
Può un libro di letteratura, senza alcuna ambizione esplicita di impegno militante, ma tutto incentrato sul rapporto intimo e quasi interiore tra una figlia e sua madre, dire sulla realtà sociale della Sicilia a cavallo tra la prima e la seconda metà del Novecento più di quanto possono fare decine di romanzi ideologicamente schierati, ma anche libri di inchiesta, manuali storici e saggi di taglio sociologico? Si tratta di una scommessa arrischiata, non c’è dubbio, non è facile venirne fuori dimostrando che l’azzardo ha pagato, ma è quello che forse può accertare chi si appresta a leggere Chilometro 9 (Fondazione Mario Luzi Editore, 2017), premio letterario internazionale Mario Luzi nel 2016 per la sezione del romanzo inedito e opera prima di narrativa della scrittrice e poetessa palermitana Giusi Russo (sua è la raccolta poetica Il cielo nell’anima, Edizioni Il Filo, 2003).
Il romanzo di Giusi Russo testimonia che un’opera di narrativa, il cui registro stilistico si muove entro un esplicito richiamo all’accuratezza formale dei grandi classici della letteratura, può offrire uno sguardo autentico e sincero non solo sulle grandi contraddizioni storiche di un’epoca, ma pure sulle profonde strutture mentali e le laceranti idiosincrasie di un intero mondo sociale, con le sue tradizioni, i suoi linguaggi, le sue culture. Il dono della letteratura risiede, in fondo, nella sua capacità, inafferrabile e misteriosa, di non lasciarsi incasellare dentro precise strutture formali e inflessibili dominanti stilistiche, le quali, a lungo andare, finiscono per rivelarsi infide e insincere. A pensarci bene, ciò che davvero conta appartiene all’effettivo uso della lingua, come può ben testimoniare la stessa cultura letteraria del Novecento.
Inseguendo il filo rosso di questi pensieri, si è sviluppata così l’attenzione di chi scrive nei confronti dell’opera letteraria della Russo, attenzione che, in alcune parti del testo, è stata scaturigine di commozione e afflato sentimentale. Il libro rimanda a un mondo di voci, pensieri, parole che risiede tra il mito di una Sicilia arcaica e contadina e il reale di una modernità che viene dipinta, anch’essa, come foriera di laceranti contraddizioni. Le vicende narrate si dipanano dagli anni ’20 agli anni ’60 del secolo scorso, precisamente il 1962, quando nasce la figura che nel libro assume il ruolo della voce narrante, la figlia di una donna, Salvina, ormai anziana e incapace di ragionare. Nel libro è la rappresentazione di una generazione nata nel primo dopoguerra, che viene dal mondo dei vinti e che, ceto subalterno, si dibatte disperatamente e vigorosamente nel tentativo di riuscire a rimediare alla penuria attraverso il soddisfacimento dei più elementari bisogni materiali. Il padre di Salvina è un misero contadino di Villarosa che, sciagura nella sciagura, muore prematuramente, condannando la figlia a una fanciullezza trascorsa nella cattività di un collegio religioso. Da questo limite l’orizzonte temporale entro il quale si svolge il racconto si prolunga fino alla soglia di quel mondo nel quale, fuoriusciti dalla povertà più arcaica e profonda, i protagonisti del romanzo possono cogliere la conquista, ancora timida, di un certo agio qual è quello che si profila attraverso l’irruzione della società dei consumi. Un quadro storico che fa da sfondo alla minorità dei subalterni e, tra i subalterni, alla condizione gregaria e asservita del genere femminile.
Dunque, la marginalità e, a un tempo, la centralità della differenza di genere: se c’è un tratto peculiare che caratterizza la narrazione è quello di ruotare tutta attorno a figure femminili. Innanzitutto il rapporto tra Salvina e sua figlia, un rapporto di reciproco rispecchiamento incentrato sulla stesura di un diario. Ma poi anche suor Veronica, Mariuccia e Rita. Il femminile è la cifra autentica di questo libro e, in quanto tale, fonte di una certa inquietudine perché racconto sul genere e del genere e fondativo di una lingua alternativa a quella del potere maschile. Non è un caso allora se la rappresentazione dei personaggi femminili dell’opera, con i loro lineamenti, i loro contorni e le loro scelte di vita risulta meglio definita della descrizione dei personaggi maschili. Unica eccezione, che consente di tirare un sospiro di sollievo a chi ha a cuore, dopo l’evaporazione del padre, l’elaborazione di un simbolico alternativo a quello patriarcale, sembra essere rappresentata dal Conte Bellasperanza, la prima figura maschile descritta a tutto tondo. Tuttavia, non a caso, si tratta di una figura che esprime le fattezze della diversità, la faccia sparuta di uno strampalato qualunque (p. 204), una condotta fuori contesto e che a fatica si relaziona, abituato alle buone maniere (p. 204) con la realtà sociale e culturale che la circonda. La sua foggia più importante è data dalla sua inaspettata limpidezza, la lucida accoglienza di un cuore già provato, il suo essere, con la sua forza, un mare rassicurante (p. 216).
La narrazione si dipana prendendo a tema, implicitamente, la rivendicazione della protagonista a gridare il proprio diritto di esistere, differente e purtuttavia uguale agli altri, accedendo così all’effettuale processo esistenziale del divenire soggetti. Attraverso la stesura abborracciata del proprio diario, Salvina acquisisce consapevolezza della propria identità, della propria fragilità e della propria forza. Il tempo insegue le sue viole, senza mai sentirne il profumo (p. 146), aveva sentito dire. E quella massima, rielaborata a modo proprio, era entrata nel diario, era stato l’atto, forse inaugurale, di un’intrusione, di un patto vellutato, appunto come le viole (p. 146), con il figlio più amato. In fondo, la stesura di un diario serve proprio a questo, a oggettivare il proprio sé, a prenderne le distanze e a rielaborarne il fine esistenziale. La scrittura, e le parole che in essa si materializzano, si rivelano un potente strumento di emancipazione soggettiva, ancor prima che intellettuale, una sorta di prisma attraverso il quale si rifrangono desideri, passioni, delusioni, ma soprattutto il dolore per la morte di ciò che è più caro, i propri figli, prima Angelino e Angela, poi l’amato Stefano e infine Michelino.
E tuttavia, in Salvina, piena di ricchezza sentimentale e di contraddizioni paralizzanti, emerge, prepotente, lo sforzo disperato e testardo di esistere, così acuto da rappresentare la cifra più significativa della sua esistenza. Peraltro, tutto il territorio della narrazione è attraversato, oltre che dallo sfondo autobiografico che lega il passato al presente, da figure la cui identità è lacerata e scossa sin nel profondo. Ne sono testimonianza, come si è detto, la vicenda della protagonista, la cui storia viene narrata nel momento in cui, già vecchia e irrimediabilmente malata, viene assistita dalla figlia che ne assume la supplenza, ma anche quella del marito, Giacomo, ferroviere sempre in cerca, da un casello all’altro, di un approdo definitivo. E, inoltre, le vite spezzate dei figli, Stefano innanzitutto, che con il loro tragico epilogo segnano la scansione temporale degli eventi e il ritmo stesso della narrazione.
Il romanzo di Giusi Russo contiene una preziosa qualità, oggi piuttosto rara tra chi si occupa di partorire libri. Si tratta della scrittura, della sua forma e del suo ritmo. La ricerca linguistica è meticolosa e scrupolosa, la cura lessicale attenta e pregevole. In un tempo in cui, nel nostro Paese, la forma stilistica della narrativa ha assunto un canone che troppo spesso si limita semplicemente a riprodurre un italiano stereotipato, scontato e convenzionale, la nostra scrittrice sente il bisogno di dare voce a un registro narrativo cólto e ricercato, ma nient’affatto artificioso e di maniera. Non c’è nessuna vanità in questo impegno, esso assume piuttosto la veste dello scavo psicologico, della ricerca interiore. La parola e il linguaggio sono adoperati come uno strumento, artigianale e poetico insieme, per dire il mondo, per misurarsi con esso, per decifrarlo, combatterlo e cambiarlo. Il talento di Giusi Russo, nella sua estenuante cura per la forma letteraria, ci racconta di quanto sia difficile e faticosa la strada della scrittura. Come un vero e proprio atto terapeutico, il dispositivo messo in opera nella scrittura insegna a stare con se stessi per dialogare con la parte abissale del sé, per sprofondare in quel versante remoto dell’anima da cui fare scaturire l’indicibile.
Il romanzo di Giusi Russo testimonia che un’opera di narrativa, il cui registro stilistico si muove entro un esplicito richiamo all’accuratezza formale dei grandi classici della letteratura, può offrire uno sguardo autentico e sincero non solo sulle grandi contraddizioni storiche di un’epoca, ma pure sulle profonde strutture mentali e le laceranti idiosincrasie di un intero mondo sociale, con le sue tradizioni, i suoi linguaggi, le sue culture. Il dono della letteratura risiede, in fondo, nella sua capacità, inafferrabile e misteriosa, di non lasciarsi incasellare dentro precise strutture formali e inflessibili dominanti stilistiche, le quali, a lungo andare, finiscono per rivelarsi infide e insincere. A pensarci bene, ciò che davvero conta appartiene all’effettivo uso della lingua, come può ben testimoniare la stessa cultura letteraria del Novecento.
Inseguendo il filo rosso di questi pensieri, si è sviluppata così l’attenzione di chi scrive nei confronti dell’opera letteraria della Russo, attenzione che, in alcune parti del testo, è stata scaturigine di commozione e afflato sentimentale. Il libro rimanda a un mondo di voci, pensieri, parole che risiede tra il mito di una Sicilia arcaica e contadina e il reale di una modernità che viene dipinta, anch’essa, come foriera di laceranti contraddizioni. Le vicende narrate si dipanano dagli anni ’20 agli anni ’60 del secolo scorso, precisamente il 1962, quando nasce la figura che nel libro assume il ruolo della voce narrante, la figlia di una donna, Salvina, ormai anziana e incapace di ragionare. Nel libro è la rappresentazione di una generazione nata nel primo dopoguerra, che viene dal mondo dei vinti e che, ceto subalterno, si dibatte disperatamente e vigorosamente nel tentativo di riuscire a rimediare alla penuria attraverso il soddisfacimento dei più elementari bisogni materiali. Il padre di Salvina è un misero contadino di Villarosa che, sciagura nella sciagura, muore prematuramente, condannando la figlia a una fanciullezza trascorsa nella cattività di un collegio religioso. Da questo limite l’orizzonte temporale entro il quale si svolge il racconto si prolunga fino alla soglia di quel mondo nel quale, fuoriusciti dalla povertà più arcaica e profonda, i protagonisti del romanzo possono cogliere la conquista, ancora timida, di un certo agio qual è quello che si profila attraverso l’irruzione della società dei consumi. Un quadro storico che fa da sfondo alla minorità dei subalterni e, tra i subalterni, alla condizione gregaria e asservita del genere femminile.
Dunque, la marginalità e, a un tempo, la centralità della differenza di genere: se c’è un tratto peculiare che caratterizza la narrazione è quello di ruotare tutta attorno a figure femminili. Innanzitutto il rapporto tra Salvina e sua figlia, un rapporto di reciproco rispecchiamento incentrato sulla stesura di un diario. Ma poi anche suor Veronica, Mariuccia e Rita. Il femminile è la cifra autentica di questo libro e, in quanto tale, fonte di una certa inquietudine perché racconto sul genere e del genere e fondativo di una lingua alternativa a quella del potere maschile. Non è un caso allora se la rappresentazione dei personaggi femminili dell’opera, con i loro lineamenti, i loro contorni e le loro scelte di vita risulta meglio definita della descrizione dei personaggi maschili. Unica eccezione, che consente di tirare un sospiro di sollievo a chi ha a cuore, dopo l’evaporazione del padre, l’elaborazione di un simbolico alternativo a quello patriarcale, sembra essere rappresentata dal Conte Bellasperanza, la prima figura maschile descritta a tutto tondo. Tuttavia, non a caso, si tratta di una figura che esprime le fattezze della diversità, la faccia sparuta di uno strampalato qualunque (p. 204), una condotta fuori contesto e che a fatica si relaziona, abituato alle buone maniere (p. 204) con la realtà sociale e culturale che la circonda. La sua foggia più importante è data dalla sua inaspettata limpidezza, la lucida accoglienza di un cuore già provato, il suo essere, con la sua forza, un mare rassicurante (p. 216).
La narrazione si dipana prendendo a tema, implicitamente, la rivendicazione della protagonista a gridare il proprio diritto di esistere, differente e purtuttavia uguale agli altri, accedendo così all’effettuale processo esistenziale del divenire soggetti. Attraverso la stesura abborracciata del proprio diario, Salvina acquisisce consapevolezza della propria identità, della propria fragilità e della propria forza. Il tempo insegue le sue viole, senza mai sentirne il profumo (p. 146), aveva sentito dire. E quella massima, rielaborata a modo proprio, era entrata nel diario, era stato l’atto, forse inaugurale, di un’intrusione, di un patto vellutato, appunto come le viole (p. 146), con il figlio più amato. In fondo, la stesura di un diario serve proprio a questo, a oggettivare il proprio sé, a prenderne le distanze e a rielaborarne il fine esistenziale. La scrittura, e le parole che in essa si materializzano, si rivelano un potente strumento di emancipazione soggettiva, ancor prima che intellettuale, una sorta di prisma attraverso il quale si rifrangono desideri, passioni, delusioni, ma soprattutto il dolore per la morte di ciò che è più caro, i propri figli, prima Angelino e Angela, poi l’amato Stefano e infine Michelino.
E tuttavia, in Salvina, piena di ricchezza sentimentale e di contraddizioni paralizzanti, emerge, prepotente, lo sforzo disperato e testardo di esistere, così acuto da rappresentare la cifra più significativa della sua esistenza. Peraltro, tutto il territorio della narrazione è attraversato, oltre che dallo sfondo autobiografico che lega il passato al presente, da figure la cui identità è lacerata e scossa sin nel profondo. Ne sono testimonianza, come si è detto, la vicenda della protagonista, la cui storia viene narrata nel momento in cui, già vecchia e irrimediabilmente malata, viene assistita dalla figlia che ne assume la supplenza, ma anche quella del marito, Giacomo, ferroviere sempre in cerca, da un casello all’altro, di un approdo definitivo. E, inoltre, le vite spezzate dei figli, Stefano innanzitutto, che con il loro tragico epilogo segnano la scansione temporale degli eventi e il ritmo stesso della narrazione.
Il romanzo di Giusi Russo contiene una preziosa qualità, oggi piuttosto rara tra chi si occupa di partorire libri. Si tratta della scrittura, della sua forma e del suo ritmo. La ricerca linguistica è meticolosa e scrupolosa, la cura lessicale attenta e pregevole. In un tempo in cui, nel nostro Paese, la forma stilistica della narrativa ha assunto un canone che troppo spesso si limita semplicemente a riprodurre un italiano stereotipato, scontato e convenzionale, la nostra scrittrice sente il bisogno di dare voce a un registro narrativo cólto e ricercato, ma nient’affatto artificioso e di maniera. Non c’è nessuna vanità in questo impegno, esso assume piuttosto la veste dello scavo psicologico, della ricerca interiore. La parola e il linguaggio sono adoperati come uno strumento, artigianale e poetico insieme, per dire il mondo, per misurarsi con esso, per decifrarlo, combatterlo e cambiarlo. Il talento di Giusi Russo, nella sua estenuante cura per la forma letteraria, ci racconta di quanto sia difficile e faticosa la strada della scrittura. Come un vero e proprio atto terapeutico, il dispositivo messo in opera nella scrittura insegna a stare con se stessi per dialogare con la parte abissale del sé, per sprofondare in quel versante remoto dell’anima da cui fare scaturire l’indicibile.
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