.
[15] Ivi, p. 32.
[16] Ivi, p. 79.
[17] Ivi, p. 90.
[18] Ivi, p. 87-88.
[19] Ivi, p. 100.
[20] Sivini G., “Marx e la follia del capitale”. Un confronto fra Harvey e Critica del valore. L’anatra di Vaucanson, settembre 2018.
[21] Intervista di Henri Wilno a François Chesnais, L’Anticapitaliste, 86, 2017.
[22] Kurz R., La fine della politica, cit..
[23] Marx K., Il capitale, Libro primo, capitolo quarto, ed. Cantimori D., Roma, Editori Riuniti, 1972, pp. 170-1.
[24] Montano S., Intervista a Robert Kurz, Ozio produttivo, 31 marzo 2007, da IHU On-Line, 188, 10 luglio 2006.
[25] Kurz R., ll capitale portatore d'interesse, la bolla speculativa e la crisi della moneta, blackblog francosenia, 8 settembre 2016, da Kurz R. Lire Marx, Paris, La balustrade, 2002.
[26] Ivi.
[27] Kurz R., Crisi economica mondiale, movimento sociale e socialismo 12 tesi, Comunicazione al Forum Marxista della Sassonia il 14 novembre 2009, Ozio produttivo, 4 luglio 2013.
[28] Kurz R., La fine della politica, cit..
[29] Kurz R., ll capitale portatore d'interesse, cit..
[30] Kurz R., La crisi del valore di scambio (1986), blackblog francosenia, 2 maggio 2016
[31] Ivi.
[32] Ibidem.
[33] Lohoff E., Per una discussione su "La grande svalorizzazione" e "Denaro senza valore", blackblog francosenia, 2 giugno 2017, da Krisis, 14 maggio 2017.
[34] Lohoff E., Trenkle N., La grande dévalorisation, cit., p.136.
[35] Lohoff E., Autodestruction programmée. À propos du lien interne entre la critique de la forme-valeur et la théorie des crises dans la critique marxienne de l’économie politique, overblog, 1(1/2019 (orig. 2017).
[36] Lohoff E., Acumulaçao de capital sem acumulaçao de valor, Krisis, 2018 (orig. 2014).
[37] Streeck W., Crisis of democratic capitalism, New Left Review, 71, 2011.
[38] La classe “non è un concetto bensì un processo” che riguarda le dinamiche di accumulazione del capitale: cfr. Schouten P., David Harvey on the Geography of Capitalism, Theory Talks, 9 ottobre2008.
[39] Harvey D., Diciassette contraddizioni, cit., p. 77.
[40] Citato da Bellofiore R., L’importante è finire. Su un libro recente di Giordano Sivini, Economia & Lavoro, 4, 2017, p. 203.
[41] Kurz R., Tutto sotto controllo sulla nave che affonda, L’anatra di Vaucanson, 18 dicembre 2018 (orig. 1989).
[42] Bellofiore R., L’importante è finire, cit..
[43] Kurz R., Vies et mort. cit., p. 9.
[44] Montano S., cit..
[45] Kurz R., Vies et mort, cit., p. 19.
Arrighi prevede a livello mondiale un quadro inedito di rapporti sociali retti da una competizione tra capitali controllata da un nuovo Stato egemone. La sua analisi riguarda l’evoluzione del capitalismo, segnata da ‘agenti capitalisti’ che si arricchiscono attraverso la produzione materiale o l’investimento finanziario dove più conviene, e da Stati che in situazioni di crisi fiscale si fanno concorrenza per accaparrarsi liquidità. Storicamente si susseguono quattro cicli, ciascuno segnato dall’egemonia di uno Stato, nei quali ad una fase di espansione materiale segue una fase di espansione finanziaria; il termine ‘inversione’, citato da Braudel[1], definisce il passaggio da una fase all’altra. Nella fase finanziaria di ogni ciclo lo scoppio in sequenza di bolle speculative segna l’approssimarsi della crisi finale dello Stato egemone, e la liquidità si rivolge a Stati emergenti che la orientano verso nuovi orizzonti produttivi, superando i limiti del sistema precedente; distruggendo e redistribuendo ricchezza in termini materiali e monetari.
Pubblicando nel 1994 l’edizione inglese de Il Lungo Ventesimo Secolo, Arrighi sostiene che la conclusione dell’ultima fase finanziaria preannuncia la fine della storia del capitalismo. La sfera di azione spaziale e funzionale dei capitali produttivi è infatti esaurita; la liquidità mondiale che deve essere mobilitata per ristrutturare nuovi rapporti politici, produttivi e sociali, è in gran parte nelle mani degli Stati dell’Oriente asiatico; più tardi - nel 2007 con Adam Smith a Pechino[2] - è alla Cina che guarda, emersa nel frattempo come potenza finanziaria ed economica. L’ipotesi è che l’egemonia che si sta profilando, diversamente da quelle precedenti, potrebbe basarsi su un progetto di sostenibilità umana e ambientale condiviso da un sistema di Stati capaci di condizionare il mercato in cui si muovono i capitali. Le premesse per il realizzarsi di questa prospettiva stanno nei principi teorici di Adam Smith che suggeriscono di contenere le tendenze predatorie dei capitalisti, e nella storia dello sviluppo ‘industrioso’ della Cina e dell’Oriente asiatico.
Smith guarda ad una società divisa in tre ordini, dipendenti rispettivamente dalla rendita, dal salario e dal profitto. I primi due sostengono i consumi e spingono il mercato ad allargarsi aumentando la divisione sociale del lavoro, da cui dipende la crescita della produttività e del benessere economico. Questo processo virtuoso incontra limiti nei capitalisti, che tendono a realizzare profitti comprimendo i salari. A questo deve ovviare “uno Stato forte, capace di creare e riprodurre le condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso, capace di servirsene come di un efficace strumento di governo e capace di imporgli delle regole intervenendo attivamente per limitarne le conseguenze socialmente o politicamente negative”[3].
All’egemonia statunitense in crisi potrebbe seguire, sostiene Arrighi, una world-market society, in cui l’economia sarebbe regolata da meccanismi di mercato sottoposti al controllo degli Stati, tornando all’assetto dei cicli precedenti in cui le imprese capitalistiche “erano incassate in un sistema di Stati”[4]. L’intervento non riguarderebbe la proprietà e il controllo dei mezzi di produzione, come nella tradizione socialista, ma gli scambi di mercato, in modo da dare più potere al lavoro e meno al capitale. La world-market society, ponendo limiti ai capitali, segnerebbe l’esaurimento della storia del capitalismo, e con essa verrebbe anche posta fine alla ripetitività, ciclo per ciclo, dell’alternanza tra fasi di espansione economica e fasi di espansione finanziaria. Nell’inversione finale la liquidità verrebbe indirizzata alla realizzazione di un mondo diversamente produttivo.
David Harvey non fa, come Arrighi, riferimento al capitalismo ma al movimento del capitale in quanto suo motore. In Marx e la follia del capitale[5] constata che “il capitale produttivo di interesse è diventato una potente e indipendente forza trainante dell’accumulazione”[6]. E’ una situazione che negli anni ’70 aveva escluso potesse mai verificarsi: “Il potere del capitale finanziario (quale che sia la definizione di questo blocco istituzionalizzato) - aveva scritto - è necessariamente un potere circoscritto, e non può mai diventare smisurato o totalmente egemonico”[7]. La riproducibilità senza fine del capitale, allora assunta a fondamento teorico, non sembra tuttavia minacciata dall’inversione, se è una crisi come altre verificatesi in passato. Ogni crisi che blocca il movimento del capitale viene superata dalla svalutazione di ciò che lo blocca, così che il capitale “reinventa se stesso e si tramuta in qualcos’altro, che può essere meglio o peggio per le persone”[8]. Le sue instabilità “vengono affrontate, riplasmate e reingegnerizzate per creare una nuova versione di quel che è il capitalismo”[9].
Questa certezza viene intaccata negli anni recenti da alcune tendenze: da un lato la caduta del tasso di profitto e la riduzione del valore prodotta dalla contrazione del lavoro che lo produce: dall’altro la massimizzazione del profitto monetario senza produzione di valore e plusvalore. “Combinate (e quel che sta succedendo mostra che entrambe le tendenze sono percepibili), potrebbero essere catastrofiche”[10].
Negli anni ’70 Harvey aveva escluso che in Marx ci fossero fondamenti per sostenere la tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto. In Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, riconsidera però il peso delle controtendenze. “Non è chiaro se Marx pensava che queste forze di contrasto fossero o meno sufficienti per prevenire indefinitamente la caduta del valore della produzione e dei profitti”[11]. Harvey prende anche atto che l’esaurimento del lavoro in conseguenza dello sviluppo tecnologico è una rilevante contraddizione. “Dal punto di vista del lungo termine del capitale, sembra che siamo su una ‘ultima frontiera’ per l’assorbimento di lavoro in tutto il capitalismo globale”[12], e “se andiamo verso un mondo in cui il lavoro sociale di questo tipo [produttivo di merce] scompare, non esiste valore da rappresentare”[13].
Infine Harvey rileva che la riproduzione del capitale produttivo di merce è ormai nelle mani del capitale produttivo di interesse. “L’abbandono della base metallica del sistema monetario agli inizi degli anni settanta del secolo scorso ha consentito alla circolazione del capitale produttivo di interesse di conquistarsi il ruolo di principio guida senza freni dell’accumulazione infinita di capitale”[14]. Si rende manifesto “il dualismo in quello che è stato concettualizzato come un unico flusso di valore in movimento”[15] per la pretesa del capitale produttivo di interesse, erogando credito, di appropriarsi di una parte sempre maggiore del plusvalore prodotto e realizzato. Con la crisi dell’accumulazione questa pretesa si è spinta fino a configurare un’economia dell’espropriazione. “Marx percepiva chiaramente che, fra tutti i pericoli futuri che avrebbe dovuto affrontare la riproduzione del capitale, questo alla fine si sarebbe potuto dimostrare fatale”[16].
Il pericolo viene tuttavia esorcizzato, assumendo che il debito è uno stimolo alla valorizzazione. Circola come capitale fittizio fino a “degenerare in un vasto schema Ponzi in cui i debiti di ieri sono coperti oggi con crediti più elevati”[17], ma contiene in sé il germe del credito. Il debito è anti-valore ma “ha un ruolo fondamentale anche nel definire e garantire il futuro del capitale. La lotta contro l’anti-valore tiene sveglio, per così dire, il capitale. Il bisogno di redimere l’anti-valore è una forza che impone attenzione alla produzione di valore”[18]. Harvey stesso si accorge però dei limiti di questa tesi. Se l’accumulazione del debito supera la capacità di produrre e realizzare valore, ci si muove su un orizzonte in cui “il peonaggio del debito impastoia il futuro per le persone come per intere economie”[19].
Nel suo ultimo libro Harvey accenna alla tesi di Kurz relativa alla crisi finale del capitale. E’ una dimostrazione della difficoltà in cui si trova nella disperata ricerca di ridefinire una classe antagonistica al capitale capace di agire efficacemente nel capitalismo neoliberista. Con Kurz però non si misura[20], a differenza di François Chesnais, che - da sempre sulle orme teoriche di Harvey – richiama l’attenzione in una recente intervista, sulla “tendenza del capitalismo al tracollo finale” preconizzata da Mandel e da Kurz, accentuata dalla robotizzazione che riduce il volume del valore prodotto e del plusvalore realizzato[21].
La scomparsa del valore è considerata da Kurz come conseguenza della contraddizione interna al capitale tra sviluppo delle forze produttive e riduzione del lavoro sociale creatore del valore. E’ un processo diventato strutturalmente irreversibile dopo che, in conseguenza della terza rivoluzione industriale della microelettronica, “la base della riproduzione capitalistica ha incontrato il suo limite assoluto, anche se il collasso (in senso sostanziale) ancora non si è realizzato sul livello fenomenico formale"[22].
Su questa tesi convergono le interpretazioni di Marx che fanno capo alla Critica del valore. Il capitale non è un rapporto sociale antagonistico tra capitale e lavoro, come nella tradizione marxista del movimento operaio, ma è un soggetto automatico che genera valore. L'espressione soggetto automatico è usata da Marx in un breve passaggio nel capitolo quarto del primo libro del Capitale: “Il valore passa continuamente da una forma all'altra, senza perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un soggetto automatico”[23]. Un astratto movimento di riproduzione del valore mediante il lavoro sociale determina, nelle forme della merce e del denaro, le relazioni sociali costitutive del capitalismo riplasmando continuamente tutti i soggetti viventi in suoi agenti inconsci; “permea tutte le classi sociali e filtra o forma tutto il pensare e l’agire”[24].
Il capitale produttivo di interesse, per Kurz, è di norma strettamente connesso alla valorizzazione. L’interesse conseguito attraverso il credito (D-D’) è capitale-denaro parte del plusvalore (D-M-D’). “Il capitale denaro dell'economia industriale non è altro che lo stadio finanziario provvisorio della metamorfosi perpetua dell'accumulazione capitalista, ed è quindi un capitale denaro che, in quanto tale, non cessa di ri-trasformarsi direttamente in mezzo di produzione (c) e in forza lavoro vivente (v)”[25].
Tuttavia, aggiunge Kurz, “succede continuamente che la relazione fra il capitale reale ed il capitale finanziario si rompa da un punto di vista o dall'altro (…). La cosa diventa un problema sociale generale solo quando da una parte il capitale fittizio proveniente dai crediti senza copertura che hanno rotto con la creazione del valore reale del capitale in funzione, e dall’altra i titoli azionari (immobiliari ecc.) puramente speculativi o i debiti dello Stato, superano una certa massa critica”[26]. Allora il capitale produttivo di interesse produce capitale fittizio, poiché “il capitale denaro prestato non è stato utilizzato dal debitore nel circuito produttivo del capitale, e non ha svolto veramente la funzione di capitale (che utilizza realmente della forza lavoro), oppure questo utilizzo non ha sortito effetto”[27].
Fin dall’origine i titoli del Tesoro sono capitale fittizio in quanto non finalizzati alla valorizzazione. La loro storia secolare è legata all’espansione del capitale produttivo di merce sostenuta dall’intervento dello Stato. L’emissione di questi titoli si è fatta però storicamente tanto massiccia da soffocare la creazione di valore, provocando un paradossale rovesciamento del rapporto tra Stato e società: “non è più la società a nutrire lo Stato, perché questi ne sbrighi gli ‘affari generali’, ma viceversa è lo Stato a dover nutrire con il capitale fittizio la società”[28]. Così, con la crisi, “le imprese, gli Stati, le famiglie, continuano a restare a galla per un certo tempo e si indebitano creando capitale fittizio, mentre i loro reali profitti, redditi, ecc. regrediscono o si fermano del tutto”[29].
“Il collasso della relazione di valore non aspetta, ‘per partire’, che sia avvenuta l'eliminazione dell'ultimo lavoratore dalla produzione immediata, ma inizia proprio in quel momento storico in cui la relazione generale fra eliminazione e riassorbimento del lavoro vivente immediatamente produttivo comincia a ‘ribaltarsi’[30]. Si tratta di un processo storico iniziato approssimativamente fra l’inizio e la metà degli anni ’70, che - osservava Kurz nel 1986 - “durerà forse per molti decenni”[31]. Quel che importa è che la connessione tra capitale produttivo di interesse e capitale produttivo di merce è “irreversibilmente squarciata”, e il processo di accumulazione continua “guidato solo dalle creazioni, ormai incontrollate, del capitale fittizio e del denaro senza sostanza nelle loro diverse forme fenomeniche (…). Il denaro desostanzializzato non passa neanche più per i mercati finanziari regolari; la riproduzione sociale in forma di merce viene piuttosto alimentata direttamente con quantità di valuta create dal nulla, in base alla sola decisione statale”[32]. Il capitale produttivo di interesse eroga crediti a fronte di debiti che, se non vengono ripianati, alimentano bolle finanziarie; quando scoppiano non resta niente di quel che è stato generato sulla loro base.
Ernst Lohoff, che condivide la teoria del capitale come soggetto automatico e della sua crisi finale, contrappone all’intransigenza di Kurz la necessità di individuare nella sfera finanziaria la capacità “di produrre, in qualche modo, una forma peculiare di moltiplicazione del capitale che permette di sostituire, transitoriamente, l'accumulazione di plusvalore”[33], spiegando così la crescita degli anni ’80 e ’90 del ‘900.
Il suo lavoro parte da premesse diverse da Kurz, in quanto considera tutti i titoli finanziari come duplicati del credito. Li definisce merci di tipo particolare, ‘merci derivate’ o ‘merci di ordine 2’, che rappresentano la promessa di realizzare plusvalore per far fronte agli interessi e al rimborso, essendo ‘merci di ordine 1’ quelle che si basano sul lavoro vivo che attribuisce loro valore, riconosciuto nella circolazione come plusvalore e ricchezza sociale.
Con l’inversione le ‘merci derivate’ producono “una sorta di ricchezza capitalistica che non è per nulla meno reale della variante della ricchezza capitalistica fondata sullo sfruttamento effettivo del lavoro vivo”[34]. E’ venuta infatti meno la capacità del denaro di rappresentare il valore. “Sono i titoli finanziari depositati presso la banca centrale ad assumere la funzione di merce-denaro” e la banca centrale copre i bisogni dell’economia.[35]. Perciò “l'accumulazione reale di valore nella produzione di beni non può essere concepita come la sola fonte che alimenta l'accumulazione sociale totale del capitale. La moltiplicazione dei duplicati del capitale nella forma delle merci del mercato dei capitali può esser considerata come fonte del processo globale di accumulazione capitalistico”[36].
Conclusioni
Harvey, Kurz e Lohoff sviluppano analisi sul terreno del capitale produttivo di interesse, abbandonando prematuramente quello del capitale produttivo di merce, travolto con l’inversione nella sua stessa essenza costitutiva del capitalismo. Il capitale fittizio è per Lohoff un agente di valorizzazione diretto, per Harvey un agente indiretto attraverso il debito, per Kurz un suo simulacro: nel quadro teorico di Arrighi è addirittura il soggetto che porta il capitale produttivo di merce alla rottura storica con il capitalismo industriale. Le loro indicazioni convergono sull’insostenibile protrarsi nel tempo della erosione delle condizioni sociali di riproduzione da un lato; della corrosione delle relazioni egemoniche degli Stati Uniti dall’altro.
Kurz e Lohoff enunciano la fine del valore. Harvey sembra avviarsi a prospettare la fine del capitale, benché finora coerentemente abbarbicato al quadro teorico degli anni ’70 del ‘900, quello derivato dal movimento operaio che ha accompagnato lo sviluppo del capitale e ne è uscito sconfitto, lasciando, come scrive Wolfgang Streek, le classi possidenti - “trincerate in una piazzaforte politicamente imprendibile: l’industria della finanza internazionale”[37] - libere di produrre barbarie fino alla loro propria estinzione.
Kurz, rileggendo Marx, rimuove il campo della lotta di classe. Harvey invece, stordito dalla violenza con cui stanno esplodendo le contraddizioni costitutive del capitale, non riesce a dare alla classe un significato che possa definirla come nuovo soggetto antagonistico[38]. Indica però la necessità di superare le posizioni persistenti in quella parte del movimento che ha messo “eccessivamente in evidenza” la contraddizione tra capitale e lavoro nella teoria e nella prassi[39]. Storicamente il movimento operaio l’ha praticata soltanto in termini di ricomposizione finalizzata al progresso nel capitalismo. Lo rileva Claudio Napoleoni nel 1970: “Il capitalismo non crolla né esce fuori di sé in modo evoluzionistico: il suo superamento è concepibile soltanto sulla base di un intervento sociale e politico”[40]. Altri economisti hanno continuato invece a sostenere la tesi dell’oggettività dell’accumulazione senza fine, nel “presupposto cieco che ogni stadio di sviluppo delle forze produttive sarà eternamente in grado di generare il meccanismo di compensazione basato sulle nuove industrie e quindi sulla rinnovata capacità di assorbimento capitalistico di un’immane quantità di lavoro vivo su quel livello di sviluppo”[41].
Harvey ha provato ad articolare oggettività e soggettività rilevando nel capitale “x” contraddizioni, che la classe, come piede di porco, potrebbe/dovrebbe forzare. Kurz si è limitato ad una sola fondamentale: il lavoro sociale produce valore, i capitali ne traggono plusvalore, la loro competizione alimenta una produttività che riduce il lavoro. Viene interpretata talora come processo oggettivo: “Il capitale lavora ‘per noi’, autodistruggendosi”[42]. Ma per Kurz, all’opposto, la soggettività è essenziale e penetrante, retrospettivamente e nel presente.
“L’obiettivo che si vuole presentare oggi ‘come irreversibile oggettività’ - scrive - avrebbe potuto emergere in una qualsiasi fase dello sviluppo capitalistico”. Invece, “né le ribellioni del settecento e dell’inizio dell’ottocento, né il vecchio movimento operaio e nemmeno i movimenti sociali degli ultimi decenni sono stati capaci di produrre tale coscienza. Al contrario: le forme capitaliste del lavoro astratto, della valorizzazione del valore e dello Stato moderno sono state sempre più interiorizzate"[43]. Oggi, il blocco della valorizzazione attribuisce a questo obiettivo una dimensione esistenziale. “O si rompe il feticismo della forma sociale o la vita della società sarà ‘disattivata’ in modo quanto mai più catastrofico”[44]. Il lavoro deve essere assunto come categoria negativa, altrimenti quanto più quello residuale diventa precario e obsoleto, tanto più si diffondono ideologie che alimentano le discriminazioni e la paura. Gli interessi vitali non sono negoziabili, i criteri di finanziabilità devono essere rifiutati. “Ciò non sarà l’atto di un ‘soggetto oggettivo’, ma di essere umani che vogliono essere tali e nulla più” [45].
Kurz confina tuttavia la prassi al mondo delle forme che sopravvivono alla fine del valore. Per Harvey e Lohoff il terreno definito dal capitale produttivo di merce sarebbe invece ancora potenzialmente praticabile, ma trascurano gli effetti che la pressione del capitale fittizio esercita sulla dinamica competitiva che gli è propria accelerandone la centralizzazione. La produttività aumenta e il lavoro sociale si contrae, fino all’Industria 4.0 che considera la forza lavoro esplicitamente in gran parte spreco.
[1] Arrighi G., Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano, 1996 (ed. orig. 1994), p. 23.
[2] Arrighi G., Adam Smith a Pechino, Milano, Feltrinelli, 2007 (ed. orig. 2007).
[3] Ivi, p. 57.
[4] Arrighi G., Trascrizione del ciclo di lezioni tenute dal 9 al 17 dicembre nel Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica dell’Università della Calabria.
[5] Harvey D., Marx e la follia del capitale, Milano, Feltrinelli, 2018 (ed. orig. 2017).
[6] Ivi, p. 69.
[7] Harvey D., Limits to capital, cit., p. 299.
[8] Ivi, p. 17.
[9] Harvey D., Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 9 (ed.orig. 2014).
[10] Harvey D., Marx e la follia, cit., p. 111.
[11] Harvey D., Diciassette contraddizioni, cit., p. 114.
[12] Ibidem.
[13] Ivi, p. 115.
[14] Ivi, p. 75.
[15] Ivi, p. 32.
[16] Ivi, p. 79.
[17] Ivi, p. 90.
[18] Ivi, p. 87-88.
[19] Ivi, p. 100.
[20] Sivini G., “Marx e la follia del capitale”. Un confronto fra Harvey e Critica del valore. L’anatra di Vaucanson, settembre 2018.
[21] Intervista di Henri Wilno a François Chesnais, L’Anticapitaliste, 86, 2017.
[22] Kurz R., La fine della politica, cit..
[23] Marx K., Il capitale, Libro primo, capitolo quarto, ed. Cantimori D., Roma, Editori Riuniti, 1972, pp. 170-1.
[24] Montano S., Intervista a Robert Kurz, Ozio produttivo, 31 marzo 2007, da IHU On-Line, 188, 10 luglio 2006.
[25] Kurz R., ll capitale portatore d'interesse, la bolla speculativa e la crisi della moneta, blackblog francosenia, 8 settembre 2016, da Kurz R. Lire Marx, Paris, La balustrade, 2002.
[26] Ivi.
[27] Kurz R., Crisi economica mondiale, movimento sociale e socialismo 12 tesi, Comunicazione al Forum Marxista della Sassonia il 14 novembre 2009, Ozio produttivo, 4 luglio 2013.
[28] Kurz R., La fine della politica, cit..
[29] Kurz R., ll capitale portatore d'interesse, cit..
[30] Kurz R., La crisi del valore di scambio (1986), blackblog francosenia, 2 maggio 2016
[31] Ivi.
[32] Ibidem.
[33] Lohoff E., Per una discussione su "La grande svalorizzazione" e "Denaro senza valore", blackblog francosenia, 2 giugno 2017, da Krisis, 14 maggio 2017.
[34] Lohoff E., Trenkle N., La grande dévalorisation, cit., p.136.
[35] Lohoff E., Autodestruction programmée. À propos du lien interne entre la critique de la forme-valeur et la théorie des crises dans la critique marxienne de l’économie politique, overblog, 1(1/2019 (orig. 2017).
[36] Lohoff E., Acumulaçao de capital sem acumulaçao de valor, Krisis, 2018 (orig. 2014).
[37] Streeck W., Crisis of democratic capitalism, New Left Review, 71, 2011.
[38] La classe “non è un concetto bensì un processo” che riguarda le dinamiche di accumulazione del capitale: cfr. Schouten P., David Harvey on the Geography of Capitalism, Theory Talks, 9 ottobre2008.
[39] Harvey D., Diciassette contraddizioni, cit., p. 77.
[40] Citato da Bellofiore R., L’importante è finire. Su un libro recente di Giordano Sivini, Economia & Lavoro, 4, 2017, p. 203.
[41] Kurz R., Tutto sotto controllo sulla nave che affonda, L’anatra di Vaucanson, 18 dicembre 2018 (orig. 1989).
[42] Bellofiore R., L’importante è finire, cit..
[43] Kurz R., Vies et mort. cit., p. 9.
[44] Montano S., cit..
[45] Kurz R., Vies et mort, cit., p. 19.
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