
LA CRISI VISTA DAL SUD
IL DUBBIO ARAMAICO DI UNA SINISTRA INTROVABILE
A margine di una inutile campagna elettorale
di Roberto Salerno 24 febbraio 2017
IL DUBBIO ARAMAICO DI UNA SINISTRA INTROVABILE
A margine di una inutile campagna elettorale
di Roberto Salerno 24 febbraio 2017
Ci auguriamo che queste riflessioni possano avviare una discussione sulla città che guardi oltre la scadenza elettorale.
Il primo marzo del 2012, all’ennesima domanda del solito giornalista, Leoluca Orlando rispose: “Il sindaco l’ho già fatto e non lo farò più, come devo dirlo, in aramaico?” Fu l’esito delle primarie del PD con la contestata vittoria di Ferrandelli su Rita Borsellino a far cambiare opinione a colui che è alla guida della città di Palermo dal 1985, fatta salva, posto che sia il caso di ricordarlo, la lunga parentesi di dieci anni dell’era-Cammarata. (Nel 1985 il sindaco di Torino era Diego Novelli; quello di Milano Tognoli; quello di Genova Fulvio Cerofolini; quello di Bologna Renzo Imbeni; a Firenze c’era Massimo Bogianckino; a Roma Ugo Vetere; a Napoli Carlo d’Amato. Il ventesimo anno di “governo” lo condurrebbe ad eguagliare il primato di Dozza che a Bologna fu sindaco ininterrottamente dal 1945 al 1965). Orlando ha provato un paio di puntate extracittadine. La prima all’inizio degli anni ’90, quando sembrava l’uomo sul quale la Democrazia Cristiana potesse impostare un tardivo rinnovamento; ipotesi poi abbandonata in favore della fondazione di un movimento di carattere più o meno nazionale (La Rete, che non arrivò mai al 2% dei voti nelle elezioni politiche). La seconda agli inizi del secolo, quando abbandonò la carica di sindaco per preparare la candidatura alla Presidenza della Regione Siciliana. Anche in questo secondo caso Orlando non fu troppo fortunato, subendo una dura lezione da Salvatore Cuffaro.
Tornato a concorrere per la carica di Sindaco di Palermo nel 2007, fu stavolta Cammarata a sconfiggerlo, e con qualche polemica.
Ce n’è abbastanza per concludere che la vicenda di Orlando travalica da tempo quella di qualsiasi altro esponente politico locale: da 32 anni ormai la sua figura è inscindibile da quella della città. Era pressoché inevitabile che una vicenda così viscerale finisse per polarizzare le posizioni di commentatori e analisti: anche se a dire il vero il campo orlandiano sulla “polarizzazione” ha giocato sin dall’inizio, quando avanzare dubbi sulle modalità di gestione della città e sui risultati conseguiti, già alla fine degli anni ’80, significava sic et simpliciter doversi difendere da accuse varie di mafiosità. Il che era anche abbastanza grottesco se arrivavano da un rivedibile pulpito, considerato il percorso politico tutto all’interno della Democrazia Cristiana. Le polemiche di quegli anni, tra i tanti risultati, ne conseguirono uno che qualsiasi forza di sinistra avrebbe dovuto provare in tutti i modi a evitare. Complici sia eventi epocali che più banali ingenuità di dirigenti travolti dalla “fine del mondo”, il PCI, mai particolarmente forte in città, scomparve del tutto. E a scomparire non fu solo il nome, trasformandosi in PDS prima in DS poi via via fino alle avventure del PD (“o come si chiama ora”, verrebbe da dire citando uno dei tanti opportunisti che si sono avvicendati alla guida di quell’aggregazione politica) ma la stessa idea di poter essere un partito di classe.
La sconfitta del comunismo portava con sé la trasformazione dell’orizzonte politico per la sinistra istituzionale. Non si attaccava più l’intollerabile diseguaglianza tra classi ma si cercava di risolvere bisogni comuni. Cioè interclassisti. Per questo, anche per questo, provare a rispondere a una domanda di per sé non troppo semplice – come ha governato Orlando la città di Palermo? – è un’impresa inutile, perché il dibattito è tra sordi e terribilmente viziato dall’ideologia imperante: si agisce per la città, non per le classi.
Così non sorprende che siano via via scomparsi dall’agenda delle élite locali questioni come l’occupazione o il livello del reddito per fare spazio ad altri temi, più spendibili, perché – dicono – interclassisti. Il verde pubblico, i trasporti, i rifiuti, la cultura. Temi che nell’immaginario di politici e commentatori riguardano tutti e che si prestano perfettamente al mantra “né di destra né di sinistra” che così tanto successo riscuote di questi tempi. E che ovviamente non possono che finire declinati da destra.
Se questa trasformazione è davvero avvenuta – com’è avvenuta – diventa del tutto naturale sia entrare nella logica del “meno peggio” (ci sarà sempre qualcuno peggiore di chi state criticando) ma soprattutto diventa incomprensibile la competizione partitica. Se tutti hanno lo stesso programma (risolvere i problemi comuni) la competizione non potrà che avere lo stesso elettorato di riferimento, trasformato anch’esso in una indistinta e incattivita poltiglia destrorsa. Cosa ci starebbero a fare i partiti, espressioni di visioni del mondo differenti se non del tutto contrapposte?
Così, si è passati senza capirci molto dal decennio orlandiano di fine anni ’90 a quello di centrodestra dei primi anni del secolo, con risultati che non consentono di districarsi in modo particolarmente efficace sulle differenze tra i due periodi in questione. E in effetti, a guardare i dati, di differenze non ce ne sono poi tante. E tra queste, alcune sembrano addirittura rilevare un rendimento migliore nel periodo oscuro, come viene definito da molti quello di Cammarata. Per fare qualche esempio la città riusciva a tirare fuori qualche soldo in più dai propri musei, specificamente dalla GAM; l’aeroporto di Palermo aveva più voli, ed è nettamente sceso il numero dei passeggeri sui trasporti pubblici, (26,1 milioni nel 2014 a fronte dei 35,8 del 2010).
Dal 2002 la città si è dotata di un annuario di statistica. Per quanto campeggi in bella vista una misteriosa avvertenza (“i documenti pubblicati su queste pagine sono solo a titolo informativo”) l’annuario è uno strumento utile per avere un quadro, magari non precisissimo – l’avvertenza ha raggiunto il suo scopo: meglio non fidarsi troppo – ma indicativo di come (non) cambiano le cose a Palermo.
Se prendiamo come riferimento il 2002 (anno primo dell’era Cammarata) e il 2014 (ultimo annuario disponibile, anno secondo della terza era Orlando) scopriamo che la popolazione residente è diminuita di poco (da 686.722 a 678.492), che sono aumentati gli anziani (da 103.845 a 129.147), che uomini e donne confermano le rispettive percentuali (47,8 e 52,2). Nel 2002 il saldo migratorio (immigrati-emigrati) era negativo (- 4.544) e negativo è rimasto nel 2014 (- 1.968). Parte cioè più gente di quanta ne arrivi.
Ma naturalmente sono altri i dati che interessano. Per quanto sia complicato stabilire una sorta di elenco di priorità valido per tutti, si può essere abbastanza concordi nel ritenere alcuni parametri come occupazione, livelli di reddito, livelli di povertà, dati ambientali (raccolta differenziata, qualità dell’aria) dotazione infrastrutturale (passeggeri trasporto pubblico) come rilevanti. Su alcuni può esserci il dubbio che la possibilità di variarli non sia nella disponibilità dell’amministrazione comunale – ci torneremo in seguito – e anche quelli che si può ipotizzare siano diretta conseguenza dell’azione amministrativa vanno trattati con cautela: un miglioramento di alcuni parametri non necessariamente implica un giudizio positivo per l’amministrazione e, specularmente, un peggioramento non è necessariamente una bocciatura.
Quello che invece possiamo cominciare a indicare è il motivo della scelta di un dato invece che un altro. Di alcuni, abbiamo detto, ci viene in soccorso l’autoevidenza. Sembra non possano sussistere dubbi sul fatto che in una città in cui la disoccupazione diminuisce o i livelli di reddito si alzano si viva meglio. Per gli altri ci siamo basati invece sulle stesse dichiarazioni dei protagonisti: il dato ambientale – specificamente il problema della raccolta dei rifiuti – per esempio è stato più volte evocato dal Sindaco, così come il dato assistenziale o il tentativo di migliorare l’efficienza dei trasporti urbani.
Insomma, possono esserci punti di vista differenti sulla specifica azione amministrativa ma se si ritiene di prendere in esame altri parametri, questi andranno spiegati. Molto si parla del “risanamento” delle aziende pubbliche, per esempio. Che si tratti di un valore in sé è incerto, visto che in linea strettamente teorica l’azienda pubblica va valutata sulla capacità o meno di offrire dei servizi soddisfacenti. Siamo consapevoli che esistono linee di ricerca – a partire probabilmente dal New Public Management, a sua volta probabilmente filiazione diretta della famigerata crisi fiscale delle amministrazioni locali degli anni ’70 – che privilegiano la compatibilità economica. A nostro avviso, per fare un esempio classico, risparmiare il 50% su una biblioteca significa concretamente non comprare libri o diminuire l’accesso degli utenti. Non riusciremmo quindi ad annoverarli tra i “successi” di una determinata azione politico-amministrativa.
Se qualcuno pensa che almeno su questi dati ci si possa mettere d’accordo è ovviamente fuori strada. Sia che si utilizzino parametri ampi (l’occupazione, il livello di reddito) sia che si utilizzi qualche dato che sembra più maneggevole (la raccolta differenziata) ci si scontrerà inevitabilmente con letture diverse dello stesso fenomeno. E questo a prescindere della difficoltà di reperire dei dati “puliti”. Potremmo così anche prendere il dato occupazionale e ricordare che secondo uno studio della CISL il tasso di occupazione a Palermo era del 44,7% nel 2005. Nel 2016 si era ridotto al 41,1. In valore assoluto si è passati dai 207.000 occupati del 2005 ai 188.000 del 2015 (2). È un dato significativo?
Stesso discorso se guardiamo i dati relativi alla raccolta differenziata.
Secondo i rapporti dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) la raccolta differenziata è passata dal 7,1% del biennio 2001-02 al 6,61% del 2011 per tornare al 7,8% nel 2015. Firenze nello stesso periodo è passata dal 26,4% del 2002 al 30,59% del 2011 per arrivare, al 2016, al 51,7%.
Di nuovo: che considerazioni si possono fare su questi dati?
È forse inutile continuare con gli esempi, anche se perlomeno le politiche sociali meritano un cenno. Anche lì le variazioni sono minime. Il “Comitato di lotta per la casa 12 Luglio” ha a lungo denunciato una sorta di inefficienza della Giunta. Nel 2015 la giunta ha stanziato circa 97 milioni di Euro impegnandone meno della metà (il 40,8%) e spendendo appena 21 milioni (il 22% scarso). Questo a fronte di un’emergenza abitativa aumentata.
Questi tre casi non sono qui utilizzati per incentivare chissà quale giudizio, e ragionamenti simili sarebbe possibile farne per ogni città e per ogni altro settore di policy (quello dei trasporti pubblici, per fare un ulteriore esempio). E in ogni caso esistono ormai obiezioni consolidate. Tre in particolare vengono utilizzate dai “buoni amministratori”:
1) La prima è quello dell’irrilevanza dell’attività amministrativa su certi parametri. L’occupazione, il reddito, il livello di povertà, lo sviluppo in senso più o meno ampio, dipenderebbero da livelli di governo ben diversi da quello sotto la diretta responsabilità dell’apparato comunale. E quindi non è su questo che va giudicato l’operato di una giunta.
2) La seconda obiezione riguarda invece il confronto con un’ipotetica alternativa. Sì, le cose sono andate male, ma se non ci fossimo stati noi, se non avessimo messo in atto quelle policy considerata la congiuntura nazionale, europea, mondiale, le cose sarebbero andate molto peggio.
3) Infine, c’è l’obiezione “tecnica”, interconnessa con la precedente: non è possibile fare un confronto “pre-post”: avrebbe invece più senso andare a verificare cos’è successo nelle città in qualche modo comparabili a Palermo. Solo la differenza tra le due esperienze ci potrà dire qualcosa di più.
In realtà questi sono argomenti buoni per un dibattito più o meno scientifico. Ma la campagna elettorale verrà tutta impostata – come sempre – su argomenti risibili: si è già cominciato a farlo. Da tempo Palermo si attorciglia sulla ZTL o sulla questione delle nuove linee del tram e anche lì è complicato già stabilire se davvero meriti e colpe vanno assegnati a questa amministrazione o alla precedente. E non è certo un caso se è praticamente impossibile, in parole e programmi dei candidati alternativi ad Orlando, comprendere quali sarebbero le colpe dell’eterno sindaco palermitano e quali i motivi per votarli, al di là di una generica necessità di “ricambio”.
Giova però sottolineare che queste finte alternative non significa certo che non esista una qualche forma di competizione tutta interna a quella che una volta si chiamava “classe dominante”. Alcuni semplici meccanismi, che sembrano neutri – come l’allargare ad imprese la possibilità di intervenire sul centro storico, facoltà riservata in un primo tempo ai soli soggetti privati – sono l’esito non solo di tentativi estremi di riqualificazione, ma anche di variazioni del gruppo sociale di riferimento. Ulteriore indicatore del fatto che la domanda “chi ci guadagna?” non è più essenziale, visto che la riqualificazione (come l’ambiente, il traffico, la cultura) sono beni in sé, e quindi la risposta sarà sempre: “ma la città!”
Un ulteriore soccorso all’ideologia imperante viene ovviamente offerto dalle scienze sociali, ormai appiattite sull’idea della competitività tra i vari centri urbani, ed esclusivamente occupate a misurare misteriose “ricadute sulla città” grazie alla cultura, all’ambiente, al civismo, al famigerato capitale sociale. Tutti perdono e tutti vincono a prescindere del proprio ruolo sociale e, figurarsi, della propria classe di appartenenza.
In tutto questo risulta misterioso lo spazio per una forza di sinistra così cannibalizzata dalla figura di Orlando. È indubbiamente vero che sul piano dei diritti civili e delle politiche simboliche la Giunta Orlando è stata da sempre un esempio virtuoso. La concessione di cittadinanze onorarie a condannati a morte, o ad Ochalan e Soynka, non sono soltanto vanagloriosi tentativi di partecipare alla politica mondiale, ma testimoniano una sensibilità che sarebbe sciocco non riconoscere, soprattutto di questi tempi. Ma il fatto che queste “semplici” decisioni civili siano l’unica cosa a cui appigliarsi non è un gran bel segno.
Il problema non è il giudizio sull’uomo, un democristiano che tutto sommato non è mai cambiato. E se è vero che, come detto in apertura, Orlando è rimasto l’unico a non essere mai realmente passato ad altro, facendo diventare Palermo la propria Neverland degna di essere analizzata più dagli studiosi di psicologia politica che da sociologi e politologi, è anche vero che la discussione all’interno degli ambienti di sinistra palermitani è stata largamente insufficiente. L’essersi fatti trascinare nell’approdo finale della parabola interclassista (“il mio partito è Palermo”) è qualcosa che fa rabbrividire, perché mostra come la competizione elettorale è giocata solo e soltanto con le armi degli avversari. A partire dal nascondersi, perché di questo si tratta quando si rinuncia al simbolo. Questo è quello che Orlando sta chiedendo alla sinistra e non solo al PD: volete vincere non si sa bene per fare cosa? Bene, allora intanto vergognatevi di quello che siete, perché se vincerete non si sa bene cosa, vincerete perché siete con me, non perché comunisti o chissà cosa.
Non è mai troppo tardi per cambiare.
Ma il dubbio è che alla fine, di questi dati, importi poco. Se è vero che non esiste una reale alternativa al “governo dell’esistente”, il modo in cui questo verrà affrontato è buono solo per gli addetti ai lavori.
Il primo marzo del 2012, all’ennesima domanda del solito giornalista, Leoluca Orlando rispose: “Il sindaco l’ho già fatto e non lo farò più, come devo dirlo, in aramaico?” Fu l’esito delle primarie del PD con la contestata vittoria di Ferrandelli su Rita Borsellino a far cambiare opinione a colui che è alla guida della città di Palermo dal 1985, fatta salva, posto che sia il caso di ricordarlo, la lunga parentesi di dieci anni dell’era-Cammarata. (Nel 1985 il sindaco di Torino era Diego Novelli; quello di Milano Tognoli; quello di Genova Fulvio Cerofolini; quello di Bologna Renzo Imbeni; a Firenze c’era Massimo Bogianckino; a Roma Ugo Vetere; a Napoli Carlo d’Amato. Il ventesimo anno di “governo” lo condurrebbe ad eguagliare il primato di Dozza che a Bologna fu sindaco ininterrottamente dal 1945 al 1965). Orlando ha provato un paio di puntate extracittadine. La prima all’inizio degli anni ’90, quando sembrava l’uomo sul quale la Democrazia Cristiana potesse impostare un tardivo rinnovamento; ipotesi poi abbandonata in favore della fondazione di un movimento di carattere più o meno nazionale (La Rete, che non arrivò mai al 2% dei voti nelle elezioni politiche). La seconda agli inizi del secolo, quando abbandonò la carica di sindaco per preparare la candidatura alla Presidenza della Regione Siciliana. Anche in questo secondo caso Orlando non fu troppo fortunato, subendo una dura lezione da Salvatore Cuffaro.
Tornato a concorrere per la carica di Sindaco di Palermo nel 2007, fu stavolta Cammarata a sconfiggerlo, e con qualche polemica.
Ce n’è abbastanza per concludere che la vicenda di Orlando travalica da tempo quella di qualsiasi altro esponente politico locale: da 32 anni ormai la sua figura è inscindibile da quella della città. Era pressoché inevitabile che una vicenda così viscerale finisse per polarizzare le posizioni di commentatori e analisti: anche se a dire il vero il campo orlandiano sulla “polarizzazione” ha giocato sin dall’inizio, quando avanzare dubbi sulle modalità di gestione della città e sui risultati conseguiti, già alla fine degli anni ’80, significava sic et simpliciter doversi difendere da accuse varie di mafiosità. Il che era anche abbastanza grottesco se arrivavano da un rivedibile pulpito, considerato il percorso politico tutto all’interno della Democrazia Cristiana. Le polemiche di quegli anni, tra i tanti risultati, ne conseguirono uno che qualsiasi forza di sinistra avrebbe dovuto provare in tutti i modi a evitare. Complici sia eventi epocali che più banali ingenuità di dirigenti travolti dalla “fine del mondo”, il PCI, mai particolarmente forte in città, scomparve del tutto. E a scomparire non fu solo il nome, trasformandosi in PDS prima in DS poi via via fino alle avventure del PD (“o come si chiama ora”, verrebbe da dire citando uno dei tanti opportunisti che si sono avvicendati alla guida di quell’aggregazione politica) ma la stessa idea di poter essere un partito di classe.
La sconfitta del comunismo portava con sé la trasformazione dell’orizzonte politico per la sinistra istituzionale. Non si attaccava più l’intollerabile diseguaglianza tra classi ma si cercava di risolvere bisogni comuni. Cioè interclassisti. Per questo, anche per questo, provare a rispondere a una domanda di per sé non troppo semplice – come ha governato Orlando la città di Palermo? – è un’impresa inutile, perché il dibattito è tra sordi e terribilmente viziato dall’ideologia imperante: si agisce per la città, non per le classi.
Così non sorprende che siano via via scomparsi dall’agenda delle élite locali questioni come l’occupazione o il livello del reddito per fare spazio ad altri temi, più spendibili, perché – dicono – interclassisti. Il verde pubblico, i trasporti, i rifiuti, la cultura. Temi che nell’immaginario di politici e commentatori riguardano tutti e che si prestano perfettamente al mantra “né di destra né di sinistra” che così tanto successo riscuote di questi tempi. E che ovviamente non possono che finire declinati da destra.
Se questa trasformazione è davvero avvenuta – com’è avvenuta – diventa del tutto naturale sia entrare nella logica del “meno peggio” (ci sarà sempre qualcuno peggiore di chi state criticando) ma soprattutto diventa incomprensibile la competizione partitica. Se tutti hanno lo stesso programma (risolvere i problemi comuni) la competizione non potrà che avere lo stesso elettorato di riferimento, trasformato anch’esso in una indistinta e incattivita poltiglia destrorsa. Cosa ci starebbero a fare i partiti, espressioni di visioni del mondo differenti se non del tutto contrapposte?
Così, si è passati senza capirci molto dal decennio orlandiano di fine anni ’90 a quello di centrodestra dei primi anni del secolo, con risultati che non consentono di districarsi in modo particolarmente efficace sulle differenze tra i due periodi in questione. E in effetti, a guardare i dati, di differenze non ce ne sono poi tante. E tra queste, alcune sembrano addirittura rilevare un rendimento migliore nel periodo oscuro, come viene definito da molti quello di Cammarata. Per fare qualche esempio la città riusciva a tirare fuori qualche soldo in più dai propri musei, specificamente dalla GAM; l’aeroporto di Palermo aveva più voli, ed è nettamente sceso il numero dei passeggeri sui trasporti pubblici, (26,1 milioni nel 2014 a fronte dei 35,8 del 2010).
Dal 2002 la città si è dotata di un annuario di statistica. Per quanto campeggi in bella vista una misteriosa avvertenza (“i documenti pubblicati su queste pagine sono solo a titolo informativo”) l’annuario è uno strumento utile per avere un quadro, magari non precisissimo – l’avvertenza ha raggiunto il suo scopo: meglio non fidarsi troppo – ma indicativo di come (non) cambiano le cose a Palermo.
Se prendiamo come riferimento il 2002 (anno primo dell’era Cammarata) e il 2014 (ultimo annuario disponibile, anno secondo della terza era Orlando) scopriamo che la popolazione residente è diminuita di poco (da 686.722 a 678.492), che sono aumentati gli anziani (da 103.845 a 129.147), che uomini e donne confermano le rispettive percentuali (47,8 e 52,2). Nel 2002 il saldo migratorio (immigrati-emigrati) era negativo (- 4.544) e negativo è rimasto nel 2014 (- 1.968). Parte cioè più gente di quanta ne arrivi.
Ma naturalmente sono altri i dati che interessano. Per quanto sia complicato stabilire una sorta di elenco di priorità valido per tutti, si può essere abbastanza concordi nel ritenere alcuni parametri come occupazione, livelli di reddito, livelli di povertà, dati ambientali (raccolta differenziata, qualità dell’aria) dotazione infrastrutturale (passeggeri trasporto pubblico) come rilevanti. Su alcuni può esserci il dubbio che la possibilità di variarli non sia nella disponibilità dell’amministrazione comunale – ci torneremo in seguito – e anche quelli che si può ipotizzare siano diretta conseguenza dell’azione amministrativa vanno trattati con cautela: un miglioramento di alcuni parametri non necessariamente implica un giudizio positivo per l’amministrazione e, specularmente, un peggioramento non è necessariamente una bocciatura.
Quello che invece possiamo cominciare a indicare è il motivo della scelta di un dato invece che un altro. Di alcuni, abbiamo detto, ci viene in soccorso l’autoevidenza. Sembra non possano sussistere dubbi sul fatto che in una città in cui la disoccupazione diminuisce o i livelli di reddito si alzano si viva meglio. Per gli altri ci siamo basati invece sulle stesse dichiarazioni dei protagonisti: il dato ambientale – specificamente il problema della raccolta dei rifiuti – per esempio è stato più volte evocato dal Sindaco, così come il dato assistenziale o il tentativo di migliorare l’efficienza dei trasporti urbani.
Insomma, possono esserci punti di vista differenti sulla specifica azione amministrativa ma se si ritiene di prendere in esame altri parametri, questi andranno spiegati. Molto si parla del “risanamento” delle aziende pubbliche, per esempio. Che si tratti di un valore in sé è incerto, visto che in linea strettamente teorica l’azienda pubblica va valutata sulla capacità o meno di offrire dei servizi soddisfacenti. Siamo consapevoli che esistono linee di ricerca – a partire probabilmente dal New Public Management, a sua volta probabilmente filiazione diretta della famigerata crisi fiscale delle amministrazioni locali degli anni ’70 – che privilegiano la compatibilità economica. A nostro avviso, per fare un esempio classico, risparmiare il 50% su una biblioteca significa concretamente non comprare libri o diminuire l’accesso degli utenti. Non riusciremmo quindi ad annoverarli tra i “successi” di una determinata azione politico-amministrativa.
Se qualcuno pensa che almeno su questi dati ci si possa mettere d’accordo è ovviamente fuori strada. Sia che si utilizzino parametri ampi (l’occupazione, il livello di reddito) sia che si utilizzi qualche dato che sembra più maneggevole (la raccolta differenziata) ci si scontrerà inevitabilmente con letture diverse dello stesso fenomeno. E questo a prescindere della difficoltà di reperire dei dati “puliti”. Potremmo così anche prendere il dato occupazionale e ricordare che secondo uno studio della CISL il tasso di occupazione a Palermo era del 44,7% nel 2005. Nel 2016 si era ridotto al 41,1. In valore assoluto si è passati dai 207.000 occupati del 2005 ai 188.000 del 2015 (2). È un dato significativo?
Stesso discorso se guardiamo i dati relativi alla raccolta differenziata.
Secondo i rapporti dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) la raccolta differenziata è passata dal 7,1% del biennio 2001-02 al 6,61% del 2011 per tornare al 7,8% nel 2015. Firenze nello stesso periodo è passata dal 26,4% del 2002 al 30,59% del 2011 per arrivare, al 2016, al 51,7%.
Di nuovo: che considerazioni si possono fare su questi dati?
È forse inutile continuare con gli esempi, anche se perlomeno le politiche sociali meritano un cenno. Anche lì le variazioni sono minime. Il “Comitato di lotta per la casa 12 Luglio” ha a lungo denunciato una sorta di inefficienza della Giunta. Nel 2015 la giunta ha stanziato circa 97 milioni di Euro impegnandone meno della metà (il 40,8%) e spendendo appena 21 milioni (il 22% scarso). Questo a fronte di un’emergenza abitativa aumentata.
Questi tre casi non sono qui utilizzati per incentivare chissà quale giudizio, e ragionamenti simili sarebbe possibile farne per ogni città e per ogni altro settore di policy (quello dei trasporti pubblici, per fare un ulteriore esempio). E in ogni caso esistono ormai obiezioni consolidate. Tre in particolare vengono utilizzate dai “buoni amministratori”:
1) La prima è quello dell’irrilevanza dell’attività amministrativa su certi parametri. L’occupazione, il reddito, il livello di povertà, lo sviluppo in senso più o meno ampio, dipenderebbero da livelli di governo ben diversi da quello sotto la diretta responsabilità dell’apparato comunale. E quindi non è su questo che va giudicato l’operato di una giunta.
2) La seconda obiezione riguarda invece il confronto con un’ipotetica alternativa. Sì, le cose sono andate male, ma se non ci fossimo stati noi, se non avessimo messo in atto quelle policy considerata la congiuntura nazionale, europea, mondiale, le cose sarebbero andate molto peggio.
3) Infine, c’è l’obiezione “tecnica”, interconnessa con la precedente: non è possibile fare un confronto “pre-post”: avrebbe invece più senso andare a verificare cos’è successo nelle città in qualche modo comparabili a Palermo. Solo la differenza tra le due esperienze ci potrà dire qualcosa di più.
In realtà questi sono argomenti buoni per un dibattito più o meno scientifico. Ma la campagna elettorale verrà tutta impostata – come sempre – su argomenti risibili: si è già cominciato a farlo. Da tempo Palermo si attorciglia sulla ZTL o sulla questione delle nuove linee del tram e anche lì è complicato già stabilire se davvero meriti e colpe vanno assegnati a questa amministrazione o alla precedente. E non è certo un caso se è praticamente impossibile, in parole e programmi dei candidati alternativi ad Orlando, comprendere quali sarebbero le colpe dell’eterno sindaco palermitano e quali i motivi per votarli, al di là di una generica necessità di “ricambio”.
Giova però sottolineare che queste finte alternative non significa certo che non esista una qualche forma di competizione tutta interna a quella che una volta si chiamava “classe dominante”. Alcuni semplici meccanismi, che sembrano neutri – come l’allargare ad imprese la possibilità di intervenire sul centro storico, facoltà riservata in un primo tempo ai soli soggetti privati – sono l’esito non solo di tentativi estremi di riqualificazione, ma anche di variazioni del gruppo sociale di riferimento. Ulteriore indicatore del fatto che la domanda “chi ci guadagna?” non è più essenziale, visto che la riqualificazione (come l’ambiente, il traffico, la cultura) sono beni in sé, e quindi la risposta sarà sempre: “ma la città!”
Un ulteriore soccorso all’ideologia imperante viene ovviamente offerto dalle scienze sociali, ormai appiattite sull’idea della competitività tra i vari centri urbani, ed esclusivamente occupate a misurare misteriose “ricadute sulla città” grazie alla cultura, all’ambiente, al civismo, al famigerato capitale sociale. Tutti perdono e tutti vincono a prescindere del proprio ruolo sociale e, figurarsi, della propria classe di appartenenza.
In tutto questo risulta misterioso lo spazio per una forza di sinistra così cannibalizzata dalla figura di Orlando. È indubbiamente vero che sul piano dei diritti civili e delle politiche simboliche la Giunta Orlando è stata da sempre un esempio virtuoso. La concessione di cittadinanze onorarie a condannati a morte, o ad Ochalan e Soynka, non sono soltanto vanagloriosi tentativi di partecipare alla politica mondiale, ma testimoniano una sensibilità che sarebbe sciocco non riconoscere, soprattutto di questi tempi. Ma il fatto che queste “semplici” decisioni civili siano l’unica cosa a cui appigliarsi non è un gran bel segno.
Il problema non è il giudizio sull’uomo, un democristiano che tutto sommato non è mai cambiato. E se è vero che, come detto in apertura, Orlando è rimasto l’unico a non essere mai realmente passato ad altro, facendo diventare Palermo la propria Neverland degna di essere analizzata più dagli studiosi di psicologia politica che da sociologi e politologi, è anche vero che la discussione all’interno degli ambienti di sinistra palermitani è stata largamente insufficiente. L’essersi fatti trascinare nell’approdo finale della parabola interclassista (“il mio partito è Palermo”) è qualcosa che fa rabbrividire, perché mostra come la competizione elettorale è giocata solo e soltanto con le armi degli avversari. A partire dal nascondersi, perché di questo si tratta quando si rinuncia al simbolo. Questo è quello che Orlando sta chiedendo alla sinistra e non solo al PD: volete vincere non si sa bene per fare cosa? Bene, allora intanto vergognatevi di quello che siete, perché se vincerete non si sa bene cosa, vincerete perché siete con me, non perché comunisti o chissà cosa.
Non è mai troppo tardi per cambiare.
Ma il dubbio è che alla fine, di questi dati, importi poco. Se è vero che non esiste una reale alternativa al “governo dell’esistente”, il modo in cui questo verrà affrontato è buono solo per gli addetti ai lavori.
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