
La notte in cui tutti i delitti sono noir
Potremmo definirla la “logica della pizza”. La pizza, come tutti sanno, è un impasto di farina e acqua spianato e allargato, generalmente in forma circolare, sul quale possono disporsi i più diversi condimenti. Ai tradizionali ingredienti della gastronomia popolare napoletana (pomodoro, mozzarella, basilico) si sono così aggiunte, nel corso del tempo e in una dimensione pressoché planetaria, molteplici e perfino bizzarre integrazioni e variazioni, a seconda dei gusti e delle abitudini alimentari.
Ovunque, però, nonostante le più eterodosse digressioni, la pizza resta pizza ed è nota come pizza. Perché tutto può essere pizza, essendo la base, il supporto, insieme al modo in cui è consumata, a fare della pizza ciò che definiamo pizza.
Mutatis mutandis, in letteratura il ruolo della pizza è stato assunto, ormai da alcuni decenni, dal romanzo giallo (nelle varianti di poliziesco, mystery, noir, thriller etc.) in modo analogo, per non dire identico.
Si prenda una base (un impasto di morte con un po’ di mistero), la si spiani fino a ridurla a uno strato più o meno sottile, vi si aggiunga qualsivoglia elemento (solitamente gastronomia, eros, folclore, paesaggismo turistico, psicologia anche grossolana, un pizzico di cultura citazionista a speziare la pagina…), s’inforni il tutto ed ecco pronta la pizza, cioè il “giallo”.
Oggi tutto è giallo (magari altrimenti detto, ma ugualmente ammannito). Più esattamente, tutto è spacciato per giallo, poiché il mercato culturale non sembra voler accogliere (tranne rare eccezioni) altra tipologia letteraria.
Accade così, imperando questa noiosissima moda monocromatica, che le opere più eteroclite vengano a forza ricondotte e costrette da una mistificante strategia editoriale nella definizione settoriale del giallo, in cui ovviamente non possono trovare un’adeguata collocazione.
E passi pure per quella saggistica storica che, con qualche forzatura non del tutto incongrua, individua i precursori del genere nell’Edipo di Sofocle o nell’Amleto di Shakespeare o nello Zadig di Voltaire. Va da sé che nessun lettore di buon senso si sognerebbe mai di considerare queste opere dei protogialli in senso stretto. Ma è pur vero che il racconto poliziesco non nasce già provvisto di tutto il suo armamentario come Atena dalla mente di Zeus (ovvero come Dupin dalla mente di Poe).
Ed è vero soprattutto che in epoche (ormai archiviate) in cui vigeva il discredito assoluto per la cosiddetta letteratura di massa o paraletteratura, era necessario e opportuno ricordare a una sprezzante intellighenzia (invero piuttosto ottusa) che il giallo (come la fantascienza) si nutriva di una ricca e nobile tradizione culturale, rielaborandola in modo creativo e originale.
D’altronde, la ricerca delle origini di qualsiasi prodotto culturale corre sempre il rischio di sprofondare fino ai primordi della civiltà (praticamente non c’è invenzione dell’ingegno di cui non si trovino embrioni nella mitologia greca o nella Bibbia). Bisogna allora che in questa regressione si ponga un punto di arresto e di inizio, ovvero l’individuazione di un fattore di relativa novità che giustifichi la nascita di qualcosa di diverso, che prima non si dava, non si coglieva, almeno non in una forma definita e paradigmatica.
Fatta salva questa premessa, possiamo avventurarci (e divertirci) a trovare tracce e impronte di romanzo poliziesco nelle Mille e una notte o nelle favole di Esopo: investigazione peraltro molto utile e istruttiva.
Altra cosa è però spacciare per gialli, con un fraintendimento totale, romanzi che col giallo hanno pochissimo in comune e si collocano evidentemente su un versante del tutto dissimile. L’esempio classico è Delitto e castigo di Dostoevskij.
Basta il delitto, il sangue versato, la colpa di Caino, a fare di una vicenda, per quanto orrenda e tenebrosa, un caso poliziesco? Non occorre nemmeno rispondere a questa domanda retorica.
Eppure, una pubblicazione specialistica come il benemerito “Giallo Mondadori” ha nello scorso luglio proposto ai propri lettori (tra cui il sottoscritto) Il cappello del prete di Emilio De Marchi, insieme a I trentanove scalini di John Buchan e I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe, in un volume intitolato “Agli albori del giallo”. Una bellissima trilogia, beninteso.
Tuttavia, in questa spericolata operazione ci troviamo di fronte a due fondamentali equivoci: uno di ordine qualitativo e l’altro di ordine cronologico. Cominciamo da quest’ultimo.
Un esperimento letterario
Il cappello del prete apparve a puntate sul quotidiano milanese “L’Italia” nel 1887, cioè ben quarantasei anni dopo I delitti della rue Morgue di Poe, considerati il prototipo della detective story. Tutt’altro che agli “albori del giallo”, quindi.
Ma potremmo dire che è ancora abbastanza presto nella storia del genere. Il 1887 è l’anno dell’apparizione di Sherlock Holmes in Uno studio in rosso. Siamo, insomma, nell’epoca d’oro del giallo deduttivo, del mystery classico.
Ma Il cappello del prete non ha nulla in comune con i gialli deduttivi (o abduttivi) di Arthur Conan Doyle (a cominciare dal fatto che nel romanzo di Emilio De Marchi non si deduce granché). Semmai (e la questione è stata più volte dibattuta) può avere come riferimento l’opera di Dostoevskij (per certi versi Delitto e castigo, per altri I fratelli Karamazov). Il problema che a lungo si pose la critica riguardava due possibili opzioni: romanzo psicologico o etico. Dilemma piuttosto sofistico, che tuttavia escludeva derive popolari.
E siamo in tal modo pervenuti all’obiezione qualitativa. Non si tratta di una differenza tra alta e bassa letteratura (in questi termini io porrei Poe su un gradino più alto, pur apprezzando l’ottimo scrittore milanese). Bensì di un problema di struttura narrativa: Il cappello del prete non è un giallo, innanzitutto perché si pone fini diversi da quelli generalmente perseguiti dalla letteratura poliziesca.
Il problema dei fini che lo scrittore pone a se stesso, alla sua opera e ai suoi lettori, è sempre fondamentale. Ma lo è in modo particolare nel caso di questo romanzo che Emilio De Marchi, nella avvertenza premessa alla prima edizione in volume (Treves, 1888), definisce “d’esperimento”.
In che senso l’autore considera sperimentale questo suo lavoro che non presenta particolari oltranze formali o tematiche? In primo luogo nella scelta della modalità frammentaria, a puntate, tipica del romanzo d’appendice che rappresenta una specie di test riguardante l’intera nazione (il romanzo apparve in seconda battuta anche sul “Corriere di Napoli”). De Marchi ha come punto di riferimento il largo seguito del feuilleton, in Francia o in Gran Bretagna, tra le classi popolari. Pensa a Sue, piuttosto che a Poe, e alla possibilità che anche in Italia, magari allargando pure in questo modo la cerchia dei lettori, si riesca a soddisfare i “semplici desideri del gran pubblico”. Per un verso, dunque, si tratta di un esperimento pedagogico, di un tentativo di alfabetizzazione letteraria. Ma c’è anche una rivendicazione anti-accademica, per così dire, e una moderna attenzione alle capacità di ricezione e di comprensione di un pubblico vasto e ingenuo, non tenuto dagli scrittori d’alto profilo in nessuna considerazione, ma che invece è un “signor pubblico” che a un’analisi più spregiudicata appare “meno volgo di quel che l’interesse e l’ignoranza nostra s’ingegnano di fare”.
È un pubblico illetterato, talora perfino rozzo, quello a cui specialmente si rivolge De Marchi con Il cappello del prete, ma che ha fame di buona letteratura.
Un pubblico vergine da cui si diparte un’energia positiva, a patto che l’autore sappia sintonizzarsi con esso in un rapporto di “comunicazione di spirito”. Sappia, cioè, acconsentire all’attrazione potente che “emana dalla moltitudine”.
L’esperimento tentato da De Marchi è dunque un’operazione di rinnovamento complessivo del rapporto tra letterati e lettori, basata su un avvicinamento reciproco che mira a “rinvigorire” la cultura italiana sottraendola alla “tisica costituzione dell’arte nostra”.
E in ciò è anche un ribaltamento rivoluzionario del punto di vista: non più la tautologica ed esclusiva circolarità dell’arte per l’arte, intesa come “cosa divina”, ma anche un più laico e disinibito rapporto con il pubblico, in base al principio che “non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori”.
E ammettiamo pure che oggi, forse, sarebbe opportuno ribaltare questo ribaltamento, espropriando gli espropriatori e ribadendo che non sarebbe male se di tanto in tanto si scrivesse dimenticando i falsi imperativi del mercato. Resta comunque la modernità della proposta e dell’intuizione di De Marchi col suo Cappello del prete, e il rammarico che non sia stata seguita da molti altri scrittori di talento, timorosi di corrompere la propria arte con il gusto facile della massa non avvezza a raffinatezze poetiche. Laddove invece un meno occasionale bagno di folla (folla peraltro assai relativa in un’Italia di sterminato analfabetismo), cioè di concretezza e vita reale, avrebbe senz’altro giovato alla salute della nostra letteratura e del Paese tutto, entrambi attardati alla fine dell’Ottocento in un difficile processo di sviluppo.
De Marchi, dunque, è alla ricerca non tanto di un consenso, quanto invece di una profonda consentaneità con il sentimento popolare. Da qui la scelta della collocazione giornalistica e del taglio sensazionale, ovvero emotivo e viscerale, del romanzo d’appendice. E da qui anche l’opzione per l’ambientazione napoletana, che ovviamente lo esponeva al rischio di un possibile manierismo etnografico. Milano avrebbe offerto un contesto più europeo e metropolitano in cui una storia poliziesca (che in realtà poco interessa a De Marchi) poteva sperare di essere più credibile. Ma per entrare in sintonia con la forza naturale e i semplici desideri della moltitudine sognante gli occorreva la “fantasia rapida e violenta propria dei meridionali”.
La passione è infatti l’elemento centrale della trama. Passione per il gioco e l’azzardo, nelle varianti plebee (il lotto) e signorili (le carte, l’alea, la scommessa, la sfida col destino). Passione per il denaro, da tesaurizzare con feticistica perseveranza, o da sperperare con gaudente dissipazione.
Il prete e il barone
Agli opposti poli di questa divorante passione, De Marchi pone due figure simmetriche e complementari: da un lato il nobile Carlo Coriolano di Santafusca, u barone, esempio perfetto di un parassitismo aristocratico travolto dalla sua inarrestabile decadenza; dall’altro padre Cirillo, u prevete, che presta denaro a usura speculando sul tempo (che è di Dio) e sulla buona fede delle anime semplici che gli attribuiscono il potere di prevedere i numeri che verranno estratti al gioco del lotto, oppio consolatorio di un popolo miserabile per il quale il lavoro, quando c’è, non si converte mai in ricchezza e la ricchezza può essere soltanto frutto del caso e del vaticinio.
L’incipit pone immediatamente il racconto nell’ambito dell’apologo morale. Il barone è presentato come uno spirito nichilista che “non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo”. Un lettore non digiuno di classici sa già, dopo appena due righi, che una negazione così perentoria verrà sicuramente smentita e senza nemmeno dover ricorrere a particolari epifanie.
Il barone peraltro non è del tutto un cinico o un depravato. È un uomo messo alle strette dalla sorte che si trova sul baratro del declassamento a causa di un debito di 15.000 lire che non è in condizioni di onorare. La sua situazione economica è infatti disastrosa. Santafusca ha dilapidato il suo patrimonio ed ora è letteralmente un morto di fame. Ma ha avuto giorni migliori, che inaspriscono il suo orgoglio, e perfino un po’ di gloria a fianco dei garibaldini, allorché “prese una breve e brillante parte nelle ultime scaramucce di quel tempo e fu anche ferito alla fronte”, impresa forse non memorabile di cui gli rimane “una cicatrice sopra il ciglio” (allusivo particolare risorgimentale, o per meglio dire anti-risorgimentale, che forse non è sfuggito a Tomasi di Lampedusa, giacché coincide con l’inizio della carriera politica del Tancredi gattopardiano).
Padre Cirillo, se non appartiene alla specie dei Fra Cristoforo, non è nemmeno ascrivibile a quella dei Don Abbondio (a cui il romanzo dedica un inciso).
Non che manchi di viltà, beninteso. Aspira anzi a lasciare Napoli, raccolta una bastevole somma di denaro, proprio per sottrarsi alla perenne minaccia di quei Bravi che sono detti guappi e camorristi, i quali una volta l’hanno persino rapito per estorcergli i numeri vincenti.
Ma l’attributo caratteristico di Cirillo è piuttosto l’avidità, una spietata bramosia di capitalizzare il suo talento per gli affari mondani. Delle questioni celesti, u prevete si cura così poco che ha adibito una Summa theologica in-folio di Tommaso d’Aquino a registro contabile dei suoi crediti e caveau di “quietanze e boni di pegno, garanzie, piccole ipoteche, cambiali, pagherò”, rintanati in una nicchia scavata, con empia ironia, laddove “il dottor Angelico parla dell’habitus operativus”.
La virtus per questo businessman in abito talare non è che questa acquisita facoltà di accumulare ricchezza in transazioni opache che coinvolgono perfino il Banco di Napoli, le rendite di Stato e fondiarie, le ferrovie meridionali e i tramways napoletani, in un lucroso intreccio di spregiudicate speculazioni.
L’avarizia è dunque il suo vizio e al tempo stesso la sua strategica mimesis. Veste abiti consunti e polverosi, abita “nei quartieri più poveri” in una misera soffitta perennemente invasa dal “puzzo del pesce, che il popolino frigge sugli usci e nella via”. Anche l’aspetto fisico di questo Arpagone ha qualcosa del rapace e del pirata: le sue mani lunghe e magre hanno “unghie più forti degli uncini che tirano nel porto i barili e i sacchi del merluzzo”.
Mettendosi nelle sue mani adunche per ottenere la somma necessaria a sanare il suo debito, il barone sa bene di trasformarsi nella preda di un inesorabile razziatore. Ma ha l’acqua alla gola, e disperatamente decide di vendere il palazzo avito, la cadente e abbandonata Villa di Santafusca, per la modesta cifra di 30.000 lire.
Il prete strozzino pensa ovviamente di ricavare un profitto ben maggiore dall’affare che si accinge a chiudere approfittando della situazione di estremo bisogno in cui versa il Santafusca. Ma anche quest’ultimo comincia a fare dei progetti, e uno tra questi, “nero in mezzo ai bigi”, sembra prendere il sopravvento sugli altri. Si fa strada, insomma, nella sua mente sconvolta l’idea di appropriarsi delle 30.000 lire senza dover ricorrere alla vendita della nobile magione, ma utilizzando l’antichissima risorsa del delitto. D’altronde, il barone è in tutto e per tutto un uomo di mondo che non ne conosce altri e ancor meno li suppone. E se Dio non c’è, non è forse tutto ammissibile?
Facile a dirsi, ma assai meno a convincersene. Un conto è infatti fare professione di nichilismo e un altro è teorizzare e giustificare un assassinio. Per non dire del praticarlo effettivamente, che è tutt’altra cosa ancora.
Santafusca procede allora a identificare padre Cirillo con il suo oro maledetto: “Se gli togli il denaro, che cos’è questo scheletro umano vestito da prete? Egli non è un uomo, ma una somma, un sacchetto”. Reificato e disumanizzato in tal modo, il capro espiatorio è pronto per essere sgozzato sull’altare sacrificale.
Santafusca elenca le sue ragioni, in parte egoistiche, in parte sociali e in qualche modo riconducibili a meccanismi naturali di selezione, secondo la lezione che il “celebre dottor Panterre” fa nel suo “Trattato delle cose”.
Non dimentica i suoi avi estinti né la fedele istitutrice Maddalena, che ormai vecchia langue in una miseria assoluta, per la quale egli prova un tenero affetto:
“Io salvo l’onore dei miei padri, salvo me dalla prigione, salvo Maddalena dalla fame, pago i miei debiti, rendo il pane a tanti bisognosi, fo elemosine, ristabilisco la giustizia, compio una legge di natura”.
Ma se davvero tutto è lecito per “un uomo superiore ai pregiudizi”, perché affannarsi a trovare e a sommare gli effetti benefici di un così necessario omicidio? Perché ripetersi ogni giorno che non resta “altro rimedio” al suo problema che l’omicidio e il furto?
Il terzo incomodo: la coscienza
In realtà Santafusca, proprio mentre si accinge a varcare l’estremo limite del consentito con terribile violenza e scientifico disprezzo d’ogni obbligo compassionevole e solidale nei confronti di un suo simile, sente già il bisogno di costruirsi una morale e di richiamarsi alle ragioni migliori del suo cuore.
Comincia cioè a scoprire di avere una coscienza e di non sapere come sbarazzarsene razionalmente.
Sarà pure un “lusso” la coscienza, “l’eleganza dell’uomo felice”, ma è un lusso di cui Santafusca scopre infelicemente di non potere fare a meno.
Sull’opposto versante, anche padre Cirillo si dibatte con speculare ipocrisia in analoghi dilemmi della coscienza. Davanti al triste spettacolo della miseria del popolo che invoca il soccorso di Dio, egli prova un autentico (ma non sincero) rimorso per le sofferenze che il suo “talento” di usuraio arreca a tante persone disperate e si ripromette di sconfiggere “la forza dell’egoismo” con una condotta più generosa.
“Molte limosine egli avrebbe potuto fare colla rendita dei suoi risparmi e avrebbe poi fatto un testamento a favore dei poveri e delle orfanelle”.
Ma né il barone né il prete hanno davvero intenzione di mettere in pratica questa loro machiavellismo morale, questo spregiudicato uso del male anche a fin di bene. E infatti, quando Cirillo si reca da Filippino il cappellaio per riscuotere un credito e sente dirsi da costui che ha “la moglie malata di risipola e quattro figlioli che muoiono di fame”, la sua risposta non lascia trapelare la minima pietà, la minima comprensione: “E che ci posso fare io?”.
Il tempo delle elemosine e delle elargizioni testamentarie è posto in un futuro ipotetico e lontano, in “un giorno” in cui Dio vorrà “essere pagato coll’oro delle buone azioni”. Per quest’oro, Cirillo non ha talento, né sa che il redde rationem è ormai prossimo e si annuncia simbolicamente con “un bel cappello nuovo” coi nastrini di seta che Filippino ha fatto per monsignor vicario, a cui però “è tornato troppo stretto”.
Cirillo se ne impossessa, cedendo alla vanità, senza sapere che d’ora in poi sarà lui a essere posseduto da questo cappello “leggiero come una foglia” che assurge imperiosamente a protagonista del romanzo.
L’abile strategia narrativa di Emilio De Marchi a questo punto sottrae il cappello dalla vista (per poi renderlo straordinariamente visibile in un secondo tempo).
A villa Santafusca, carcassa esanime di un glorioso passato, il barone, letteralmente affamato e ormai risoluto a uccidere, fissa la testa della sua ignara preda come se vi scorgesse già il cranio di un morto. Il cappello è scomparso dal suo campo visivo. E questa sua sparizione tra non molto, a misfatto compiuto, assumerà la pregnanza di un indizio.
“Camminava dietro il prete come fosse l’ombra sua. Un fremito di paura e di ferocia vibrava ne’ forti muscoli, che la volontà più forte dominava, soffocava. L’occhio avido divorava già il prete dietro la nuca, lungo i cordoni del collo, che il prete aveva sottile e gracile”.
Il barone è “accecato da una sanguigna vertigine”, ma anche il prete sembra obnubilato “dalla sua avara passione” e non si accorge dell’espressione rapita e feroce del Santafusca, la cui voce risuona come un “tamburo funebre”.
È avvenuta, insomma, una sospensione dei sensi e un ottundimento della ragione. L’uno è trascinato da una “forza maligna”, l’altro è dalla sua cupidigia. E in un attimo si compie il destino di entrambi. Unico testimone, nel gran silenzio di uno scenario di morte, una lucertola che pare “affascinata” dal sortilegio del delitto.
Se la natura è rimasta “quieta” e impassibile al fatto di sangue (come le capre che guardano “stupidamente” l’assassino, intente a ruminare) sorgono invece i primi dubbi nei confusi pensieri del barone. All’indifferenza del mondo esteriore corrisponde lo smarrimento e l’inquietudine di quello interiore.
“Sono sensazioni!”, si dice il barone. E ripeterà tante volte a se stesso questa banale rassicurazione, che tuttavia non riesce a rasserenarlo.
La coscienza si risveglia. Torna a mordere, dopo essere stata scacciata. Santafusca avverte subito l’esigenza di compensare l’atto scellerato con un po’ di bene e promette “qualche denaro” al suo vecchio e fedele servitore Salvatore, affinché “possa campare una vita meno da cane”.
È un gesto di minima pietà, ma è sufficiente a suscitare nel cuore inaridito del barone “un sentimento tenero e caldo”, a sciogliere la nebbia del suo furore e a fargli sgorgare le prime lacrime di pentimento.
D’altronde, il barone inquadra questa sua compassionevole disposizione in una sorta di meccanicismo etico: “Il bene è necessario alla vita quasi come l’olio alla macchina”. Non si tratta soltanto di notazioni psicologiche, magari tese a dare spessore al personaggio. De Marchi qui imprime al racconto una svolta decisiva. Quasi tutto, d’ora in poi, avverrà nel tribunale interiore del barone nelle forme di un crescente delirio. Fin qui è stato mosso dalla necessità, ossia da una specie di determinismo inesorabile in cui ad ogni causa corrisponde un preciso effetto in un contesto storico e sociale in cui le vicende particolari trovano un’oggettiva collocazione.
Ora invece subentra una diversa determinazione che attiene alla sfera morale individuale: un “senso di pena”, un che di imponderabile e insopportabile. Il cambio di passo corrisponde a una fuoriuscita da ogni possibile riferimento a una narrazione poliziesca. Il delitto è avvenuto ma nessuno ne fa oggetto d’indagine. Solo il colpevole si tormenta a rievocarlo in una specie di teatro della coscienza. In tal modo De Marchi può sviluppare altri filoni narrativi, a partire dal tema faustiano.
Faust, probabilmente
La causalità razionale, ancorché aberrante, che ha guidato le azioni del Santafusca lascia il posto alle bizzarrie del caso e ai sortilegi del demoniaco.
Ora che la sua anima è gravata dalla colpa più infame, il barone si trasforma in un giocatore infallibile e fortunatissimo che con grande facilità vince una somma assai superiore a quella per la quale ha dovuto uccidere.
Il barone deve ripassare come uno scolaro insicuro il suo credo materialista-darwinista, di “inchiodarselo addosso”, per sedare il rimorso lo smarrimento che lo attanaglia. Ma per quanto ribadisca a se stesso che il “cielo non è che una soffitta dove collochiamo le idee che non usiamo più”, egli ne sente addosso il peso insostenibile che lo schiaccia e lo annienta. E sente pure la minaccia mostruosa di quel “grande egoismo sociale che si chiama la legge”.
Più sprofonda nel suo io febbrile, proclamando la legge universale dell’egoismo, e più si accorge di non essere solo e di non bastare a se stesso.
Nel mentre continua a vincere al gioco, a sfidare la sorte e a uscirne trionfante. Il patto blasfemo funziona a meraviglia: ogni puntata, per quanto avventata, si trasforma in un capitale.
E vince pure Filippino, al lotto, con i numeri datigli da Cirillo in cambio del cappello, come se una serie di destini correlati fosse coinvolta indirettamente e diversamente dal patto col diavolo del barone.
La buona sorte non porta allegria né serenità. Troppo tardi è venuta. Quando ormai non serve più. E forse è venuta proprio perché ormai non serve più e l’orrore si è consumato proprio a questo prezzo. Un “senso di tristezza” è penetrato inspiegabilmente nel corpo del barone, che si avverte come essiccato dalla fiamma del peccato, nella consapevolezza sconcertante che “è più facile uccidere un uomo, che uccidere un pregiudizio”.
De Marchi alterna i modi del racconto gotico con quelli quelli dell’esempio morale. La crime-story, infatti, si è trasformata in una ghost-story e il cappello del prete svolazza imprevedibilmente proprio come una fantasmatica sineddoche.
Dapprima la sua dinamica rientra in un ordine logico ricostruibile: rotolato a terra a causa del colpo mortale subito da Cirillo, è stato ritrovato da Salvatore, il custode di Palazzo Santafusca, che lo ha portato nella sua misera abitazione. Anche Salvatore muore, di stenti, di vecchiaia o forse a causa della maledizione scatenata dal suo padrone. Viene dunque a dargli l’estrema unzione il buon Don Antonio, parroco di Santafusca, che si fa scrupolo perfino di nuocere con lo zolfo alle “signore formiche” che invadono il suo giardino. Avviene così che Don Antonio scambi inavvertitamente il cappello di padre Cirillo con il suo. L’equivoco nasce dallo sdoppiamento e dalla sovrapposizione, da un qui pro quo, e darà luogo a tutta una serie di altri disguidi. Il cappello forgiato da Filippino (destinato ad altri e ceduto in cambio di una cabala) proietta sul suolo una diversa e inquietante ombra (anima?) di cui il candido Don Antonio si accorge ben presto con un mortificato senso di colpa.
Sprigionato dal luogo del delitto (la scena del crimine, come si usa dire) il “cappello del diavolo” se ne va dunque in giro a destare sospetti e diventa per la folla superstiziosa un numero da smorfiare e per certo giornalismo strillato un mistero tramite il quale alimentare la curiosità popolare.
Suggestionato e ossessionato dalle voci di strada e dal tormentone mediatico, il barone vede ormai ovunque il cappello a tre punte (il triangolo divino?) “svolazzare intorno” come un uccello di malaugurio. E tenta follemente di uccidere il cappello (che ormai è tutt’uno col prete). Travestito da cacciatore va dunque sulle sue tracce, seguendo le indicazioni fornite dalla stampa, se ne impossessa e lo affonda in alto mare. Ma il cappello, proprio come il prete, è restio a morire. Se non sette, ha almeno due vite, giacché si è sdoppiato. Riemerge dal suo abisso. Santafusca scopre a sue spese, nonostante i “bagni di filosofia” a cui si sottopone, che uccidere un cappello è impresa più difficile che uccidere un uomo e perfino un pregiudizio. La regressione dal positivismo all’animismo è ormai compiuta: nel cappello è rimasto “un brandello dell’anima del prete”.
Il libero pensatore si scopre sentimentale e rievoca con nostalgia e rimpianto le care memorie della giovinezza, ancora pura e perfino sfiorata da un vago misticismo. E prova invidia per i miserabili, i “pitocchi”, che sono felici, pur nella loro estrema povertà, perché almeno non hanno da sopportare il peso della colpa. Un peso che logora, corrode e lentamente uccide indebolendo il cuore (come segnala incidentalmente “un senso di acuta trafittura tra le costole a sinistra”).
Poi avverte in sé, come un rabbrividito presagio, “l’abbattimento profondo dell’uomo condannato”. Ma in realtà nessuno ancora lo crede colpevole e nessuno lo accusa. Se non lui stesso, beninteso, che infatti prova orrore quando il casto don Antonio sta per baciargli devotamente la mano. E la ritira con raccapriccio, non per l’atto servile e arcaico, ma per ciò che la sua mano ha fatto, lordandosi irreparabilmente.
Turbato dal gesto, immagina per sé un riscatto simile a quello dell’Innominato manzoniano, “anima nera venduta al demonio, che trovò nelle lagrime della compunzione e nelle buone azioni la sua morale rigenerazione”.
Ma il suo intento resta un mero esercizio retorico, risolvendosi in un patto segreto e interiore con un Dio buono disposto a perdonarlo in cambio di “una vita di espiazione”. Il patto in realtà è mendace, non solo perché il barone non è affatto disposto a sacrifici o penitenze, ma anche perché il suo vero scopo è dimostrare l’inesistenza di Dio: “Se esiste, non vede che io son sincero nel mio dolore e nel mio proponimento?”. Ergo, non esiste.
La conclusione è piuttosto malsicura. Tant’è che la coscienza non ne ha giovamento e persiste nella sua “persecuzione”, ignorando perfino il tentativo del barone di toglierla di mezzo con una teoria del “temperamento eccitabile”: il turbamento deriva “dai nervi e dalla immaginazione”, è una pura illusione, come certi stati allucinatori o come i dolori del cosiddetto arto fantasma.
La tesi del barone sembrerebbe ricollocare il romanzo in un quadro psicopatologico. Sul fronte sociologico si verifica intanto il diffondersi della “leggenda” popolare del cappello. Sennonché l’elemento gotico resiste a questa riduzione razionalista. Nel concatenarsi degli avvenimenti pare infatti scorgersi la “mano invisibile” della Provvidenza, e perfino la stampa, con la sua campagna sensazionalistica, svolge il ruolo di una Nemesi vindice (“Maledetti giornali!” - impreca il barone - “Maledette le ciarle stampate! Se io fossi il padrone, vorrei affogarli tutti i giornalisti!”).
Qui De Marchi gioca, con sottile ironia metaletteraria, sullo stesso mezzo che diffonde il suo romanzo. E sembra suggerire al lettore di non snobbare né il medium né il messaggio (“Vino e sangue! Che bel titolo per un romanzo d’appendice!”).
Senza che ancora si sia avviata un’inchiesta vera e propria, il barone si è già condannato da solo. Sicché quando il magistrato (peraltro un suo amico) lo invita nel suo ufficio per una semplice deposizione, Santafusca perde ogni controllo sulla propria ragione, farnetica, si sdoppia e con schizofrenico dualismo accusa se stesso, nelle vesti di “cacciatore” e di “anticristo”, con una serie di deliranti lapsus rivelatori.
Il giallo non ha avuto nemmeno il tempo di iniziare il suo iter, ed è stato subito risucchiato nel vortice di una follia lungamente incubata. Anche il racconto fantastico, nei modi della Scapigliatura, rimane a un livello potenziale o di mera citazione. A De Marchi interessa soprattutto il caso morale, la condizione umana, così diversa da quella della lucertola, perché oberata dal “castigo” di pensare e di dover “conciliare” un “cuore pieno di spaventi” con una “ragione piena di principi”.
Il barone di Santafusca, “tradito e punito dalla sua stessa coscienza”, si congeda così sbrigativamente dal romanzo poliziesco e annuncia le macerazioni veriste del Marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana.
Potremmo definirla la “logica della pizza”. La pizza, come tutti sanno, è un impasto di farina e acqua spianato e allargato, generalmente in forma circolare, sul quale possono disporsi i più diversi condimenti. Ai tradizionali ingredienti della gastronomia popolare napoletana (pomodoro, mozzarella, basilico) si sono così aggiunte, nel corso del tempo e in una dimensione pressoché planetaria, molteplici e perfino bizzarre integrazioni e variazioni, a seconda dei gusti e delle abitudini alimentari.
Ovunque, però, nonostante le più eterodosse digressioni, la pizza resta pizza ed è nota come pizza. Perché tutto può essere pizza, essendo la base, il supporto, insieme al modo in cui è consumata, a fare della pizza ciò che definiamo pizza.
Mutatis mutandis, in letteratura il ruolo della pizza è stato assunto, ormai da alcuni decenni, dal romanzo giallo (nelle varianti di poliziesco, mystery, noir, thriller etc.) in modo analogo, per non dire identico.
Si prenda una base (un impasto di morte con un po’ di mistero), la si spiani fino a ridurla a uno strato più o meno sottile, vi si aggiunga qualsivoglia elemento (solitamente gastronomia, eros, folclore, paesaggismo turistico, psicologia anche grossolana, un pizzico di cultura citazionista a speziare la pagina…), s’inforni il tutto ed ecco pronta la pizza, cioè il “giallo”.
Oggi tutto è giallo (magari altrimenti detto, ma ugualmente ammannito). Più esattamente, tutto è spacciato per giallo, poiché il mercato culturale non sembra voler accogliere (tranne rare eccezioni) altra tipologia letteraria.
Accade così, imperando questa noiosissima moda monocromatica, che le opere più eteroclite vengano a forza ricondotte e costrette da una mistificante strategia editoriale nella definizione settoriale del giallo, in cui ovviamente non possono trovare un’adeguata collocazione.
E passi pure per quella saggistica storica che, con qualche forzatura non del tutto incongrua, individua i precursori del genere nell’Edipo di Sofocle o nell’Amleto di Shakespeare o nello Zadig di Voltaire. Va da sé che nessun lettore di buon senso si sognerebbe mai di considerare queste opere dei protogialli in senso stretto. Ma è pur vero che il racconto poliziesco non nasce già provvisto di tutto il suo armamentario come Atena dalla mente di Zeus (ovvero come Dupin dalla mente di Poe).
Ed è vero soprattutto che in epoche (ormai archiviate) in cui vigeva il discredito assoluto per la cosiddetta letteratura di massa o paraletteratura, era necessario e opportuno ricordare a una sprezzante intellighenzia (invero piuttosto ottusa) che il giallo (come la fantascienza) si nutriva di una ricca e nobile tradizione culturale, rielaborandola in modo creativo e originale.
D’altronde, la ricerca delle origini di qualsiasi prodotto culturale corre sempre il rischio di sprofondare fino ai primordi della civiltà (praticamente non c’è invenzione dell’ingegno di cui non si trovino embrioni nella mitologia greca o nella Bibbia). Bisogna allora che in questa regressione si ponga un punto di arresto e di inizio, ovvero l’individuazione di un fattore di relativa novità che giustifichi la nascita di qualcosa di diverso, che prima non si dava, non si coglieva, almeno non in una forma definita e paradigmatica.
Fatta salva questa premessa, possiamo avventurarci (e divertirci) a trovare tracce e impronte di romanzo poliziesco nelle Mille e una notte o nelle favole di Esopo: investigazione peraltro molto utile e istruttiva.
Altra cosa è però spacciare per gialli, con un fraintendimento totale, romanzi che col giallo hanno pochissimo in comune e si collocano evidentemente su un versante del tutto dissimile. L’esempio classico è Delitto e castigo di Dostoevskij.
Basta il delitto, il sangue versato, la colpa di Caino, a fare di una vicenda, per quanto orrenda e tenebrosa, un caso poliziesco? Non occorre nemmeno rispondere a questa domanda retorica.
Eppure, una pubblicazione specialistica come il benemerito “Giallo Mondadori” ha nello scorso luglio proposto ai propri lettori (tra cui il sottoscritto) Il cappello del prete di Emilio De Marchi, insieme a I trentanove scalini di John Buchan e I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe, in un volume intitolato “Agli albori del giallo”. Una bellissima trilogia, beninteso.
Tuttavia, in questa spericolata operazione ci troviamo di fronte a due fondamentali equivoci: uno di ordine qualitativo e l’altro di ordine cronologico. Cominciamo da quest’ultimo.
Un esperimento letterario
Il cappello del prete apparve a puntate sul quotidiano milanese “L’Italia” nel 1887, cioè ben quarantasei anni dopo I delitti della rue Morgue di Poe, considerati il prototipo della detective story. Tutt’altro che agli “albori del giallo”, quindi.
Ma potremmo dire che è ancora abbastanza presto nella storia del genere. Il 1887 è l’anno dell’apparizione di Sherlock Holmes in Uno studio in rosso. Siamo, insomma, nell’epoca d’oro del giallo deduttivo, del mystery classico.
Ma Il cappello del prete non ha nulla in comune con i gialli deduttivi (o abduttivi) di Arthur Conan Doyle (a cominciare dal fatto che nel romanzo di Emilio De Marchi non si deduce granché). Semmai (e la questione è stata più volte dibattuta) può avere come riferimento l’opera di Dostoevskij (per certi versi Delitto e castigo, per altri I fratelli Karamazov). Il problema che a lungo si pose la critica riguardava due possibili opzioni: romanzo psicologico o etico. Dilemma piuttosto sofistico, che tuttavia escludeva derive popolari.
E siamo in tal modo pervenuti all’obiezione qualitativa. Non si tratta di una differenza tra alta e bassa letteratura (in questi termini io porrei Poe su un gradino più alto, pur apprezzando l’ottimo scrittore milanese). Bensì di un problema di struttura narrativa: Il cappello del prete non è un giallo, innanzitutto perché si pone fini diversi da quelli generalmente perseguiti dalla letteratura poliziesca.
Il problema dei fini che lo scrittore pone a se stesso, alla sua opera e ai suoi lettori, è sempre fondamentale. Ma lo è in modo particolare nel caso di questo romanzo che Emilio De Marchi, nella avvertenza premessa alla prima edizione in volume (Treves, 1888), definisce “d’esperimento”.
In che senso l’autore considera sperimentale questo suo lavoro che non presenta particolari oltranze formali o tematiche? In primo luogo nella scelta della modalità frammentaria, a puntate, tipica del romanzo d’appendice che rappresenta una specie di test riguardante l’intera nazione (il romanzo apparve in seconda battuta anche sul “Corriere di Napoli”). De Marchi ha come punto di riferimento il largo seguito del feuilleton, in Francia o in Gran Bretagna, tra le classi popolari. Pensa a Sue, piuttosto che a Poe, e alla possibilità che anche in Italia, magari allargando pure in questo modo la cerchia dei lettori, si riesca a soddisfare i “semplici desideri del gran pubblico”. Per un verso, dunque, si tratta di un esperimento pedagogico, di un tentativo di alfabetizzazione letteraria. Ma c’è anche una rivendicazione anti-accademica, per così dire, e una moderna attenzione alle capacità di ricezione e di comprensione di un pubblico vasto e ingenuo, non tenuto dagli scrittori d’alto profilo in nessuna considerazione, ma che invece è un “signor pubblico” che a un’analisi più spregiudicata appare “meno volgo di quel che l’interesse e l’ignoranza nostra s’ingegnano di fare”.
È un pubblico illetterato, talora perfino rozzo, quello a cui specialmente si rivolge De Marchi con Il cappello del prete, ma che ha fame di buona letteratura.
Un pubblico vergine da cui si diparte un’energia positiva, a patto che l’autore sappia sintonizzarsi con esso in un rapporto di “comunicazione di spirito”. Sappia, cioè, acconsentire all’attrazione potente che “emana dalla moltitudine”.
L’esperimento tentato da De Marchi è dunque un’operazione di rinnovamento complessivo del rapporto tra letterati e lettori, basata su un avvicinamento reciproco che mira a “rinvigorire” la cultura italiana sottraendola alla “tisica costituzione dell’arte nostra”.
E in ciò è anche un ribaltamento rivoluzionario del punto di vista: non più la tautologica ed esclusiva circolarità dell’arte per l’arte, intesa come “cosa divina”, ma anche un più laico e disinibito rapporto con il pubblico, in base al principio che “non è male di tanto in tanto scrivere anche per i lettori”.
E ammettiamo pure che oggi, forse, sarebbe opportuno ribaltare questo ribaltamento, espropriando gli espropriatori e ribadendo che non sarebbe male se di tanto in tanto si scrivesse dimenticando i falsi imperativi del mercato. Resta comunque la modernità della proposta e dell’intuizione di De Marchi col suo Cappello del prete, e il rammarico che non sia stata seguita da molti altri scrittori di talento, timorosi di corrompere la propria arte con il gusto facile della massa non avvezza a raffinatezze poetiche. Laddove invece un meno occasionale bagno di folla (folla peraltro assai relativa in un’Italia di sterminato analfabetismo), cioè di concretezza e vita reale, avrebbe senz’altro giovato alla salute della nostra letteratura e del Paese tutto, entrambi attardati alla fine dell’Ottocento in un difficile processo di sviluppo.
De Marchi, dunque, è alla ricerca non tanto di un consenso, quanto invece di una profonda consentaneità con il sentimento popolare. Da qui la scelta della collocazione giornalistica e del taglio sensazionale, ovvero emotivo e viscerale, del romanzo d’appendice. E da qui anche l’opzione per l’ambientazione napoletana, che ovviamente lo esponeva al rischio di un possibile manierismo etnografico. Milano avrebbe offerto un contesto più europeo e metropolitano in cui una storia poliziesca (che in realtà poco interessa a De Marchi) poteva sperare di essere più credibile. Ma per entrare in sintonia con la forza naturale e i semplici desideri della moltitudine sognante gli occorreva la “fantasia rapida e violenta propria dei meridionali”.
La passione è infatti l’elemento centrale della trama. Passione per il gioco e l’azzardo, nelle varianti plebee (il lotto) e signorili (le carte, l’alea, la scommessa, la sfida col destino). Passione per il denaro, da tesaurizzare con feticistica perseveranza, o da sperperare con gaudente dissipazione.
Il prete e il barone
Agli opposti poli di questa divorante passione, De Marchi pone due figure simmetriche e complementari: da un lato il nobile Carlo Coriolano di Santafusca, u barone, esempio perfetto di un parassitismo aristocratico travolto dalla sua inarrestabile decadenza; dall’altro padre Cirillo, u prevete, che presta denaro a usura speculando sul tempo (che è di Dio) e sulla buona fede delle anime semplici che gli attribuiscono il potere di prevedere i numeri che verranno estratti al gioco del lotto, oppio consolatorio di un popolo miserabile per il quale il lavoro, quando c’è, non si converte mai in ricchezza e la ricchezza può essere soltanto frutto del caso e del vaticinio.
L’incipit pone immediatamente il racconto nell’ambito dell’apologo morale. Il barone è presentato come uno spirito nichilista che “non credeva in Dio e meno ancora credeva nel diavolo”. Un lettore non digiuno di classici sa già, dopo appena due righi, che una negazione così perentoria verrà sicuramente smentita e senza nemmeno dover ricorrere a particolari epifanie.
Il barone peraltro non è del tutto un cinico o un depravato. È un uomo messo alle strette dalla sorte che si trova sul baratro del declassamento a causa di un debito di 15.000 lire che non è in condizioni di onorare. La sua situazione economica è infatti disastrosa. Santafusca ha dilapidato il suo patrimonio ed ora è letteralmente un morto di fame. Ma ha avuto giorni migliori, che inaspriscono il suo orgoglio, e perfino un po’ di gloria a fianco dei garibaldini, allorché “prese una breve e brillante parte nelle ultime scaramucce di quel tempo e fu anche ferito alla fronte”, impresa forse non memorabile di cui gli rimane “una cicatrice sopra il ciglio” (allusivo particolare risorgimentale, o per meglio dire anti-risorgimentale, che forse non è sfuggito a Tomasi di Lampedusa, giacché coincide con l’inizio della carriera politica del Tancredi gattopardiano).
Padre Cirillo, se non appartiene alla specie dei Fra Cristoforo, non è nemmeno ascrivibile a quella dei Don Abbondio (a cui il romanzo dedica un inciso).
Non che manchi di viltà, beninteso. Aspira anzi a lasciare Napoli, raccolta una bastevole somma di denaro, proprio per sottrarsi alla perenne minaccia di quei Bravi che sono detti guappi e camorristi, i quali una volta l’hanno persino rapito per estorcergli i numeri vincenti.
Ma l’attributo caratteristico di Cirillo è piuttosto l’avidità, una spietata bramosia di capitalizzare il suo talento per gli affari mondani. Delle questioni celesti, u prevete si cura così poco che ha adibito una Summa theologica in-folio di Tommaso d’Aquino a registro contabile dei suoi crediti e caveau di “quietanze e boni di pegno, garanzie, piccole ipoteche, cambiali, pagherò”, rintanati in una nicchia scavata, con empia ironia, laddove “il dottor Angelico parla dell’habitus operativus”.
La virtus per questo businessman in abito talare non è che questa acquisita facoltà di accumulare ricchezza in transazioni opache che coinvolgono perfino il Banco di Napoli, le rendite di Stato e fondiarie, le ferrovie meridionali e i tramways napoletani, in un lucroso intreccio di spregiudicate speculazioni.
L’avarizia è dunque il suo vizio e al tempo stesso la sua strategica mimesis. Veste abiti consunti e polverosi, abita “nei quartieri più poveri” in una misera soffitta perennemente invasa dal “puzzo del pesce, che il popolino frigge sugli usci e nella via”. Anche l’aspetto fisico di questo Arpagone ha qualcosa del rapace e del pirata: le sue mani lunghe e magre hanno “unghie più forti degli uncini che tirano nel porto i barili e i sacchi del merluzzo”.
Mettendosi nelle sue mani adunche per ottenere la somma necessaria a sanare il suo debito, il barone sa bene di trasformarsi nella preda di un inesorabile razziatore. Ma ha l’acqua alla gola, e disperatamente decide di vendere il palazzo avito, la cadente e abbandonata Villa di Santafusca, per la modesta cifra di 30.000 lire.
Il prete strozzino pensa ovviamente di ricavare un profitto ben maggiore dall’affare che si accinge a chiudere approfittando della situazione di estremo bisogno in cui versa il Santafusca. Ma anche quest’ultimo comincia a fare dei progetti, e uno tra questi, “nero in mezzo ai bigi”, sembra prendere il sopravvento sugli altri. Si fa strada, insomma, nella sua mente sconvolta l’idea di appropriarsi delle 30.000 lire senza dover ricorrere alla vendita della nobile magione, ma utilizzando l’antichissima risorsa del delitto. D’altronde, il barone è in tutto e per tutto un uomo di mondo che non ne conosce altri e ancor meno li suppone. E se Dio non c’è, non è forse tutto ammissibile?
Facile a dirsi, ma assai meno a convincersene. Un conto è infatti fare professione di nichilismo e un altro è teorizzare e giustificare un assassinio. Per non dire del praticarlo effettivamente, che è tutt’altra cosa ancora.
Santafusca procede allora a identificare padre Cirillo con il suo oro maledetto: “Se gli togli il denaro, che cos’è questo scheletro umano vestito da prete? Egli non è un uomo, ma una somma, un sacchetto”. Reificato e disumanizzato in tal modo, il capro espiatorio è pronto per essere sgozzato sull’altare sacrificale.
Santafusca elenca le sue ragioni, in parte egoistiche, in parte sociali e in qualche modo riconducibili a meccanismi naturali di selezione, secondo la lezione che il “celebre dottor Panterre” fa nel suo “Trattato delle cose”.
Non dimentica i suoi avi estinti né la fedele istitutrice Maddalena, che ormai vecchia langue in una miseria assoluta, per la quale egli prova un tenero affetto:
“Io salvo l’onore dei miei padri, salvo me dalla prigione, salvo Maddalena dalla fame, pago i miei debiti, rendo il pane a tanti bisognosi, fo elemosine, ristabilisco la giustizia, compio una legge di natura”.
Ma se davvero tutto è lecito per “un uomo superiore ai pregiudizi”, perché affannarsi a trovare e a sommare gli effetti benefici di un così necessario omicidio? Perché ripetersi ogni giorno che non resta “altro rimedio” al suo problema che l’omicidio e il furto?
Il terzo incomodo: la coscienza
In realtà Santafusca, proprio mentre si accinge a varcare l’estremo limite del consentito con terribile violenza e scientifico disprezzo d’ogni obbligo compassionevole e solidale nei confronti di un suo simile, sente già il bisogno di costruirsi una morale e di richiamarsi alle ragioni migliori del suo cuore.
Comincia cioè a scoprire di avere una coscienza e di non sapere come sbarazzarsene razionalmente.
Sarà pure un “lusso” la coscienza, “l’eleganza dell’uomo felice”, ma è un lusso di cui Santafusca scopre infelicemente di non potere fare a meno.
Sull’opposto versante, anche padre Cirillo si dibatte con speculare ipocrisia in analoghi dilemmi della coscienza. Davanti al triste spettacolo della miseria del popolo che invoca il soccorso di Dio, egli prova un autentico (ma non sincero) rimorso per le sofferenze che il suo “talento” di usuraio arreca a tante persone disperate e si ripromette di sconfiggere “la forza dell’egoismo” con una condotta più generosa.
“Molte limosine egli avrebbe potuto fare colla rendita dei suoi risparmi e avrebbe poi fatto un testamento a favore dei poveri e delle orfanelle”.
Ma né il barone né il prete hanno davvero intenzione di mettere in pratica questa loro machiavellismo morale, questo spregiudicato uso del male anche a fin di bene. E infatti, quando Cirillo si reca da Filippino il cappellaio per riscuotere un credito e sente dirsi da costui che ha “la moglie malata di risipola e quattro figlioli che muoiono di fame”, la sua risposta non lascia trapelare la minima pietà, la minima comprensione: “E che ci posso fare io?”.
Il tempo delle elemosine e delle elargizioni testamentarie è posto in un futuro ipotetico e lontano, in “un giorno” in cui Dio vorrà “essere pagato coll’oro delle buone azioni”. Per quest’oro, Cirillo non ha talento, né sa che il redde rationem è ormai prossimo e si annuncia simbolicamente con “un bel cappello nuovo” coi nastrini di seta che Filippino ha fatto per monsignor vicario, a cui però “è tornato troppo stretto”.
Cirillo se ne impossessa, cedendo alla vanità, senza sapere che d’ora in poi sarà lui a essere posseduto da questo cappello “leggiero come una foglia” che assurge imperiosamente a protagonista del romanzo.
L’abile strategia narrativa di Emilio De Marchi a questo punto sottrae il cappello dalla vista (per poi renderlo straordinariamente visibile in un secondo tempo).
A villa Santafusca, carcassa esanime di un glorioso passato, il barone, letteralmente affamato e ormai risoluto a uccidere, fissa la testa della sua ignara preda come se vi scorgesse già il cranio di un morto. Il cappello è scomparso dal suo campo visivo. E questa sua sparizione tra non molto, a misfatto compiuto, assumerà la pregnanza di un indizio.
“Camminava dietro il prete come fosse l’ombra sua. Un fremito di paura e di ferocia vibrava ne’ forti muscoli, che la volontà più forte dominava, soffocava. L’occhio avido divorava già il prete dietro la nuca, lungo i cordoni del collo, che il prete aveva sottile e gracile”.
Il barone è “accecato da una sanguigna vertigine”, ma anche il prete sembra obnubilato “dalla sua avara passione” e non si accorge dell’espressione rapita e feroce del Santafusca, la cui voce risuona come un “tamburo funebre”.
È avvenuta, insomma, una sospensione dei sensi e un ottundimento della ragione. L’uno è trascinato da una “forza maligna”, l’altro è dalla sua cupidigia. E in un attimo si compie il destino di entrambi. Unico testimone, nel gran silenzio di uno scenario di morte, una lucertola che pare “affascinata” dal sortilegio del delitto.
Se la natura è rimasta “quieta” e impassibile al fatto di sangue (come le capre che guardano “stupidamente” l’assassino, intente a ruminare) sorgono invece i primi dubbi nei confusi pensieri del barone. All’indifferenza del mondo esteriore corrisponde lo smarrimento e l’inquietudine di quello interiore.
“Sono sensazioni!”, si dice il barone. E ripeterà tante volte a se stesso questa banale rassicurazione, che tuttavia non riesce a rasserenarlo.
La coscienza si risveglia. Torna a mordere, dopo essere stata scacciata. Santafusca avverte subito l’esigenza di compensare l’atto scellerato con un po’ di bene e promette “qualche denaro” al suo vecchio e fedele servitore Salvatore, affinché “possa campare una vita meno da cane”.
È un gesto di minima pietà, ma è sufficiente a suscitare nel cuore inaridito del barone “un sentimento tenero e caldo”, a sciogliere la nebbia del suo furore e a fargli sgorgare le prime lacrime di pentimento.
D’altronde, il barone inquadra questa sua compassionevole disposizione in una sorta di meccanicismo etico: “Il bene è necessario alla vita quasi come l’olio alla macchina”. Non si tratta soltanto di notazioni psicologiche, magari tese a dare spessore al personaggio. De Marchi qui imprime al racconto una svolta decisiva. Quasi tutto, d’ora in poi, avverrà nel tribunale interiore del barone nelle forme di un crescente delirio. Fin qui è stato mosso dalla necessità, ossia da una specie di determinismo inesorabile in cui ad ogni causa corrisponde un preciso effetto in un contesto storico e sociale in cui le vicende particolari trovano un’oggettiva collocazione.
Ora invece subentra una diversa determinazione che attiene alla sfera morale individuale: un “senso di pena”, un che di imponderabile e insopportabile. Il cambio di passo corrisponde a una fuoriuscita da ogni possibile riferimento a una narrazione poliziesca. Il delitto è avvenuto ma nessuno ne fa oggetto d’indagine. Solo il colpevole si tormenta a rievocarlo in una specie di teatro della coscienza. In tal modo De Marchi può sviluppare altri filoni narrativi, a partire dal tema faustiano.
Faust, probabilmente
La causalità razionale, ancorché aberrante, che ha guidato le azioni del Santafusca lascia il posto alle bizzarrie del caso e ai sortilegi del demoniaco.
Ora che la sua anima è gravata dalla colpa più infame, il barone si trasforma in un giocatore infallibile e fortunatissimo che con grande facilità vince una somma assai superiore a quella per la quale ha dovuto uccidere.
Il barone deve ripassare come uno scolaro insicuro il suo credo materialista-darwinista, di “inchiodarselo addosso”, per sedare il rimorso lo smarrimento che lo attanaglia. Ma per quanto ribadisca a se stesso che il “cielo non è che una soffitta dove collochiamo le idee che non usiamo più”, egli ne sente addosso il peso insostenibile che lo schiaccia e lo annienta. E sente pure la minaccia mostruosa di quel “grande egoismo sociale che si chiama la legge”.
Più sprofonda nel suo io febbrile, proclamando la legge universale dell’egoismo, e più si accorge di non essere solo e di non bastare a se stesso.
Nel mentre continua a vincere al gioco, a sfidare la sorte e a uscirne trionfante. Il patto blasfemo funziona a meraviglia: ogni puntata, per quanto avventata, si trasforma in un capitale.
E vince pure Filippino, al lotto, con i numeri datigli da Cirillo in cambio del cappello, come se una serie di destini correlati fosse coinvolta indirettamente e diversamente dal patto col diavolo del barone.
La buona sorte non porta allegria né serenità. Troppo tardi è venuta. Quando ormai non serve più. E forse è venuta proprio perché ormai non serve più e l’orrore si è consumato proprio a questo prezzo. Un “senso di tristezza” è penetrato inspiegabilmente nel corpo del barone, che si avverte come essiccato dalla fiamma del peccato, nella consapevolezza sconcertante che “è più facile uccidere un uomo, che uccidere un pregiudizio”.
De Marchi alterna i modi del racconto gotico con quelli quelli dell’esempio morale. La crime-story, infatti, si è trasformata in una ghost-story e il cappello del prete svolazza imprevedibilmente proprio come una fantasmatica sineddoche.
Dapprima la sua dinamica rientra in un ordine logico ricostruibile: rotolato a terra a causa del colpo mortale subito da Cirillo, è stato ritrovato da Salvatore, il custode di Palazzo Santafusca, che lo ha portato nella sua misera abitazione. Anche Salvatore muore, di stenti, di vecchiaia o forse a causa della maledizione scatenata dal suo padrone. Viene dunque a dargli l’estrema unzione il buon Don Antonio, parroco di Santafusca, che si fa scrupolo perfino di nuocere con lo zolfo alle “signore formiche” che invadono il suo giardino. Avviene così che Don Antonio scambi inavvertitamente il cappello di padre Cirillo con il suo. L’equivoco nasce dallo sdoppiamento e dalla sovrapposizione, da un qui pro quo, e darà luogo a tutta una serie di altri disguidi. Il cappello forgiato da Filippino (destinato ad altri e ceduto in cambio di una cabala) proietta sul suolo una diversa e inquietante ombra (anima?) di cui il candido Don Antonio si accorge ben presto con un mortificato senso di colpa.
Sprigionato dal luogo del delitto (la scena del crimine, come si usa dire) il “cappello del diavolo” se ne va dunque in giro a destare sospetti e diventa per la folla superstiziosa un numero da smorfiare e per certo giornalismo strillato un mistero tramite il quale alimentare la curiosità popolare.
Suggestionato e ossessionato dalle voci di strada e dal tormentone mediatico, il barone vede ormai ovunque il cappello a tre punte (il triangolo divino?) “svolazzare intorno” come un uccello di malaugurio. E tenta follemente di uccidere il cappello (che ormai è tutt’uno col prete). Travestito da cacciatore va dunque sulle sue tracce, seguendo le indicazioni fornite dalla stampa, se ne impossessa e lo affonda in alto mare. Ma il cappello, proprio come il prete, è restio a morire. Se non sette, ha almeno due vite, giacché si è sdoppiato. Riemerge dal suo abisso. Santafusca scopre a sue spese, nonostante i “bagni di filosofia” a cui si sottopone, che uccidere un cappello è impresa più difficile che uccidere un uomo e perfino un pregiudizio. La regressione dal positivismo all’animismo è ormai compiuta: nel cappello è rimasto “un brandello dell’anima del prete”.
Il libero pensatore si scopre sentimentale e rievoca con nostalgia e rimpianto le care memorie della giovinezza, ancora pura e perfino sfiorata da un vago misticismo. E prova invidia per i miserabili, i “pitocchi”, che sono felici, pur nella loro estrema povertà, perché almeno non hanno da sopportare il peso della colpa. Un peso che logora, corrode e lentamente uccide indebolendo il cuore (come segnala incidentalmente “un senso di acuta trafittura tra le costole a sinistra”).
Poi avverte in sé, come un rabbrividito presagio, “l’abbattimento profondo dell’uomo condannato”. Ma in realtà nessuno ancora lo crede colpevole e nessuno lo accusa. Se non lui stesso, beninteso, che infatti prova orrore quando il casto don Antonio sta per baciargli devotamente la mano. E la ritira con raccapriccio, non per l’atto servile e arcaico, ma per ciò che la sua mano ha fatto, lordandosi irreparabilmente.
Turbato dal gesto, immagina per sé un riscatto simile a quello dell’Innominato manzoniano, “anima nera venduta al demonio, che trovò nelle lagrime della compunzione e nelle buone azioni la sua morale rigenerazione”.
Ma il suo intento resta un mero esercizio retorico, risolvendosi in un patto segreto e interiore con un Dio buono disposto a perdonarlo in cambio di “una vita di espiazione”. Il patto in realtà è mendace, non solo perché il barone non è affatto disposto a sacrifici o penitenze, ma anche perché il suo vero scopo è dimostrare l’inesistenza di Dio: “Se esiste, non vede che io son sincero nel mio dolore e nel mio proponimento?”. Ergo, non esiste.
La conclusione è piuttosto malsicura. Tant’è che la coscienza non ne ha giovamento e persiste nella sua “persecuzione”, ignorando perfino il tentativo del barone di toglierla di mezzo con una teoria del “temperamento eccitabile”: il turbamento deriva “dai nervi e dalla immaginazione”, è una pura illusione, come certi stati allucinatori o come i dolori del cosiddetto arto fantasma.
La tesi del barone sembrerebbe ricollocare il romanzo in un quadro psicopatologico. Sul fronte sociologico si verifica intanto il diffondersi della “leggenda” popolare del cappello. Sennonché l’elemento gotico resiste a questa riduzione razionalista. Nel concatenarsi degli avvenimenti pare infatti scorgersi la “mano invisibile” della Provvidenza, e perfino la stampa, con la sua campagna sensazionalistica, svolge il ruolo di una Nemesi vindice (“Maledetti giornali!” - impreca il barone - “Maledette le ciarle stampate! Se io fossi il padrone, vorrei affogarli tutti i giornalisti!”).
Qui De Marchi gioca, con sottile ironia metaletteraria, sullo stesso mezzo che diffonde il suo romanzo. E sembra suggerire al lettore di non snobbare né il medium né il messaggio (“Vino e sangue! Che bel titolo per un romanzo d’appendice!”).
Senza che ancora si sia avviata un’inchiesta vera e propria, il barone si è già condannato da solo. Sicché quando il magistrato (peraltro un suo amico) lo invita nel suo ufficio per una semplice deposizione, Santafusca perde ogni controllo sulla propria ragione, farnetica, si sdoppia e con schizofrenico dualismo accusa se stesso, nelle vesti di “cacciatore” e di “anticristo”, con una serie di deliranti lapsus rivelatori.
Il giallo non ha avuto nemmeno il tempo di iniziare il suo iter, ed è stato subito risucchiato nel vortice di una follia lungamente incubata. Anche il racconto fantastico, nei modi della Scapigliatura, rimane a un livello potenziale o di mera citazione. A De Marchi interessa soprattutto il caso morale, la condizione umana, così diversa da quella della lucertola, perché oberata dal “castigo” di pensare e di dover “conciliare” un “cuore pieno di spaventi” con una “ragione piena di principi”.
Il barone di Santafusca, “tradito e punito dalla sua stessa coscienza”, si congeda così sbrigativamente dal romanzo poliziesco e annuncia le macerazioni veriste del Marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana.
Commento lasciato da Vito Bianco il 10 novembre 2017
Un pezzo di raffinata intelligenza critica. E di piacevolissima lettura.
Complimenti.
Un pezzo di raffinata intelligenza critica. E di piacevolissima lettura.
Complimenti.
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