
In un romanzo che ci è piaciuto di scene che ci hanno colpito ce ne sono molte, ma quasi sempre ce n’è una che ci rimane in testa più di altre. Può essere la scena apicale, quella cioè dove la vertigine del racconto raggiunge il suo punto di tensione; oppure una scena più laterale, che però raggiunge un nostro personale punto di tensione perché ci tocca dove fa ‘ahi’, o al contrario ci viene incontro proprio lì dove stavamo sognando, e resta con noi a dirci che non siamo stupidi o pazzi. A me piace sempre fare una specie di gioco, che procede per esclusione e consiste nel trovare la scena di un romanzo che me lo racconta tutto in un’immagine sola. È la scena che non mi voglio scordare, il patrimonio che capitalizzo per incrementare il tesoro depositato nella banca dati della mia anima. Nel romanzo Divorare il cielo di Paolo Giordano [uscito qualche tempo fa presso Einaudi] la ‘mia’ scena è questa: ci sono cinque giovani di circa vent’anni che vivono in una comune nella provincia pugliese e una sera saltano in macchina, viaggiano per almeno tre ore per raggiungere un mattatoio sperduto nelle campagne di San Severo dove sono rinchiusi dei cavalli che l’indomani mattina saranno portati al macello. Vestiti di nero per mimetizzarsi nella notte, i ragazzi violano la proprietà privata, sollevano il paletto che blocca la porta e liberano i cavalli che si disperdono per tutta la campagna. Con la felicità dei giovani che vogliono cambiare il mondo si rimettono in macchina, fanno altre tre ore di strada nella notte e, soddisfatti, tornano a dormire nella masseria dove vivono. Un gesto. Liberare animali innocenti dalle manipolazioni umane. Salvare la natura. Salvarla solo in teoria perché è ovvio, ed è qui che questa scena mi tocca il cuore (dove fa ‘ahi’), che i cavalli verranno probabilmente tutti recuperati dai guardiani, che il gesto non servirà proprio a niente, che non fermerà certo il traffico della carne equina e che, bene che vada, ce ne potrà essere al massimo qualcuno (uno...?) che scamperà al suo destino di morte voluto dall’uomo. Ecco, è questo. Quello che mi tocca, è qui. Per quel solo cavallo che forse chissà, magari si salva e vivrà selvaggio nelle campagne andando incontro ad un altro destino, per il singolo che forse ce la fa e se non abbatte il sistema intero resta almeno un luminoso testimone di una libertà possibile, è per lui che ogni lotta diventa dignitosa, assume senso, è necessaria per affermarci ‘diversamente’ umani.
Quel gesto mi esalta, mi dà coraggio. Anzi, non il gesto in sé mi commuove, ma proprio la sua pateticità, la sproporzione ridicola a confronto dell’enormità inattaccabile del sistema. Infantile, donchisciottesco, un gesto perfettamente inutile e dunque talmente pieno di grazia da rendermi complice di quella ribellione (se non so fare altro, perlomeno idealmente): di quella lotta impari e picaresca che prende forme innumerevoli nella vita di ciascuno di noi, una guerra che non può essere vinta mai. Per tutte le volte (e sono tante) in cui l’ingiustizia si fa carne attraverso chi esercita il potere sugli umili, gli ultimi, gli indifesi che non hanno voce. Su quel singolo albero, ghiacciaio, migrante, animale che si poteva salvare e in difesa del quale nessuno di noi ha mosso un dito. Liberare i cavalli: un gesto anarchico, un’insurrezione destinata a fallire, com’è regola per ogni utopia. Divorare il cielo è la storia di questa battaglia persa a priori e dunque eroica che ci riguarda tutti, incarnata in questo caso nella vicenda di un gruppo di giovani che rifiutano la loro provenienza borghese e fondano una piccola comunità che difende la natura, smaschera gli sporchi giochi di potere di grossi imprenditori che speculano sul commercio di animali o cavalcano il falso allarme della malattia della xylella che ammazza gli ulivi. Ed è la storia del loro, del nostro fallimento che consiste nella circolarità, nel ritorno all’ordine con cui infine quasi tutti si reintegrano nel sistema, in quelle dinamiche ‘borghesi’ dopo aver provato a vivere allo stato di natura, nel rifiuto del profitto individuale, nell’abolizione della proprietà privata.
Giovani di vent’anni che rifiutando le logiche del Mercato e dello sfruttamento, costituiscono una comunità esemplare di un neofrancescanesimo laico eppure animato di religiosità cristiana (un rientro assai interessante questo tema, nel romanzo italiano contemporaneo), e rifondano una società ideale. C’è chi come Teresa ha lasciato il benessere economico della sua condizione familiare e trasforma i furori dell’adolescenza in scelta di vita, e chi come Corinne si ricorda di essere ‘figlio di papà’ e torna a casa con la prole prossima ventura. C’è chi, come Danco, assume il ruolo di capo ideologico e si fa arrestare pur di fare scoppiare lo scandalo che coinvolge imprenditori senza scrupoli e poteri forti; c’è perfino chi alla sua educazione libertaria reagisce con il suo opposto e intraprende la carriera militare.
E poi c’è il protagonista della storia, Bern, novello barone rampante (il romanzo è un dichiarato omaggio a Calvino) che vive sugli alberi per salvarli dalle istanze di abbattimento che nascondono interessi economici di insospettabile entità. ‘Prego ancora. Ma non so più chi prego’, è questa nostalgia di Dio che anima Bern, eroe anarchico e moderno anacoreta, allevato fin da bambino nell’amore di una casa-famiglia dove la bibbia si insegna con l’esempio e la scrittura è sacra perché la vita è sacra; Bern che dell’ecologismo fa la sua religione intransigente, fino a diventarne martire e dunque testimone duro e puro, fino a ritrovarsi in una grotta agonizzante e irraggiungibile, latore di un messaggio che rischia di disperdersi. Non fosse che per l’amore. Della donna che ne ha condiviso la sorte acquistando e per giunta con molto denaro una vita di stenti e solitudine e che, grazie alla fecondazione artificiale (cos’è ‘naturale’? ‘Naturale’ significa ‘giusto’? E cos’è più ‘giusto’, dare la vita a costo di manipolarla o rassegnarsi all’impossibilità fisiologica di procreare?), potrà dare alla luce, forse tramandare un messaggio. Bern capace di sognare per tutti un altro mondo, un mistico contemporaneo, un veggente ormai al confine della sua follia che sfiora la verità intrappolato dentro una caverna in Islanda, sulle cime di montagne irraggiungibili, luoghi sperduti del pianeta, fino a morirne. Amen.
Quel gesto mi esalta, mi dà coraggio. Anzi, non il gesto in sé mi commuove, ma proprio la sua pateticità, la sproporzione ridicola a confronto dell’enormità inattaccabile del sistema. Infantile, donchisciottesco, un gesto perfettamente inutile e dunque talmente pieno di grazia da rendermi complice di quella ribellione (se non so fare altro, perlomeno idealmente): di quella lotta impari e picaresca che prende forme innumerevoli nella vita di ciascuno di noi, una guerra che non può essere vinta mai. Per tutte le volte (e sono tante) in cui l’ingiustizia si fa carne attraverso chi esercita il potere sugli umili, gli ultimi, gli indifesi che non hanno voce. Su quel singolo albero, ghiacciaio, migrante, animale che si poteva salvare e in difesa del quale nessuno di noi ha mosso un dito. Liberare i cavalli: un gesto anarchico, un’insurrezione destinata a fallire, com’è regola per ogni utopia. Divorare il cielo è la storia di questa battaglia persa a priori e dunque eroica che ci riguarda tutti, incarnata in questo caso nella vicenda di un gruppo di giovani che rifiutano la loro provenienza borghese e fondano una piccola comunità che difende la natura, smaschera gli sporchi giochi di potere di grossi imprenditori che speculano sul commercio di animali o cavalcano il falso allarme della malattia della xylella che ammazza gli ulivi. Ed è la storia del loro, del nostro fallimento che consiste nella circolarità, nel ritorno all’ordine con cui infine quasi tutti si reintegrano nel sistema, in quelle dinamiche ‘borghesi’ dopo aver provato a vivere allo stato di natura, nel rifiuto del profitto individuale, nell’abolizione della proprietà privata.
Giovani di vent’anni che rifiutando le logiche del Mercato e dello sfruttamento, costituiscono una comunità esemplare di un neofrancescanesimo laico eppure animato di religiosità cristiana (un rientro assai interessante questo tema, nel romanzo italiano contemporaneo), e rifondano una società ideale. C’è chi come Teresa ha lasciato il benessere economico della sua condizione familiare e trasforma i furori dell’adolescenza in scelta di vita, e chi come Corinne si ricorda di essere ‘figlio di papà’ e torna a casa con la prole prossima ventura. C’è chi, come Danco, assume il ruolo di capo ideologico e si fa arrestare pur di fare scoppiare lo scandalo che coinvolge imprenditori senza scrupoli e poteri forti; c’è perfino chi alla sua educazione libertaria reagisce con il suo opposto e intraprende la carriera militare.
E poi c’è il protagonista della storia, Bern, novello barone rampante (il romanzo è un dichiarato omaggio a Calvino) che vive sugli alberi per salvarli dalle istanze di abbattimento che nascondono interessi economici di insospettabile entità. ‘Prego ancora. Ma non so più chi prego’, è questa nostalgia di Dio che anima Bern, eroe anarchico e moderno anacoreta, allevato fin da bambino nell’amore di una casa-famiglia dove la bibbia si insegna con l’esempio e la scrittura è sacra perché la vita è sacra; Bern che dell’ecologismo fa la sua religione intransigente, fino a diventarne martire e dunque testimone duro e puro, fino a ritrovarsi in una grotta agonizzante e irraggiungibile, latore di un messaggio che rischia di disperdersi. Non fosse che per l’amore. Della donna che ne ha condiviso la sorte acquistando e per giunta con molto denaro una vita di stenti e solitudine e che, grazie alla fecondazione artificiale (cos’è ‘naturale’? ‘Naturale’ significa ‘giusto’? E cos’è più ‘giusto’, dare la vita a costo di manipolarla o rassegnarsi all’impossibilità fisiologica di procreare?), potrà dare alla luce, forse tramandare un messaggio. Bern capace di sognare per tutti un altro mondo, un mistico contemporaneo, un veggente ormai al confine della sua follia che sfiora la verità intrappolato dentro una caverna in Islanda, sulle cime di montagne irraggiungibili, luoghi sperduti del pianeta, fino a morirne. Amen.
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