
IN TEORIA
IL CASO E LA FILOSOFIA
Warren Montag a colloquio con George Souvlis - Prima Parte
10 febbraio 2017
IL CASO E LA FILOSOFIA
Warren Montag a colloquio con George Souvlis - Prima Parte
10 febbraio 2017
George Souvlis ha intervistato per Salvage (qui l'intervista in inglese) Warren Montag, professore di Letteratura Inglese e Comparata presso l’Occidental College di Los Angeles, studioso dai forti interessi politici e filosofici che ha scritto tra l’altro su Jonathan Swift, Spinoza, pensatori francesi contemporanei come Althusser e Pierre Macherey e, ultimamente, il fondatore dell’Economia Politica, Adam Smith.
Vuoi presentarti cominciando dalle esperienze formative (accademiche e politiche) che ti hanno maggiormente influenzato?
La mia formazione politica e intellettuale è stata governata – e immagino sia stato giusto così - da una ‘logica dell'incontro’: sono stato straordinariamente fortunato, insomma. Se non fossi stato al posto giusto al momento giusto, e vicino alle persone giuste, non avrei mai pensato o scritto come ho pensato e scritto. Nella seconda metà degli anni Settanta a Los Angeles (dov’ero tornato dopo la laurea presa a Berkeley), ho incontrato Geoff Goshgarian e Mike Davis, con i quali abbiamo subito formato una specie di collettivo, comprendente anche qualche altro elemento (in particolare ricordo Samira Haj, che adesso insegna storia alla CUNY, credo). Organizzammo un gruppo di studio per leggere i tre volumi del Capitale, Late Capitalism di Mandel e altri libri.
Attraverso Mike (da poco rientrato dalla Gran Bretagna, dove si era avvicinato all’International Marxist Group) conobbi il trotskismo della Quarta Internazionale (o più precisamente la sua tendenza dominante), cioè quello di Mandel, Krivine, Bensaid, Tariq Ali e gli altri. Questa varietà di trotskismo, che in pratica negli Stati Uniti all’epoca non era presente, consisteva in larga misura nella codificazione delle esperienze politiche del 1968 a livello internazionale, mettendo insieme democrazia diretta dei consigli operai, opposizione coerente ai regimi burocratici dell’URSS e dei suoi satelliti, e sostegno intransigente ai movimenti anti-coloniali e anti-imperialisti in tutto il mondo. Lo vedevo come un marxismo aperto, volto a cercar di comprendere le rispettive strategie di movimenti e tradizioni differenti, dalle forme di lotta armata presenti in America Latina alla Rivoluzione Culturale cinese fino a Solidarnosc in Polonia: ciascuna di queste esperienze, pur nel loro conclusivo, e in certi casi catastrofico, fallimento, impartiva determinate lezioni e illuminava problemi che non sarebbero emersi altrimenti. E si evitava di saltare all’automatica ‘denunzia’ basata su divergenze teoriche o programmatiche, prassi tipica dei gruppi trotskisti. Quegli infuocati dibattiti – sulla strategia rivoluzionaria in America Latina, ad esempio – mi affascinavano proprio perché nessuno dei contendenti condannava astrattamente… la realtà, colpevole di non corrispondere ad un modello teorico; si facevano invece dei genuini tentativi di pensare in chiave strategica su come un determinato movimento poteva compiere un’avanzata in una congiuntura specifica.
Attraverso la mia partecipazione a varie organizzazioni socialiste rivoluzionarie “multi-tendenza”, che intrattenevano relazioni amichevoli sia con la Quarta Internazionale che con la tradizione degli International Socialists, negli anni seguenti entrai in contatto con una serie di figure che oggi riconosco come straordinarie: ovviamente Mandel, poi Michael Lowy, Tariq Ali, Livio Maitan, Michel Pablo (alias Michaelis Raptis, un sostenitore esemplare della lotta di liberazione algerina); messicani come Adolfo Gilly e l’attivista per i diritti umani Rosario Ibarra; e ancora il leader contadino peruviano Hugo Blanco, e Alex Callinicos degli International Socialists. Sono stato tra i membri fondatori del gruppo statunitense Solidarity, militando nel quale ho imparato moltissimo dai sindacalisti di Labor Notes e dei Teamsters for a Democratic Union. Dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Novanta ho preso parte a una serie di movimenti: il movimento anti-apartheid, quello di solidarietà con il Centro America e quello di solidarietà con la Palestina; ho lavorato nella campagna Justice for Janitors e con il sindacato del settore alberghiero per organizzare il sostegno della comunità alle loro lotte; sono stato attivo anche nell’opposizione alla Guerra del Golfo.
Paradossalmente, quasi tutte le persone che mi erano vicine politicamente tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta – accademici o meno – erano fortemente ‘anti-althusseriani’: magari da punti di vista molto diversi, ma in definitiva convinte che Althusser rappresentasse una prospettiva stalinista oppure un riformismo che si travestiva con il gergo strutturalista di moda all’epoca. E a dirla tutta il mio orientamento teorico iniziale era un po’ La società dello spettacolo di Debord e un po’ Storia e coscienza di classe di Lukacs: una miscela che mi predisponeva a rifiutare Althusser in base a quella che – erroneamente – pensavo fosse una posizione hegeliana. Tuttavia, spronato da Geoff Goshgarian, insieme al quale avevo cominciato a leggere attentamente le opere di Althusser, ho scoperto che la maggior parte dei suoi critici avevano ben poco da dire sui suoi testi veri e propri, e si concentravano invece su quello che – secondo loro – il filosofo francese intendeva per “umanesimo” o “storicismo”. Ricordo ancora oggi l’esperienza della prima lettura di ‘Contraddizione e Surdeterminazione’: quella strana combinazione di lucidità e densità di pensiero che è il segno distintivo delle migliori cose di Althusser. Ho capito subito che la stragrande maggioranza dei suoi critici non si stavano confrontando con ciò che lui aveva scritto, ma s’erano costruiti un Althusser immaginario che ci diceva parecchio riguardo a loro e pochissimo riguardo ad Althusser.
La mia “formazione” in pratica ha avuto poco a che fare con le realtà accademiche dell’epoca e molto di più con quello che ho letto insieme ad altri o per conto mio, al di fuori di ogni contesto istituzionale. Le prime cose che ho scritto si rivolgevano più o meno consapevolmente ad Althusser, Balibar, Macherey, a Michel Pêcheux, come se fossero i miei interlocutori, ben prima di conoscerli di persona. Questo fece sì che uno degli incontri più casuali che mi siano capitati diventasse qualcosa di durevole. Nell’estate del 1983 arrivo a Parigi deciso a sviluppare il suggerimento di Althusser per cui ci sarebbe un legame essenziale tra ideologia e l’inconscio, e pertanto fra marxismo e psicoanalisi. Avevo scritto alle due persone che in quel momento più si interessavano alla questione: Michel Pêcheux, le cui ricerche su linguaggio, semantica e ideologia mi avevano influenzato parecchio, ed Elisabeth Roudinesco che all’epoca scriveva cose interessanti in campo teorico, prima di dedicarsi alla storiografia. Pêcheux in quel momento stava preparando una conferenza negli Stati Uniti, e aveva bisogno di un traduttore. Io avevo convinto la Roudinesco a incontrarmi, accettando poi di svolgere per conto suo alcune ricerche negli Stati Uniti. A questo punto lei mi chiede se c’è qualchedun altro che mi piacerebbe conoscere, e quando dico di aver scritto a Pêcheux senza ottenere risposta, lo chiama al telefono seduta stante. Gli fa una lavata di capo per non aver risposto alla mia lettera, poi mi passa la cornetta. La conversazione seguente assomiglia a una prova orale, in cui Pêcheux mi spara contro una serie di domande riguardo a certi filosofi e rispettive opere: Althusser, Lacan, Bachelard, Canguilhem (ma anche il Jean-Claude Milner di L’amour de la langue, che io avevo appena letto) e, naturalmente, Spinoza (se ben ricordo, qualcosa riguardo l’Appendice alla Parte Prima dell’Etica). Il fatto che avevo superato l’esame fu segnalato dalla frase, pronunziata a mo’ di finalino: “on a fait ses devoirs”. Ho poi trascorso la settimana seguente a tradurre la conferenza di Pêcheux (“Discorso: Struttura o Evento?”) seduto al tavolo della cucina di casa sua. L’anno successivo, Roudinesco mi ha presentato a Macherey. Poco dopo ho incontrato Balibar, Lecourt, Negri ed altri. Verso la fine degli anni Ottanta, Balibar e Macherey erano ormai miei amici e mentori.
Il tema del tuo primo studio pubblicato, The Unthinkable Swift, è il pensiero politico di Jonathan Swift. Chi era Jonathan Swift, e perché hai deciso di studiare il suo pensiero? Tu sostieni che i suoi scritti fossero surdeterminati dalla congiuntura storica che va dal 1688 – il fallimento definitivo dell’Assolutismo – al 1714, con la nascita del moderno stato britannico. In che misura ciò riflette un rapporto dialettico tra base e sovrastruttura ideologica? Quale parte del suo pensiero trascende quello specifico periodo, e conserva una sorta di relativa autonomia?
Swift (1667-1745) è stato un sacerdote della Church of Ireland (costola irlandese della Chiesa Anglicana) le cui due opere principali, la Favola della botte e I viaggi di Gulliver, sono stati per me una sorta di laboratorio in cui testare, e dov’era il caso modificare, la pratica di lettura materialistica sviluppata nell’introduzione di Althusser a Leggere il Capitale e in Per una teoria della produzione letteraria di Pierre Macherey[1] (testi che avevo letto “parola per parola” con Goshgarian). Il fatto che entrambe queste opere di Swift fossero non soltanto delle satire (il che già complicava l’idea di lettura sintomale), ma satire le cui stesse “norme” positive erano continuamente messe in questione da un’ironia che non lasciava intatta alcuna posizione etica o politica, poneva certe sfide a questa teoria. Nella Favola della botte, per esempio, Swift attacca contemporaneamente sia i nemici della sua Chiesa (atei, non-conformisti puritani e cattolici romani) sia origini e istituzioni della Chiesa stessa, come se la satira colpisse ben oltre il suo bersaglio, compiendo una distruzione generale che non lascia in piedi alcunché, e privando lo stesso Swift di un punto d’appoggio. Anziché concludere l’analisi a questo punto, alla maniera del decostruzionismo americano degli anni Ottanta – che era motivato dal bisogno di de-politicizzare e de-storicizzare la letteratura – mi rivolsi a Swift con una domanda preliminare: quali sono le contraddizioni peculiari a questo tentativo di abolire tutte le contraddizioni, non “a priori” bensì in una particolare congiuntura che si realizza all’interno dei e attraverso i materiali letterari, filosofici e politici a disposizione? Per rispondere a questa domanda lessi il testo parola per parola e ripercorsi catene semantiche che mi portarono fuori dal testo in questione, verso altri scritti cui esso era rimasto legato. Se il mio libro dovessi scriverlo oggi, avrebbe senza dubbio un aspetto molto diverso: nell’esposizione procederei dall’interno verso l’esterno. Invece di cominciare come feci, con una lunga analisi della storia inglese e irlandese e della posizione ivi occupata dalla chiesa anglicana, seguirei le tracce di parole e di frasi che conducono fino a quelle storie. Ai critici non piacque il mio excursus storiografico, non perché non fossero d’accordo con quanto avevo scritto (a pochi la faccenda interessava a tal punto da poter dirsi d’accordo o in disaccordo con me), ma perché non ne vedevano la rilevanza. Se avessi seguito l’altro procedimento, i lettori avrebbero visto con maggiore immediatezza come il fatto di parlare e scrivere dall’interno della Chiesa – intesa come condensazione di forze sociali (per adoperare la frase di Poulantzas), le cui funzioni ideologiche e disciplinari precedono la propria giustificazione in termini di dottrina – desse forma a quel materialismo che le satire di Swift producono.
Non direi che le opere di Swift posseggano un valore o un significato universale o trans-storico che rimane immutato a dispetto del costante cambiamento del mondo che sta loro intorno. Ma neppure sarebbe esatto considerarle come delle macchie di Rorschach sulle quali ciascuna epoca proietta i propri significati. Direi invece che uno scritto come I viaggi di Gulliver ha funzionato come un objet trouvé, un ‘ready-made’ che il movimento storico ha separato dal suo contesto originario e che si ripresenta in una modalità che non è né riducibile né indipendente da quella iniziale. Anziché domandarci quale realtà rifletta – come se fosse un “epifenomeno” che è reale solo in quanto si riferisce alla realtà primaria che riflette – potremmo chiederci quali effetti abbia prodotto come “cosa singolare”, stabilendo con tutta una serie di altre cose singolari certe relazioni che fanno sì che l’opera venga letta in differenti maniere.
Nell’introduzione che hai scritto alla raccolta di testi di Pierre Macherey pubblicata in inglese come In a Materialist Way, sostieni che nel suo primo libro Per una teoria della produzione letteraria, lungi dal propugnare un’analisi formalista del testo, Macherey faccia proprio un close reading dell’opera letteraria che conduce verso il contesto storico: “per quanto coerente o unitaria appaia l’opera, essa non può sfuggire ai conflitti sociali, storici, che attraversano il campo in cui essa emerge”. Potresti diffonderti maggiormente su questo metodo di lettura? Che cosa comporta in termini epistemologici rispetto all’analisi del testo letterario? Potremmo applicare la stessa epistemologia a un testo di teoria politica? In che modo Macherey ci aiuta ad evitare un riduzionismo sterile?
Sembrerà paradossale – specialmente a quei lettori anglofoni che rimangono fissati con l’anti-hegelismo di Althusser, Balibar e Macherey intorno al 1965 (a dispetto dell’evidenza in senso contrario, sia prima che dopo quel periodo lì) – ma c’è qualcosa di irriducibilmente hegeliano nella lettura di Marx che fa Althusser (anche rispetto al residuo “hegelismo” di Marx, la specifica tendenza all’interno del pensiero di Hegel cui Marx – uno dei “figli senza padre” della storia – si rivolge onde teorizzare la forma specificamente capitalistica dell’accumulazione e dello sfruttamento). Questo è altrettanto – se non maggiormente – vero per Balibar e Macherey e la loro lettura di testi filosofici e letterari. Potremmo riassumere questa eredità hegeliana nell’idea che questi testi sono intelligibili, cioè diventano gli oggetti di una conoscenza adeguata, solo sulla base di contraddizioni che possono essere intese come la loro causa immanente. Ma la ‘contraddizione’, parola che Macherey evita sistematicamente di utilizzare in Per una teoria della produzione letteraria, non può essere intesa in senso formale (lo stesso Hegel respingeva con veemenza l’idea di una “dialettica formale” come imposizione di un unico modello a qualsiasi contenuto), come se possedesse una sola struttura invariante. Macherey aveva proposto di sostituire “contraddizione” con “conflitto” o “disordine”, il che si può intendere come una rielaborazione del concetto. Nel caso dei testi letterari, l’idea di forma o genere comporta la suddivisione del testo in superficie disordinata e caotica da un lato e ordine nascosto o struttura profonda (in senso linguistico) dall’altro: il che rivelerebbe come il disordine in superficie altro non sia che un ordine nascosto. Macherey si oppone a questa visione e insiste sul fatto che “l’opera non ha interno né esterno: o piuttosto… il suo interno è come un esterno, esibito, spalancato”. In questo modo, il testo è solo superficie, senza una dimensione nascosta sulla base della quale i suoi elementi discordanti e contraddittori possano essere riconciliati. Qui possiamo rilevare la presenza di Spinoza, in particolare del capitolo VII del Trattato teologico-politico, e la sua critica delle pratiche esistenti di esegesi biblica. In assenza di “profondità”, i difetti, le lacune e le incongruenze della Scrittura si solidificano in qualcosa di irriducibile, che va spiegato in base alle proprie cause anziché venire minimizzato o esorcizzato.
Questo a sua volta ci permette di comprendere i paradossi dell’attuale contro-offensiva anti-Althusser e anti-Macherey, che contrappone una lettura “di superficie” alla [althusseriana] “lettura sintomale” (intesa come operazione che sarebbe volta a rivelare elementi nascosti, che necessariamente svaluterebbe la superficie in favore di ciò che essa tiene celato). Il concetto di “nascosto”, così come quello di “profondità” è qui definito in maniera assai larga: anche le “lacune”, i vuoti e le assenze possono essere definiti come cose “nascoste” sebbene in effetti non siano affatto presenti né all’interno né all’esterno del testo. In realtà ciò che è chiaramente visibile negli argomenti in favore di questa lettura “di superficie” è la volontà di riportare l’ordine nel testo, definendo la superficie testuale come una “struttura” o “forma”. In questo modo l’ordine precede il disordine, così come l’essenziale precede e definisce l’inessenziale. Ciò che è incongruente con tale struttura non è pertanto nascosto nel testo, bensì negato dal metodo stesso e respinto in quanto “epifenomenico”. Il conflitto è messo al bando, e con esso ogni possibilità di spiegare il testo se non come realizzazione di una forma pre-esistente.
Quello che ho chiamato il peculiare hegelismo di Althusser e Macherey ha reso ai miei occhi ogni testo filosofico – è il caso di Hegel – leggibile e davvero prezioso, in quanto non più espressione di una dottrina, bensì luogo di un conflitto. Per me è stato estremamente liberatorio leggere Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati di Althusser: i testi filosofici presentano tendenze antagonistiche, e leggere significa tracciare linee di demarcazione che servono a delineare tali antagonismi.
Nel 1997 viene pubblicato The New Spinoza, volume di cui sei curatore insieme a Ted Stolze. Pierre Macherey una volta ebbe a dire che: “studiare Spinoza dopo Hegel, ma non secondo Hegel ci permette di porre la questione della dialettica non-hegeliana”. Davvero Spinoza offre tale possibilità? E in che senso?
Sono tentato di dire che il posto giusto nel quale cercare una dialettica non hegeliana (che avrebbe prodotto il proprio concetto nel processo della sua auto-determinazione: quell’autocoscienza che è il correlativo del movimento attraverso cui diventa sé stessa) dovrebbe trovarsi all’interno dello stesso Hegel. Nella Scienza della Logica, Hegel definisce il “momento dialettico”, come quello in cui l’Idea Assoluta si determina “come l’altro da sé”. Ora, lo Spinoza di Macherey, distinto e separato dallo Spinoza di Hegel (cioè lo Spinoza che costituirebbe una fase necessaria ma subordinata nel processo che culmina in Hegel) può essere inteso come l’“altro” di Hegel, l’altro proprio di Hegel che lo contrassegna – osserva Balibar – come un “noi” anziché come un “io”. Anche Spinoza risulta diviso in virtù dell’essere inscritto in Hegel: lo Spinoza “orientale”, pensatore del mondo come emanazione dall’Uno indeterminato, e lo Spinoza pensatore dell’assoluta immanenza per il quale “Dio non è stato prima dei suoi decreti, né può essere senza di essi”. Se rimuoviamo la garanzia della “negazione della negazione”, che è inestricabilmente legata alla concezione di Hegel per cui la sostanza deve essere intesa come un soggetto capace di agire con un fine in vista, ecco svanire quella teleologia che non solo garantisce il raggiungimento del fine, ma anche la necessaria successione dei vari momenti lungo il cammino. Risultato: “non solo il reale rapporto tra filosofie non è più misurabile in base al grado di integrazione gerarchica, ma questo rapporto non è più riducibile a una discendenza cronologica che posiziona ciascuna filosofia rispetto all’altra in un ordine di successione irreversibile. In questa storia, che forse non è materiale, ma che non è più ideale, emerge un nuovo tipo contraddizione: una lotta tra tendenze che non porta in sé la promessa della propria risoluzione. In altre parole: unità dei contrari senza negazione della negazione”.
Certo, questo non suona molto spinoziano; in realtà Macherey ha tradotto Spinoza in un linguaggio hegeliano, o forse nel linguaggio di uno Hegel letto da Lenin (la lotta tra le tendenze) per meglio mostrare le differenze tra Spinoza ed Hegel. Ma il concetto di una dialettica sospinta dalla lotta, senza teleologia né necessaria “fatica del negativo” è già presente in Spinoza, in particolare nella sua definizione di “cose singolari” nella definizione VII della Parte Seconda dell’Etica:
Per cose singolari [res singulares] intendo le cose che sono finite e hanno una esistenza determinata. Poiché se più Individui [o particolari Cose Singolari] concorrono in un’unica azione in modo tale che tutti insieme siano causa simultanea di un unico effetto, li considero tutti in quanto tali come una sola cosa singolare[2].
Il punto cruciale qui sta nell’osservare che Spinoza quando dice “concorrono” adopera il verbo latino concurro, anziché convenio o conjungo. Convenio suggerisce accordo, compatibilità e armonia, mentre conjungo suggerisce un collegamento o intreccio, lasciando intendere che le cose singolari si uniscono e rimangono unite. L’impiego di concurro comporta una nozione più complessa, il “correre insieme” di forze opposte che si affrontano in battaglia e che formano così una sorta di “unità degli opposti” in virtù dell’antagonismo che le trae insieme in battaglia facendone “causa simultanea di un unico effetto”. Volendo distillare una dialettica da questo concetto, ne verrebbe fuori più uno sviluppo spinoziano di certe idee di Machiavelli che non un’anticipazione della dialettica hegeliana.
(qui la seconda parte dell'intervista)
[traduzione di Angelo Foscari]
[1] Del testo di Althusser esistono due traduzioni italiane: quella “storica” di Raffaele Rinaldi e Vanghelis Oskian, in L.Althusser e E.Balibar, Leggere Il Capitale, Feltrinelli, 1968; e quella più recente di Vittorio Morfino, in Althusser, Balibar, Establet, Macherey, Rancière Leggere Il Capitale, a cura di Maria Turchetto, Mimesis, 2006. Il libro di Pierre Macherey è stato tradotto in Italia solo parzialmente: la prima parte come Per una teoria della produzione letteraria, tr. it. di Paola Musarra e Luigi M. Cesaretti, con prefazione di Emilio Garroni, Laterza, 1969; e una porzione della terza parte come Jules Verne o il racconto in difetto, a cura di Fabrizio Denunzio e con una prefazione dell’autore all’edizione italiana, Mimesis, 2011.
[2] Baruch Spinoza, Etica. Dimostrata con Metodo Geometrico, a cura di Emilia Giancotti, Editori Riuniti, 1988, p.124 (trad. lievemente modificata, NdT)
Vuoi presentarti cominciando dalle esperienze formative (accademiche e politiche) che ti hanno maggiormente influenzato?
La mia formazione politica e intellettuale è stata governata – e immagino sia stato giusto così - da una ‘logica dell'incontro’: sono stato straordinariamente fortunato, insomma. Se non fossi stato al posto giusto al momento giusto, e vicino alle persone giuste, non avrei mai pensato o scritto come ho pensato e scritto. Nella seconda metà degli anni Settanta a Los Angeles (dov’ero tornato dopo la laurea presa a Berkeley), ho incontrato Geoff Goshgarian e Mike Davis, con i quali abbiamo subito formato una specie di collettivo, comprendente anche qualche altro elemento (in particolare ricordo Samira Haj, che adesso insegna storia alla CUNY, credo). Organizzammo un gruppo di studio per leggere i tre volumi del Capitale, Late Capitalism di Mandel e altri libri.
Attraverso Mike (da poco rientrato dalla Gran Bretagna, dove si era avvicinato all’International Marxist Group) conobbi il trotskismo della Quarta Internazionale (o più precisamente la sua tendenza dominante), cioè quello di Mandel, Krivine, Bensaid, Tariq Ali e gli altri. Questa varietà di trotskismo, che in pratica negli Stati Uniti all’epoca non era presente, consisteva in larga misura nella codificazione delle esperienze politiche del 1968 a livello internazionale, mettendo insieme democrazia diretta dei consigli operai, opposizione coerente ai regimi burocratici dell’URSS e dei suoi satelliti, e sostegno intransigente ai movimenti anti-coloniali e anti-imperialisti in tutto il mondo. Lo vedevo come un marxismo aperto, volto a cercar di comprendere le rispettive strategie di movimenti e tradizioni differenti, dalle forme di lotta armata presenti in America Latina alla Rivoluzione Culturale cinese fino a Solidarnosc in Polonia: ciascuna di queste esperienze, pur nel loro conclusivo, e in certi casi catastrofico, fallimento, impartiva determinate lezioni e illuminava problemi che non sarebbero emersi altrimenti. E si evitava di saltare all’automatica ‘denunzia’ basata su divergenze teoriche o programmatiche, prassi tipica dei gruppi trotskisti. Quegli infuocati dibattiti – sulla strategia rivoluzionaria in America Latina, ad esempio – mi affascinavano proprio perché nessuno dei contendenti condannava astrattamente… la realtà, colpevole di non corrispondere ad un modello teorico; si facevano invece dei genuini tentativi di pensare in chiave strategica su come un determinato movimento poteva compiere un’avanzata in una congiuntura specifica.
Attraverso la mia partecipazione a varie organizzazioni socialiste rivoluzionarie “multi-tendenza”, che intrattenevano relazioni amichevoli sia con la Quarta Internazionale che con la tradizione degli International Socialists, negli anni seguenti entrai in contatto con una serie di figure che oggi riconosco come straordinarie: ovviamente Mandel, poi Michael Lowy, Tariq Ali, Livio Maitan, Michel Pablo (alias Michaelis Raptis, un sostenitore esemplare della lotta di liberazione algerina); messicani come Adolfo Gilly e l’attivista per i diritti umani Rosario Ibarra; e ancora il leader contadino peruviano Hugo Blanco, e Alex Callinicos degli International Socialists. Sono stato tra i membri fondatori del gruppo statunitense Solidarity, militando nel quale ho imparato moltissimo dai sindacalisti di Labor Notes e dei Teamsters for a Democratic Union. Dalla metà degli anni Settanta ai primi anni Novanta ho preso parte a una serie di movimenti: il movimento anti-apartheid, quello di solidarietà con il Centro America e quello di solidarietà con la Palestina; ho lavorato nella campagna Justice for Janitors e con il sindacato del settore alberghiero per organizzare il sostegno della comunità alle loro lotte; sono stato attivo anche nell’opposizione alla Guerra del Golfo.
Paradossalmente, quasi tutte le persone che mi erano vicine politicamente tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Novanta – accademici o meno – erano fortemente ‘anti-althusseriani’: magari da punti di vista molto diversi, ma in definitiva convinte che Althusser rappresentasse una prospettiva stalinista oppure un riformismo che si travestiva con il gergo strutturalista di moda all’epoca. E a dirla tutta il mio orientamento teorico iniziale era un po’ La società dello spettacolo di Debord e un po’ Storia e coscienza di classe di Lukacs: una miscela che mi predisponeva a rifiutare Althusser in base a quella che – erroneamente – pensavo fosse una posizione hegeliana. Tuttavia, spronato da Geoff Goshgarian, insieme al quale avevo cominciato a leggere attentamente le opere di Althusser, ho scoperto che la maggior parte dei suoi critici avevano ben poco da dire sui suoi testi veri e propri, e si concentravano invece su quello che – secondo loro – il filosofo francese intendeva per “umanesimo” o “storicismo”. Ricordo ancora oggi l’esperienza della prima lettura di ‘Contraddizione e Surdeterminazione’: quella strana combinazione di lucidità e densità di pensiero che è il segno distintivo delle migliori cose di Althusser. Ho capito subito che la stragrande maggioranza dei suoi critici non si stavano confrontando con ciò che lui aveva scritto, ma s’erano costruiti un Althusser immaginario che ci diceva parecchio riguardo a loro e pochissimo riguardo ad Althusser.
La mia “formazione” in pratica ha avuto poco a che fare con le realtà accademiche dell’epoca e molto di più con quello che ho letto insieme ad altri o per conto mio, al di fuori di ogni contesto istituzionale. Le prime cose che ho scritto si rivolgevano più o meno consapevolmente ad Althusser, Balibar, Macherey, a Michel Pêcheux, come se fossero i miei interlocutori, ben prima di conoscerli di persona. Questo fece sì che uno degli incontri più casuali che mi siano capitati diventasse qualcosa di durevole. Nell’estate del 1983 arrivo a Parigi deciso a sviluppare il suggerimento di Althusser per cui ci sarebbe un legame essenziale tra ideologia e l’inconscio, e pertanto fra marxismo e psicoanalisi. Avevo scritto alle due persone che in quel momento più si interessavano alla questione: Michel Pêcheux, le cui ricerche su linguaggio, semantica e ideologia mi avevano influenzato parecchio, ed Elisabeth Roudinesco che all’epoca scriveva cose interessanti in campo teorico, prima di dedicarsi alla storiografia. Pêcheux in quel momento stava preparando una conferenza negli Stati Uniti, e aveva bisogno di un traduttore. Io avevo convinto la Roudinesco a incontrarmi, accettando poi di svolgere per conto suo alcune ricerche negli Stati Uniti. A questo punto lei mi chiede se c’è qualchedun altro che mi piacerebbe conoscere, e quando dico di aver scritto a Pêcheux senza ottenere risposta, lo chiama al telefono seduta stante. Gli fa una lavata di capo per non aver risposto alla mia lettera, poi mi passa la cornetta. La conversazione seguente assomiglia a una prova orale, in cui Pêcheux mi spara contro una serie di domande riguardo a certi filosofi e rispettive opere: Althusser, Lacan, Bachelard, Canguilhem (ma anche il Jean-Claude Milner di L’amour de la langue, che io avevo appena letto) e, naturalmente, Spinoza (se ben ricordo, qualcosa riguardo l’Appendice alla Parte Prima dell’Etica). Il fatto che avevo superato l’esame fu segnalato dalla frase, pronunziata a mo’ di finalino: “on a fait ses devoirs”. Ho poi trascorso la settimana seguente a tradurre la conferenza di Pêcheux (“Discorso: Struttura o Evento?”) seduto al tavolo della cucina di casa sua. L’anno successivo, Roudinesco mi ha presentato a Macherey. Poco dopo ho incontrato Balibar, Lecourt, Negri ed altri. Verso la fine degli anni Ottanta, Balibar e Macherey erano ormai miei amici e mentori.
Il tema del tuo primo studio pubblicato, The Unthinkable Swift, è il pensiero politico di Jonathan Swift. Chi era Jonathan Swift, e perché hai deciso di studiare il suo pensiero? Tu sostieni che i suoi scritti fossero surdeterminati dalla congiuntura storica che va dal 1688 – il fallimento definitivo dell’Assolutismo – al 1714, con la nascita del moderno stato britannico. In che misura ciò riflette un rapporto dialettico tra base e sovrastruttura ideologica? Quale parte del suo pensiero trascende quello specifico periodo, e conserva una sorta di relativa autonomia?
Swift (1667-1745) è stato un sacerdote della Church of Ireland (costola irlandese della Chiesa Anglicana) le cui due opere principali, la Favola della botte e I viaggi di Gulliver, sono stati per me una sorta di laboratorio in cui testare, e dov’era il caso modificare, la pratica di lettura materialistica sviluppata nell’introduzione di Althusser a Leggere il Capitale e in Per una teoria della produzione letteraria di Pierre Macherey[1] (testi che avevo letto “parola per parola” con Goshgarian). Il fatto che entrambe queste opere di Swift fossero non soltanto delle satire (il che già complicava l’idea di lettura sintomale), ma satire le cui stesse “norme” positive erano continuamente messe in questione da un’ironia che non lasciava intatta alcuna posizione etica o politica, poneva certe sfide a questa teoria. Nella Favola della botte, per esempio, Swift attacca contemporaneamente sia i nemici della sua Chiesa (atei, non-conformisti puritani e cattolici romani) sia origini e istituzioni della Chiesa stessa, come se la satira colpisse ben oltre il suo bersaglio, compiendo una distruzione generale che non lascia in piedi alcunché, e privando lo stesso Swift di un punto d’appoggio. Anziché concludere l’analisi a questo punto, alla maniera del decostruzionismo americano degli anni Ottanta – che era motivato dal bisogno di de-politicizzare e de-storicizzare la letteratura – mi rivolsi a Swift con una domanda preliminare: quali sono le contraddizioni peculiari a questo tentativo di abolire tutte le contraddizioni, non “a priori” bensì in una particolare congiuntura che si realizza all’interno dei e attraverso i materiali letterari, filosofici e politici a disposizione? Per rispondere a questa domanda lessi il testo parola per parola e ripercorsi catene semantiche che mi portarono fuori dal testo in questione, verso altri scritti cui esso era rimasto legato. Se il mio libro dovessi scriverlo oggi, avrebbe senza dubbio un aspetto molto diverso: nell’esposizione procederei dall’interno verso l’esterno. Invece di cominciare come feci, con una lunga analisi della storia inglese e irlandese e della posizione ivi occupata dalla chiesa anglicana, seguirei le tracce di parole e di frasi che conducono fino a quelle storie. Ai critici non piacque il mio excursus storiografico, non perché non fossero d’accordo con quanto avevo scritto (a pochi la faccenda interessava a tal punto da poter dirsi d’accordo o in disaccordo con me), ma perché non ne vedevano la rilevanza. Se avessi seguito l’altro procedimento, i lettori avrebbero visto con maggiore immediatezza come il fatto di parlare e scrivere dall’interno della Chiesa – intesa come condensazione di forze sociali (per adoperare la frase di Poulantzas), le cui funzioni ideologiche e disciplinari precedono la propria giustificazione in termini di dottrina – desse forma a quel materialismo che le satire di Swift producono.
Non direi che le opere di Swift posseggano un valore o un significato universale o trans-storico che rimane immutato a dispetto del costante cambiamento del mondo che sta loro intorno. Ma neppure sarebbe esatto considerarle come delle macchie di Rorschach sulle quali ciascuna epoca proietta i propri significati. Direi invece che uno scritto come I viaggi di Gulliver ha funzionato come un objet trouvé, un ‘ready-made’ che il movimento storico ha separato dal suo contesto originario e che si ripresenta in una modalità che non è né riducibile né indipendente da quella iniziale. Anziché domandarci quale realtà rifletta – come se fosse un “epifenomeno” che è reale solo in quanto si riferisce alla realtà primaria che riflette – potremmo chiederci quali effetti abbia prodotto come “cosa singolare”, stabilendo con tutta una serie di altre cose singolari certe relazioni che fanno sì che l’opera venga letta in differenti maniere.
Nell’introduzione che hai scritto alla raccolta di testi di Pierre Macherey pubblicata in inglese come In a Materialist Way, sostieni che nel suo primo libro Per una teoria della produzione letteraria, lungi dal propugnare un’analisi formalista del testo, Macherey faccia proprio un close reading dell’opera letteraria che conduce verso il contesto storico: “per quanto coerente o unitaria appaia l’opera, essa non può sfuggire ai conflitti sociali, storici, che attraversano il campo in cui essa emerge”. Potresti diffonderti maggiormente su questo metodo di lettura? Che cosa comporta in termini epistemologici rispetto all’analisi del testo letterario? Potremmo applicare la stessa epistemologia a un testo di teoria politica? In che modo Macherey ci aiuta ad evitare un riduzionismo sterile?
Sembrerà paradossale – specialmente a quei lettori anglofoni che rimangono fissati con l’anti-hegelismo di Althusser, Balibar e Macherey intorno al 1965 (a dispetto dell’evidenza in senso contrario, sia prima che dopo quel periodo lì) – ma c’è qualcosa di irriducibilmente hegeliano nella lettura di Marx che fa Althusser (anche rispetto al residuo “hegelismo” di Marx, la specifica tendenza all’interno del pensiero di Hegel cui Marx – uno dei “figli senza padre” della storia – si rivolge onde teorizzare la forma specificamente capitalistica dell’accumulazione e dello sfruttamento). Questo è altrettanto – se non maggiormente – vero per Balibar e Macherey e la loro lettura di testi filosofici e letterari. Potremmo riassumere questa eredità hegeliana nell’idea che questi testi sono intelligibili, cioè diventano gli oggetti di una conoscenza adeguata, solo sulla base di contraddizioni che possono essere intese come la loro causa immanente. Ma la ‘contraddizione’, parola che Macherey evita sistematicamente di utilizzare in Per una teoria della produzione letteraria, non può essere intesa in senso formale (lo stesso Hegel respingeva con veemenza l’idea di una “dialettica formale” come imposizione di un unico modello a qualsiasi contenuto), come se possedesse una sola struttura invariante. Macherey aveva proposto di sostituire “contraddizione” con “conflitto” o “disordine”, il che si può intendere come una rielaborazione del concetto. Nel caso dei testi letterari, l’idea di forma o genere comporta la suddivisione del testo in superficie disordinata e caotica da un lato e ordine nascosto o struttura profonda (in senso linguistico) dall’altro: il che rivelerebbe come il disordine in superficie altro non sia che un ordine nascosto. Macherey si oppone a questa visione e insiste sul fatto che “l’opera non ha interno né esterno: o piuttosto… il suo interno è come un esterno, esibito, spalancato”. In questo modo, il testo è solo superficie, senza una dimensione nascosta sulla base della quale i suoi elementi discordanti e contraddittori possano essere riconciliati. Qui possiamo rilevare la presenza di Spinoza, in particolare del capitolo VII del Trattato teologico-politico, e la sua critica delle pratiche esistenti di esegesi biblica. In assenza di “profondità”, i difetti, le lacune e le incongruenze della Scrittura si solidificano in qualcosa di irriducibile, che va spiegato in base alle proprie cause anziché venire minimizzato o esorcizzato.
Questo a sua volta ci permette di comprendere i paradossi dell’attuale contro-offensiva anti-Althusser e anti-Macherey, che contrappone una lettura “di superficie” alla [althusseriana] “lettura sintomale” (intesa come operazione che sarebbe volta a rivelare elementi nascosti, che necessariamente svaluterebbe la superficie in favore di ciò che essa tiene celato). Il concetto di “nascosto”, così come quello di “profondità” è qui definito in maniera assai larga: anche le “lacune”, i vuoti e le assenze possono essere definiti come cose “nascoste” sebbene in effetti non siano affatto presenti né all’interno né all’esterno del testo. In realtà ciò che è chiaramente visibile negli argomenti in favore di questa lettura “di superficie” è la volontà di riportare l’ordine nel testo, definendo la superficie testuale come una “struttura” o “forma”. In questo modo l’ordine precede il disordine, così come l’essenziale precede e definisce l’inessenziale. Ciò che è incongruente con tale struttura non è pertanto nascosto nel testo, bensì negato dal metodo stesso e respinto in quanto “epifenomenico”. Il conflitto è messo al bando, e con esso ogni possibilità di spiegare il testo se non come realizzazione di una forma pre-esistente.
Quello che ho chiamato il peculiare hegelismo di Althusser e Macherey ha reso ai miei occhi ogni testo filosofico – è il caso di Hegel – leggibile e davvero prezioso, in quanto non più espressione di una dottrina, bensì luogo di un conflitto. Per me è stato estremamente liberatorio leggere Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati di Althusser: i testi filosofici presentano tendenze antagonistiche, e leggere significa tracciare linee di demarcazione che servono a delineare tali antagonismi.
Nel 1997 viene pubblicato The New Spinoza, volume di cui sei curatore insieme a Ted Stolze. Pierre Macherey una volta ebbe a dire che: “studiare Spinoza dopo Hegel, ma non secondo Hegel ci permette di porre la questione della dialettica non-hegeliana”. Davvero Spinoza offre tale possibilità? E in che senso?
Sono tentato di dire che il posto giusto nel quale cercare una dialettica non hegeliana (che avrebbe prodotto il proprio concetto nel processo della sua auto-determinazione: quell’autocoscienza che è il correlativo del movimento attraverso cui diventa sé stessa) dovrebbe trovarsi all’interno dello stesso Hegel. Nella Scienza della Logica, Hegel definisce il “momento dialettico”, come quello in cui l’Idea Assoluta si determina “come l’altro da sé”. Ora, lo Spinoza di Macherey, distinto e separato dallo Spinoza di Hegel (cioè lo Spinoza che costituirebbe una fase necessaria ma subordinata nel processo che culmina in Hegel) può essere inteso come l’“altro” di Hegel, l’altro proprio di Hegel che lo contrassegna – osserva Balibar – come un “noi” anziché come un “io”. Anche Spinoza risulta diviso in virtù dell’essere inscritto in Hegel: lo Spinoza “orientale”, pensatore del mondo come emanazione dall’Uno indeterminato, e lo Spinoza pensatore dell’assoluta immanenza per il quale “Dio non è stato prima dei suoi decreti, né può essere senza di essi”. Se rimuoviamo la garanzia della “negazione della negazione”, che è inestricabilmente legata alla concezione di Hegel per cui la sostanza deve essere intesa come un soggetto capace di agire con un fine in vista, ecco svanire quella teleologia che non solo garantisce il raggiungimento del fine, ma anche la necessaria successione dei vari momenti lungo il cammino. Risultato: “non solo il reale rapporto tra filosofie non è più misurabile in base al grado di integrazione gerarchica, ma questo rapporto non è più riducibile a una discendenza cronologica che posiziona ciascuna filosofia rispetto all’altra in un ordine di successione irreversibile. In questa storia, che forse non è materiale, ma che non è più ideale, emerge un nuovo tipo contraddizione: una lotta tra tendenze che non porta in sé la promessa della propria risoluzione. In altre parole: unità dei contrari senza negazione della negazione”.
Certo, questo non suona molto spinoziano; in realtà Macherey ha tradotto Spinoza in un linguaggio hegeliano, o forse nel linguaggio di uno Hegel letto da Lenin (la lotta tra le tendenze) per meglio mostrare le differenze tra Spinoza ed Hegel. Ma il concetto di una dialettica sospinta dalla lotta, senza teleologia né necessaria “fatica del negativo” è già presente in Spinoza, in particolare nella sua definizione di “cose singolari” nella definizione VII della Parte Seconda dell’Etica:
Per cose singolari [res singulares] intendo le cose che sono finite e hanno una esistenza determinata. Poiché se più Individui [o particolari Cose Singolari] concorrono in un’unica azione in modo tale che tutti insieme siano causa simultanea di un unico effetto, li considero tutti in quanto tali come una sola cosa singolare[2].
Il punto cruciale qui sta nell’osservare che Spinoza quando dice “concorrono” adopera il verbo latino concurro, anziché convenio o conjungo. Convenio suggerisce accordo, compatibilità e armonia, mentre conjungo suggerisce un collegamento o intreccio, lasciando intendere che le cose singolari si uniscono e rimangono unite. L’impiego di concurro comporta una nozione più complessa, il “correre insieme” di forze opposte che si affrontano in battaglia e che formano così una sorta di “unità degli opposti” in virtù dell’antagonismo che le trae insieme in battaglia facendone “causa simultanea di un unico effetto”. Volendo distillare una dialettica da questo concetto, ne verrebbe fuori più uno sviluppo spinoziano di certe idee di Machiavelli che non un’anticipazione della dialettica hegeliana.
(qui la seconda parte dell'intervista)
[traduzione di Angelo Foscari]
[1] Del testo di Althusser esistono due traduzioni italiane: quella “storica” di Raffaele Rinaldi e Vanghelis Oskian, in L.Althusser e E.Balibar, Leggere Il Capitale, Feltrinelli, 1968; e quella più recente di Vittorio Morfino, in Althusser, Balibar, Establet, Macherey, Rancière Leggere Il Capitale, a cura di Maria Turchetto, Mimesis, 2006. Il libro di Pierre Macherey è stato tradotto in Italia solo parzialmente: la prima parte come Per una teoria della produzione letteraria, tr. it. di Paola Musarra e Luigi M. Cesaretti, con prefazione di Emilio Garroni, Laterza, 1969; e una porzione della terza parte come Jules Verne o il racconto in difetto, a cura di Fabrizio Denunzio e con una prefazione dell’autore all’edizione italiana, Mimesis, 2011.
[2] Baruch Spinoza, Etica. Dimostrata con Metodo Geometrico, a cura di Emilia Giancotti, Editori Riuniti, 1988, p.124 (trad. lievemente modificata, NdT)
Lascia un commento