
I TASSI DELLA FED NON VANNO IN LETARGO
di Marco Palazzotto 24 dicembre 2015
di Marco Palazzotto 24 dicembre 2015
La scorsa settimana la Federal Reserve (Fed) ha annunciato di aver alzato i tassi d’interesse dello 0,25%. Il fatto non succedeva dal 2006, periodo nel quale la politica monetaria espansiva della Fed è stata la più aggressiva dell’ultimo trentennio.
La notizia ha suscitato l’attenzione dei media di tutto il mondo. La maggior parte degli operatori economici e delle istituzioni politiche mostrano molto ottimismo riguardo alla decisione. Cerchiamo di capire perché.
I motivi del provvedimento monetario della Fed, secondo quanto ci raccontano i giornali nostrani, stanno nella lettura positiva dei dati macroeconomici degli USA. La produzione totale dovrebbe chiudersi anche quest’anno con un segno positivo superiore al 2,5%. La disoccupazione con un 5,3%, inferiore di quasi un punto percentuale rispetto al 2014. Infine l’inflazione, che è uno degli obiettivi principali delle banche centrali, nel 2015 dovrebbe chiudersi al di sotto dell’1%, ben lontano dall’obiettivo principale del 2% (dati World Economic Outlook, october 2015, FMI).
L’innalzamento della forbice che influisce sul tasso dei federal funds - ovvero i tassi dei fondi di riserva che le banche statunitensi sono obbligate a detenere sotto forma di depositi presso la Federal Reserve – dovrebbe essere sostenuto da un drenaggio di liquidità molto alto (tra i 310 e 800 mld), in controtendenza quindi ai Quantitative Easing (QE) degli ultimi anni (come ci indica Rischio Calcolato in questo articolo). Ciò dovrebbe provocare un innalzamento del costo del denaro e quindi facilitare non solo l’attrazione di capitali dall’estero, ma anche le esportazioni del resto del mondo verso gli USA.
Infatti, in Europa si stima un aumento della produzione industriale dovuto all’aumento delle esportazioni per l’effetto della svalutazione dell’Euro nei confronti del Dollaro. Quest’ultimo aspetto, se fosse veritiero, dimostrerebbe tra l’altro definitivamente il fallimento della politica monetaria espansiva della BCE che copiando dall’oltreoceano non è comunque riuscita a far uscire dalla stagnazione il nostro continente.
La spiegazione convenzionale di tutto ciò è quella di considerare teoricamente validi i modelli di previsione dell’attività economica che le banche centrali utilizzano per le decisioni di politica monetaria. In realtà, una lettura critica dei fatti appena esposti lascia pensare che il ruolo delle banche centrali nell’influenzare l’economia dei paesi è più di tipo politico che teorico (come dimostrano le diverse lettere del governatore della BCE ai paesi europei che non sono allineati alle politiche dettate dalla Troika).
L’influenza che ha infatti la dichiarata politica della Fed – e in Europa la BCE – sulle variabili macroeconomiche è poco rilevante. La correlazione inversa, che è alla base dei modelli teorici previsionali del new consensus macroeconomics (come ad esempio il DSGE: Dynamic stochastic general equilibrium (un approfondimento qui), tra politica monetaria, inflazione e domanda aggregata è sfatata dalla lettura dei dati.
Guardiamo ad esempio il grafico n. 1
La notizia ha suscitato l’attenzione dei media di tutto il mondo. La maggior parte degli operatori economici e delle istituzioni politiche mostrano molto ottimismo riguardo alla decisione. Cerchiamo di capire perché.
I motivi del provvedimento monetario della Fed, secondo quanto ci raccontano i giornali nostrani, stanno nella lettura positiva dei dati macroeconomici degli USA. La produzione totale dovrebbe chiudersi anche quest’anno con un segno positivo superiore al 2,5%. La disoccupazione con un 5,3%, inferiore di quasi un punto percentuale rispetto al 2014. Infine l’inflazione, che è uno degli obiettivi principali delle banche centrali, nel 2015 dovrebbe chiudersi al di sotto dell’1%, ben lontano dall’obiettivo principale del 2% (dati World Economic Outlook, october 2015, FMI).
L’innalzamento della forbice che influisce sul tasso dei federal funds - ovvero i tassi dei fondi di riserva che le banche statunitensi sono obbligate a detenere sotto forma di depositi presso la Federal Reserve – dovrebbe essere sostenuto da un drenaggio di liquidità molto alto (tra i 310 e 800 mld), in controtendenza quindi ai Quantitative Easing (QE) degli ultimi anni (come ci indica Rischio Calcolato in questo articolo). Ciò dovrebbe provocare un innalzamento del costo del denaro e quindi facilitare non solo l’attrazione di capitali dall’estero, ma anche le esportazioni del resto del mondo verso gli USA.
Infatti, in Europa si stima un aumento della produzione industriale dovuto all’aumento delle esportazioni per l’effetto della svalutazione dell’Euro nei confronti del Dollaro. Quest’ultimo aspetto, se fosse veritiero, dimostrerebbe tra l’altro definitivamente il fallimento della politica monetaria espansiva della BCE che copiando dall’oltreoceano non è comunque riuscita a far uscire dalla stagnazione il nostro continente.
La spiegazione convenzionale di tutto ciò è quella di considerare teoricamente validi i modelli di previsione dell’attività economica che le banche centrali utilizzano per le decisioni di politica monetaria. In realtà, una lettura critica dei fatti appena esposti lascia pensare che il ruolo delle banche centrali nell’influenzare l’economia dei paesi è più di tipo politico che teorico (come dimostrano le diverse lettere del governatore della BCE ai paesi europei che non sono allineati alle politiche dettate dalla Troika).
L’influenza che ha infatti la dichiarata politica della Fed – e in Europa la BCE – sulle variabili macroeconomiche è poco rilevante. La correlazione inversa, che è alla base dei modelli teorici previsionali del new consensus macroeconomics (come ad esempio il DSGE: Dynamic stochastic general equilibrium (un approfondimento qui), tra politica monetaria, inflazione e domanda aggregata è sfatata dalla lettura dei dati.
Guardiamo ad esempio il grafico n. 1
Come si nota la linea rossa relativa all’andamento dei tassi USA più che contrastare il trend al ribasso del PIL e dell’inflazione, lo segue, neutralizzando di fatto la Taylor Rule, strumento ancora utilizzato dalle BC e componente importante dei modelli DSGE di cui sopra.
Anche per l’ottimismo pronunciato in Europa, suggerirei cautela.
Anche per l’ottimismo pronunciato in Europa, suggerirei cautela.
Il grafico n. 2 dimostra che le variazioni dei tassi Fed non hanno avuto negli ultimi 15 anni una correlazione positiva con le esportazioni delle tre economie manifatturiere più importanti in Europa.
Insomma, la situazione USA non è di fatto tra le più rosee della sua storia, come invece ci vogliono far credere aumenti – tra l’altro minimi se pensiamo ad uno 0,25% – delle istituzioni monetarie d’oltre oceano. I QE post crisi e quindi i tassi bassi della Fed non hanno di fatto migliorato le condizioni della maggior parte della popolazione USA. Un’inflazione che non risale e che sta al di sotto dell’1% significa che il consumi non ripartono perché i salari sono bassi e precari. Il dato sulla disoccupazione è fuorviante se pensiamo che solo il 62% della popolazione statunitense è inserito nella forza lavoro (dato più basso degli ultimi 38 anni).
Forse un rialzo dei tassi vorrebbe essere un segnale per stimolare i corsi azionari del mercato borsistico, e riattivare quei circuiti contro tendenziali della finanza che hanno permesso durante tutta l’era del neoliberismo di sostenere il Minotauro Globale (metafora che utilizza l’ex ministro Yanis Varoufakis per descrivere il ruolo degli Usa nell’economia mondiale. L’amico Vincenzo Marineo ce lo ha raccontato qui).
In un’ottica conflittuale tra capitale e lavoro siamo quindi, a parere nostro, ben lontani dall’essere ottimisti per la notizia della Fed. Ci accingiamo probabilmente ad un periodo sempre più buio per noi lavoratori. Se negli Usa i tassi si alzeranno ulteriormente – insieme alla domanda aggregata sostenuta dal keynesismo di guerra – probabilmente si tenterà di riproporre un modello di deficit gemelli (deficit pubblico e deficit di conto corrente di bilancia dei pagamenti) che ha permesso alla prima potenza mondiale di rimanere tale e di sostenere, contemporaneamente, le economie dei maggiori alleati in Europa e Asia.
Per evitare però gli errori del passato – con le conseguenze che abbiamo vissuto dopo lo scoppio delle bolle dot-com e immobiliari – la politica estera Usa si inserisce in un quadro che tende sempre di più a considerare importante il fenomeno della reindustrializzazione. In questo contesto si inseriscono gli accordi bilaterali con i paesi asiatici ed europei sul libero scambio (di TTP e TTIP ne abbiamo parlato qui).
L’andamento ciclico dell’economia, con crisi sempre più frequenti, ormai dovrebbe averci fatto sviluppare gli anticorpi alla descrizione convenzionale dei fatti economici, alla quale sottostà una base teorica ormai sempre più sfuggente e lontana dal dibattito politico della sinistra nostrana. Di recente mi è capitato di difendere la scelta di rendere necessario lo studio della teoria economica classica e keynesiana con tutto il dibattito che ne è seguito nel 900, anche alla luce della critica ai sistemi socialisti.
Ritengo che senza una conoscenza delle teorie dominanti che le scuole di pensiero post marginalismo hanno messo in campo per egemonizzare il conflitto e senza un modello teorico che si possa contrapporre per rendere più forte la posizione degli sfruttati, non si può andare da nessuna parte. È il solito dilemma se concentrarsi sullo studio delle sovrastrutture o sulla struttura (per usare categorie terminologiche purtroppo ormai desuete). Io ritengo che entrambe le categorie siano importanti, ma la seconda è fondamentale. Ai posteri l’ardua sentenza.
Insomma, la situazione USA non è di fatto tra le più rosee della sua storia, come invece ci vogliono far credere aumenti – tra l’altro minimi se pensiamo ad uno 0,25% – delle istituzioni monetarie d’oltre oceano. I QE post crisi e quindi i tassi bassi della Fed non hanno di fatto migliorato le condizioni della maggior parte della popolazione USA. Un’inflazione che non risale e che sta al di sotto dell’1% significa che il consumi non ripartono perché i salari sono bassi e precari. Il dato sulla disoccupazione è fuorviante se pensiamo che solo il 62% della popolazione statunitense è inserito nella forza lavoro (dato più basso degli ultimi 38 anni).
Forse un rialzo dei tassi vorrebbe essere un segnale per stimolare i corsi azionari del mercato borsistico, e riattivare quei circuiti contro tendenziali della finanza che hanno permesso durante tutta l’era del neoliberismo di sostenere il Minotauro Globale (metafora che utilizza l’ex ministro Yanis Varoufakis per descrivere il ruolo degli Usa nell’economia mondiale. L’amico Vincenzo Marineo ce lo ha raccontato qui).
In un’ottica conflittuale tra capitale e lavoro siamo quindi, a parere nostro, ben lontani dall’essere ottimisti per la notizia della Fed. Ci accingiamo probabilmente ad un periodo sempre più buio per noi lavoratori. Se negli Usa i tassi si alzeranno ulteriormente – insieme alla domanda aggregata sostenuta dal keynesismo di guerra – probabilmente si tenterà di riproporre un modello di deficit gemelli (deficit pubblico e deficit di conto corrente di bilancia dei pagamenti) che ha permesso alla prima potenza mondiale di rimanere tale e di sostenere, contemporaneamente, le economie dei maggiori alleati in Europa e Asia.
Per evitare però gli errori del passato – con le conseguenze che abbiamo vissuto dopo lo scoppio delle bolle dot-com e immobiliari – la politica estera Usa si inserisce in un quadro che tende sempre di più a considerare importante il fenomeno della reindustrializzazione. In questo contesto si inseriscono gli accordi bilaterali con i paesi asiatici ed europei sul libero scambio (di TTP e TTIP ne abbiamo parlato qui).
L’andamento ciclico dell’economia, con crisi sempre più frequenti, ormai dovrebbe averci fatto sviluppare gli anticorpi alla descrizione convenzionale dei fatti economici, alla quale sottostà una base teorica ormai sempre più sfuggente e lontana dal dibattito politico della sinistra nostrana. Di recente mi è capitato di difendere la scelta di rendere necessario lo studio della teoria economica classica e keynesiana con tutto il dibattito che ne è seguito nel 900, anche alla luce della critica ai sistemi socialisti.
Ritengo che senza una conoscenza delle teorie dominanti che le scuole di pensiero post marginalismo hanno messo in campo per egemonizzare il conflitto e senza un modello teorico che si possa contrapporre per rendere più forte la posizione degli sfruttati, non si può andare da nessuna parte. È il solito dilemma se concentrarsi sullo studio delle sovrastrutture o sulla struttura (per usare categorie terminologiche purtroppo ormai desuete). Io ritengo che entrambe le categorie siano importanti, ma la seconda è fondamentale. Ai posteri l’ardua sentenza.
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