
Votato sin dalle origini alla reinvenzione totale della realtà (almeno nella corrente maggioritaria dei frères Lumière), il cinema, non solo quello hollywoodiano, troppo spesso dimentica questa sua aurorale vocazione per dedicarsi quasi esclusivamente allo spettacolo che ha come fine l’incasso al botteghino. Niente di male, dirà qualcuno, anche i sogni e la fuga dal reale hanno diritto di cittadinanza, aiutano a vivere, colmano per un momento mancanze e leniscono ferite. Giusto e sacrosanto, se la prevalenza dell’escape industriale non fosse tanto inarginabile e pervasiva, e se la logica del mercato non avesse sempre – o quasi – la precedenza, non fosse l’unica ‘logica’ sul mercato che si dice libero.
Per fortuna le maglie non sono così strette; qualcosa sfugge al dominio capillare delle majors americane – nel cui omologato orto, va detto, spunta qualche volta un fiore anomalo – resiste e lavora, da noi e all’estero, un gruppo di autori, produttori e distributori indipendenti che vanno nella direzione di un cinema lontano da schemi usurati dall’eccesso di sfruttamento, inventivo e attento a quel che si agita nella società reale, variegata e frantumata più di quanto certa visione semplicistica a uso pubblicitario o elettorale vorrebbe farci credere.
Altro che trionfo della piccola borghesia, altro che diversità cancellate nell’auratico trionfo dell’ipermercato; e altro che soddisfatta, narcotica felicità all’ombra della merce per tutti. Per tutti? A insinuare che forse le cose non stanno così, che serve quanto meno un supplemento di narrazione e di analisi ci pensa il potente e dissonante Sole cuore amore di Daniele Vicari, quello della Nave dolce e di Diaz, dunque un solido apprendistato col cinema del reale per eccellenza, il documentario, che ricompone e rimedita, per capirla meglio, la cronaca più significativa che rapidamente diventa storia contemporanea.
Chi meglio del cineasta rietino poteva portare sullo schermo la storia allegra e disperatamente vitale (la ‘disperata vitalità’ di un celebre ossimoro pasoliniano) di Eli (una impeccabile Isabella Ragonese, ormai il volto femminile del cinema italiano d’autore), barista pendolare, moglie di Mario (Francesco Montanari, ottimo) operaio con occupazioni saltuarie, e madre di quattro figli: la grande sugli undici anni, l’ultima ancora di mesi.
Si vive o si muore, in una famiglia così combinata? si è chiesto Vicari. E ancora: è possibile continuare ad amarsi, se il letto matrimoniale è un divano, lei punta la sveglia alle 4 e un quarto della notte, e le carezze amorevoli non bastano a tenerla sveglia? Si vive giorno dopo giorno con la fatica sulle spalle, sulle gambe, sulla nuca. Ci si continua ad amare, rubando ore al sonno e una risata alla frustrazione, tanto si sa che a ogni giorno ‘basta la sua pena’ e il domani è un’incognita che può portare un meglio, un gradino più alto, un ingaggio che duri almeno una settimana.
Risposte politiche che avranno deluso le attese di chi era già pronto a puntare il dito sul patetico che ruba persuasività estetica a storie come questa, quando basta invece mostrarle con rispetto e attenzione, sbalzarne i contorni, dare la lingua giusta ai protagonisti, una faccia credibile agli invisibili che sul grande schermo diventano figure di forza plastica rara.
L’evidenza e la vitalità di queste esistenze faticate (“la morte si sconta vivendo” direbbe il poeta) salta prima agli occhi e poi si scava una nicchia nella memoria, insieme alla musica magnifica di Stefano Di Battista, lirica e lancinante e veloce come i treni della metropolitana che continuano a correre nelle due direzioni, con dentro il rosso cappotto di Eli, punto luce di tenacia alla fermata del bus sotto casa, al bancone del bar al Tuscolano e poi di nuovo nella baraonda del trivani di Ostia, da un buio a un buio, senza mai smarrire la tenerezza e la curiosità per gli altri – e la speranza, che spinge a non mollare.
È un altro mondo, un mondo periferico facile da vedere ma che nessuno vuole davvero vedere – nemmeno se a proporlo sono le inchieste televisive solitamente piazzate in seconda serata – quello che lucidamente esplora Vicari, senza stilemi scontati o pietismo, adeguando la scrittura visiva della macchina da presa alla sfiancante ripetizione viaggio-lavoro-sonno, alternando distanza e lontananza, fuoco e sfocatura, ironia e rabbia: dentro l’abitazione ad annusare la famiglia nella problematica convivenza, al banco a fronteggiare il sorridente lavoro quotidiano di Eli e della sua compagna e amica straniera di fede musulmana, con le battute dei clienti assidui e i mugugni e le insofferenze padronali di Nicola, interpretato con sicura essenzialità da Francesco Acquaroli che, dice Eli, “non è cattivo” ma intanto le fa pagare con una diminuzione dello stipendio i ritardi involontari e si schiera con la cliente anche quando è insolente e razzista.
Storia d’amore e di lavoro, ma anche di amicizia femminile fondata saldamente su affetto, complicità e reciproco sostegno pur nella differenza tra la protagonista e Valentina (Eva Grieco) che abita nello stesso condominio, performer notturna ed ex studentessa di fisica, incompresa dalla madre e silenziosamente innamorata della ragazza con cui fa coppia negli spettacoli, Cuore sole amore rilancia e aggiorna la narrazione del disagio contemporaneo a diverse latitudini: dall’Inghilterra dell’ultimo Loach, un secco referto sulla mortale stupidità burocratica, all’America nera di Moonlight, da Virzì a più riprese negli ultimi anni sui temi dell’incertezza esistenziale, alla Fortunata di Castellitto (nonostante i troppi punti esclamativi) fino allo splendido Amelio della Tenerezza, altre vite inclassificabili e arrovellate in primo piano e a Cuori puri di Roberto De Paolis, ancora proletari, disoccupazione (e Rom) e periferia romana conflittuale.
L’aggiorna illuminando con passione controllata e voglia di capire la faccia scura della crisi priva di confini, la precarietà ormai rubricata come dato di natura e compone una storia esemplare di corpi presi nell’ingranaggio capitalistico della sopravvivenza con un senso del reale (la precisione mimetica dei dialoghi, la cura delle sfumature, degli sguardi) all’altezza della sfuggente ma concreta complessità dei tempi che viviamo.
Per fortuna le maglie non sono così strette; qualcosa sfugge al dominio capillare delle majors americane – nel cui omologato orto, va detto, spunta qualche volta un fiore anomalo – resiste e lavora, da noi e all’estero, un gruppo di autori, produttori e distributori indipendenti che vanno nella direzione di un cinema lontano da schemi usurati dall’eccesso di sfruttamento, inventivo e attento a quel che si agita nella società reale, variegata e frantumata più di quanto certa visione semplicistica a uso pubblicitario o elettorale vorrebbe farci credere.
Altro che trionfo della piccola borghesia, altro che diversità cancellate nell’auratico trionfo dell’ipermercato; e altro che soddisfatta, narcotica felicità all’ombra della merce per tutti. Per tutti? A insinuare che forse le cose non stanno così, che serve quanto meno un supplemento di narrazione e di analisi ci pensa il potente e dissonante Sole cuore amore di Daniele Vicari, quello della Nave dolce e di Diaz, dunque un solido apprendistato col cinema del reale per eccellenza, il documentario, che ricompone e rimedita, per capirla meglio, la cronaca più significativa che rapidamente diventa storia contemporanea.
Chi meglio del cineasta rietino poteva portare sullo schermo la storia allegra e disperatamente vitale (la ‘disperata vitalità’ di un celebre ossimoro pasoliniano) di Eli (una impeccabile Isabella Ragonese, ormai il volto femminile del cinema italiano d’autore), barista pendolare, moglie di Mario (Francesco Montanari, ottimo) operaio con occupazioni saltuarie, e madre di quattro figli: la grande sugli undici anni, l’ultima ancora di mesi.
Si vive o si muore, in una famiglia così combinata? si è chiesto Vicari. E ancora: è possibile continuare ad amarsi, se il letto matrimoniale è un divano, lei punta la sveglia alle 4 e un quarto della notte, e le carezze amorevoli non bastano a tenerla sveglia? Si vive giorno dopo giorno con la fatica sulle spalle, sulle gambe, sulla nuca. Ci si continua ad amare, rubando ore al sonno e una risata alla frustrazione, tanto si sa che a ogni giorno ‘basta la sua pena’ e il domani è un’incognita che può portare un meglio, un gradino più alto, un ingaggio che duri almeno una settimana.
Risposte politiche che avranno deluso le attese di chi era già pronto a puntare il dito sul patetico che ruba persuasività estetica a storie come questa, quando basta invece mostrarle con rispetto e attenzione, sbalzarne i contorni, dare la lingua giusta ai protagonisti, una faccia credibile agli invisibili che sul grande schermo diventano figure di forza plastica rara.
L’evidenza e la vitalità di queste esistenze faticate (“la morte si sconta vivendo” direbbe il poeta) salta prima agli occhi e poi si scava una nicchia nella memoria, insieme alla musica magnifica di Stefano Di Battista, lirica e lancinante e veloce come i treni della metropolitana che continuano a correre nelle due direzioni, con dentro il rosso cappotto di Eli, punto luce di tenacia alla fermata del bus sotto casa, al bancone del bar al Tuscolano e poi di nuovo nella baraonda del trivani di Ostia, da un buio a un buio, senza mai smarrire la tenerezza e la curiosità per gli altri – e la speranza, che spinge a non mollare.
È un altro mondo, un mondo periferico facile da vedere ma che nessuno vuole davvero vedere – nemmeno se a proporlo sono le inchieste televisive solitamente piazzate in seconda serata – quello che lucidamente esplora Vicari, senza stilemi scontati o pietismo, adeguando la scrittura visiva della macchina da presa alla sfiancante ripetizione viaggio-lavoro-sonno, alternando distanza e lontananza, fuoco e sfocatura, ironia e rabbia: dentro l’abitazione ad annusare la famiglia nella problematica convivenza, al banco a fronteggiare il sorridente lavoro quotidiano di Eli e della sua compagna e amica straniera di fede musulmana, con le battute dei clienti assidui e i mugugni e le insofferenze padronali di Nicola, interpretato con sicura essenzialità da Francesco Acquaroli che, dice Eli, “non è cattivo” ma intanto le fa pagare con una diminuzione dello stipendio i ritardi involontari e si schiera con la cliente anche quando è insolente e razzista.
Storia d’amore e di lavoro, ma anche di amicizia femminile fondata saldamente su affetto, complicità e reciproco sostegno pur nella differenza tra la protagonista e Valentina (Eva Grieco) che abita nello stesso condominio, performer notturna ed ex studentessa di fisica, incompresa dalla madre e silenziosamente innamorata della ragazza con cui fa coppia negli spettacoli, Cuore sole amore rilancia e aggiorna la narrazione del disagio contemporaneo a diverse latitudini: dall’Inghilterra dell’ultimo Loach, un secco referto sulla mortale stupidità burocratica, all’America nera di Moonlight, da Virzì a più riprese negli ultimi anni sui temi dell’incertezza esistenziale, alla Fortunata di Castellitto (nonostante i troppi punti esclamativi) fino allo splendido Amelio della Tenerezza, altre vite inclassificabili e arrovellate in primo piano e a Cuori puri di Roberto De Paolis, ancora proletari, disoccupazione (e Rom) e periferia romana conflittuale.
L’aggiorna illuminando con passione controllata e voglia di capire la faccia scura della crisi priva di confini, la precarietà ormai rubricata come dato di natura e compone una storia esemplare di corpi presi nell’ingranaggio capitalistico della sopravvivenza con un senso del reale (la precisione mimetica dei dialoghi, la cura delle sfumature, degli sguardi) all’altezza della sfuggente ma concreta complessità dei tempi che viviamo.
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