
LONTANI E VICINI
IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
di Vincenzo Scalia 07 aprile 2020
IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
di Vincenzo Scalia 07 aprile 2020
Keir Starmer, figlio di una famiglia operaia di Southwark (sud di Londra), avvocato degli attivisti, è il nuovo leader dei laburisti britannici. È stato eletto col 56% dei consensi, contro il 28% della corbyninana Rebecca Long-Bailey e il 16% della populista Lisa Nandy. La sua elezione suscita ben più di una perplessità.
L’ascesa di Jeremy Corbyn, avvenuta nel 2015, aveva acceso più di una speranza nella sinistra inglese ed europea. Dopo anni di “terza via” clintonian-blairian-d’alemiana, che altro non era un modo di traghettare la sinistra tra le braccia del neo-liberismo della new economy allora dominante, tornava un leader che diceva cose di sinistra: nazionalizzazione dei servizi pubblici, rilancio del welfare, abolizione delle tasse universitarie. Ma soprattutto: scelte radicali in politica estera, contro il programma nucleare del Regno Unito, a favore dello Stato palestinese, apertamente contro la politica israeliana di fagocitazione de facto dei territori occupati. Alla fine, Corbyn non ha saputo sfruttare l’apertura di credito che l’elettorato di sinistra inglese gli aveva concesso, pagando la sua incapacità di intercettare la posizione, in particolare dei più giovani, avversa alla Brexit.
Il nuovo leader dal canto suo ha già messo al primo punto del proprio programma la lotta contro “ogni forma di antisemitismo” da parte del partito laburista, dando forza, in questa maniera, a chi accusava la precedente leadership di nutrire un pregiudizio anti-ebraico e di alimentarlo all’interno del partito. Questa dichiarazione programmatica rappresenta ben più di un gesto simbolico, dal momento che in questi 5 anni la suddetta controversia aveva rappresentato l’arma principale nelle mani della destra blairiana per delegittimare Corbyn, ed era stata assunta a pretesto per la scissione del febbraio 2020, finendo per indebolire il Labour nella sua corsa verso Downing Street. La sua connotazione blairiana sta nell’assumere un significato liberatorio rispetto al recente passato del partito. Non bisogna dimenticare che Tony Blair era stato costretto a dimettersi sull’onda delle polemiche scatenatesi a seguito della scoperta della manipolazione delle prove sul possesso delle armi di distruzione di massa da parte dell’allora dittatore iracheno Saddam Hussein, passaggio decisivo per lo schieramento di Downing Street a fianco degli USA nella seconda guerra del Golfo. Il prolungato battere sul tasto dell’anti-semitismo da parte dei blairiani si radica in ragioni che vanno al di là delle questioni di principio. Dal momento che era stata la guerra del Golfo la causa della loro uscita di scena, nonché quella della ricerca di una politica estera alternativa, soltanto un’accusa di razzismo poteva esercitare il contrappeso necessario per scalzare le ragioni della sinistra, e riproporre una politica estera filoamericana. Questa mossa rappresenterebbe il cavallo di Troia per ritornare al liberismo caritatevole proposto da Tony Blair, magari arricchito di abboccamenti verso la presidenza Trump in funzione degli investimenti che il presidente USA ha promesso di effettuare nel Regno Unito dopo la Brexit.
In secondo luogo preoccupano le dichiarazioni del neo-leader laburista, che si dichiara pronto a collaborare con l’attuale governo per affrontare la fase critica del coronavirus. Se da un lato si possono comprendere le ragioni di un invito alla compattezza, anche alla luce del tradizionale afflato patriottico che contraddistingue la Gran Bretagna in situazioni critiche, un nuovo leader, proprio in questo momento, dovrebbe prendere le distanze da Boris Johnson. Non soltanto perché un partito di opposizione deve e può, anche in nome dell’interesse nazionale, distinguersi e proporre delle soluzioni alternative che contribuiscano ad arricchire il ventaglio di possibilità necessarie ad affrontare la crisi attuale. E nemmeno perché in questo momento i laburisti arrancano nei sondaggi. Sopra ogni altra cosa, il modo in cui la crisi del coronavirus si delinea nel Regno Unito, ma anche fuori, evidenzia le criticità del modello neo-liberale, nonché dell’approccio adottato da Boris Johnson. Il primo ministro, infatti, ha cercato di rinviare fino all’ultimo il varo di misure drastiche, puntando sull’auto-controllo dei suoi concittadini e sull’immunità di gregge. Quando finalmente ha introdotto il lockdown, il suo slogan è stato “defend your NHS” ovvero difendete il vostro sistema sanitario nazionale. Uno slogan cinico, che da un lato rovescia i termini della questione, dall’altro la dice lunga sullo stato della sanità britannica. Difendere il sistema sanitario nazionale, infatti, equivale a dire che la tutela della salute dei cittadini, il vero obiettivo della sanità pubblica, passa in secondo piano rispetto alle capacità di quest’ultima di affrontare situazioni critiche. Inoltre, invitando all’auto-controllo, si sposta la responsabilità di eventuali patologie sul cittadino, sollevando lo Stato da ogni responsabilità. Questo approccio è in linea con le politiche sanitarie che i governi britannici hanno intrapreso negli ultimi quarant’anni, ovvero a partire dall’ascesa di Margaret Thatcher al governo. Né Blair né Brown hanno invertito la tendenza a tagliare sulle assunzioni (salvo ricorrere a personale UE e del Commonwealth), sulla costruzione di nuovi nosocomi, sulla medicina di base, sull’acquisto di nuove attrezzature. Si è preferito piuttosto redigere dei leaflets informativi, che mettono al corrente i pazienti delle modalità in cui si contrae una patologia e dei rischi che si corrono, così da responsabilizzarli individualmente. E se da un lato i painkillers, ovvero gli anti-dolorifici, proliferano sugli scaffali dei supermercati e dei negozi dell’angolo, dall’altro lato i medici di base inviano SMS per dare consigli e “ricevono” per telefono, onde non intasare un sistema ridotto all’osso. Theresa May, prima di dimettersi, aveva lanciato una “riforma” del sistema sanitario che si prefiggeva di effettuare le TAC e i raggi X presso le palestre e i supermercati, mentre durante la campagna elettorale era venuto alla luce un piano per subappaltare pezzi significativi del sistema sanitario britannico a compagnie controllate da Donald Trump! Nel frattempo gli ospedali delle aree più benestanti possono adottare la scelta dell’opt out, garantita dalla Thatcher sin dal 1987, per abbandonare la sanità pubblica e auto-privatizzarsi.
Questo è il sistema sanitario che si trova ad affrontare il coronavirus. Tale situazione dovrebbe essere denunciata, proprio in nome dell’interesse nazionale, dal leader del partito di opposizione, che, come primo atto, dovrebbe imprimere un segno di sinistra alle critiche alla gestione del coronavirus da parte di Boris Johnson che provengono dai suoi antichi sponsor, come il Daily Telegraph. Dubitiamo che Mr. Starmer lo farà. È figlio della new economy, nel 2016 si distinse tra i congiurati più attivi per costringere Corbyn alle dimissioni, e non può rinnegare le scelte del suo padrino Blair. Downing Street è sempre più lontana.
L’ascesa di Jeremy Corbyn, avvenuta nel 2015, aveva acceso più di una speranza nella sinistra inglese ed europea. Dopo anni di “terza via” clintonian-blairian-d’alemiana, che altro non era un modo di traghettare la sinistra tra le braccia del neo-liberismo della new economy allora dominante, tornava un leader che diceva cose di sinistra: nazionalizzazione dei servizi pubblici, rilancio del welfare, abolizione delle tasse universitarie. Ma soprattutto: scelte radicali in politica estera, contro il programma nucleare del Regno Unito, a favore dello Stato palestinese, apertamente contro la politica israeliana di fagocitazione de facto dei territori occupati. Alla fine, Corbyn non ha saputo sfruttare l’apertura di credito che l’elettorato di sinistra inglese gli aveva concesso, pagando la sua incapacità di intercettare la posizione, in particolare dei più giovani, avversa alla Brexit.
Il nuovo leader dal canto suo ha già messo al primo punto del proprio programma la lotta contro “ogni forma di antisemitismo” da parte del partito laburista, dando forza, in questa maniera, a chi accusava la precedente leadership di nutrire un pregiudizio anti-ebraico e di alimentarlo all’interno del partito. Questa dichiarazione programmatica rappresenta ben più di un gesto simbolico, dal momento che in questi 5 anni la suddetta controversia aveva rappresentato l’arma principale nelle mani della destra blairiana per delegittimare Corbyn, ed era stata assunta a pretesto per la scissione del febbraio 2020, finendo per indebolire il Labour nella sua corsa verso Downing Street. La sua connotazione blairiana sta nell’assumere un significato liberatorio rispetto al recente passato del partito. Non bisogna dimenticare che Tony Blair era stato costretto a dimettersi sull’onda delle polemiche scatenatesi a seguito della scoperta della manipolazione delle prove sul possesso delle armi di distruzione di massa da parte dell’allora dittatore iracheno Saddam Hussein, passaggio decisivo per lo schieramento di Downing Street a fianco degli USA nella seconda guerra del Golfo. Il prolungato battere sul tasto dell’anti-semitismo da parte dei blairiani si radica in ragioni che vanno al di là delle questioni di principio. Dal momento che era stata la guerra del Golfo la causa della loro uscita di scena, nonché quella della ricerca di una politica estera alternativa, soltanto un’accusa di razzismo poteva esercitare il contrappeso necessario per scalzare le ragioni della sinistra, e riproporre una politica estera filoamericana. Questa mossa rappresenterebbe il cavallo di Troia per ritornare al liberismo caritatevole proposto da Tony Blair, magari arricchito di abboccamenti verso la presidenza Trump in funzione degli investimenti che il presidente USA ha promesso di effettuare nel Regno Unito dopo la Brexit.
In secondo luogo preoccupano le dichiarazioni del neo-leader laburista, che si dichiara pronto a collaborare con l’attuale governo per affrontare la fase critica del coronavirus. Se da un lato si possono comprendere le ragioni di un invito alla compattezza, anche alla luce del tradizionale afflato patriottico che contraddistingue la Gran Bretagna in situazioni critiche, un nuovo leader, proprio in questo momento, dovrebbe prendere le distanze da Boris Johnson. Non soltanto perché un partito di opposizione deve e può, anche in nome dell’interesse nazionale, distinguersi e proporre delle soluzioni alternative che contribuiscano ad arricchire il ventaglio di possibilità necessarie ad affrontare la crisi attuale. E nemmeno perché in questo momento i laburisti arrancano nei sondaggi. Sopra ogni altra cosa, il modo in cui la crisi del coronavirus si delinea nel Regno Unito, ma anche fuori, evidenzia le criticità del modello neo-liberale, nonché dell’approccio adottato da Boris Johnson. Il primo ministro, infatti, ha cercato di rinviare fino all’ultimo il varo di misure drastiche, puntando sull’auto-controllo dei suoi concittadini e sull’immunità di gregge. Quando finalmente ha introdotto il lockdown, il suo slogan è stato “defend your NHS” ovvero difendete il vostro sistema sanitario nazionale. Uno slogan cinico, che da un lato rovescia i termini della questione, dall’altro la dice lunga sullo stato della sanità britannica. Difendere il sistema sanitario nazionale, infatti, equivale a dire che la tutela della salute dei cittadini, il vero obiettivo della sanità pubblica, passa in secondo piano rispetto alle capacità di quest’ultima di affrontare situazioni critiche. Inoltre, invitando all’auto-controllo, si sposta la responsabilità di eventuali patologie sul cittadino, sollevando lo Stato da ogni responsabilità. Questo approccio è in linea con le politiche sanitarie che i governi britannici hanno intrapreso negli ultimi quarant’anni, ovvero a partire dall’ascesa di Margaret Thatcher al governo. Né Blair né Brown hanno invertito la tendenza a tagliare sulle assunzioni (salvo ricorrere a personale UE e del Commonwealth), sulla costruzione di nuovi nosocomi, sulla medicina di base, sull’acquisto di nuove attrezzature. Si è preferito piuttosto redigere dei leaflets informativi, che mettono al corrente i pazienti delle modalità in cui si contrae una patologia e dei rischi che si corrono, così da responsabilizzarli individualmente. E se da un lato i painkillers, ovvero gli anti-dolorifici, proliferano sugli scaffali dei supermercati e dei negozi dell’angolo, dall’altro lato i medici di base inviano SMS per dare consigli e “ricevono” per telefono, onde non intasare un sistema ridotto all’osso. Theresa May, prima di dimettersi, aveva lanciato una “riforma” del sistema sanitario che si prefiggeva di effettuare le TAC e i raggi X presso le palestre e i supermercati, mentre durante la campagna elettorale era venuto alla luce un piano per subappaltare pezzi significativi del sistema sanitario britannico a compagnie controllate da Donald Trump! Nel frattempo gli ospedali delle aree più benestanti possono adottare la scelta dell’opt out, garantita dalla Thatcher sin dal 1987, per abbandonare la sanità pubblica e auto-privatizzarsi.
Questo è il sistema sanitario che si trova ad affrontare il coronavirus. Tale situazione dovrebbe essere denunciata, proprio in nome dell’interesse nazionale, dal leader del partito di opposizione, che, come primo atto, dovrebbe imprimere un segno di sinistra alle critiche alla gestione del coronavirus da parte di Boris Johnson che provengono dai suoi antichi sponsor, come il Daily Telegraph. Dubitiamo che Mr. Starmer lo farà. È figlio della new economy, nel 2016 si distinse tra i congiurati più attivi per costringere Corbyn alle dimissioni, e non può rinnegare le scelte del suo padrino Blair. Downing Street è sempre più lontana.
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