
HOTSPOT A PALERMO
Non è un problema di design
Pubblichiamo e aderiamo, come redazione di PalermoGrad, all’appello del movimento antirazzista palermitano predisposto da “Abbattiamo i muri”. Il documento è stato predisposto da COBAS Antirazzista di Palermo e riguarda la notizia dell’apertura nel capoluogo siciliano di un hotspot per 150 migranti.
Non è un problema di design
Pubblichiamo e aderiamo, come redazione di PalermoGrad, all’appello del movimento antirazzista palermitano predisposto da “Abbattiamo i muri”. Il documento è stato predisposto da COBAS Antirazzista di Palermo e riguarda la notizia dell’apertura nel capoluogo siciliano di un hotspot per 150 migranti.
Lo scorso 17 marzo il movimento antirazzista di questa città ha dovuto fare i conti con una pessima notizia nell’aria da mesi: a Palermo entro giugno si aprirà un hotspot, per “accogliere” i profughi appena sbarcati, capace di “ospitare” fino a 150 migranti. La struttura dovrebbe sorgere su un terreno non edificato di 2.800 metri quadrati, ex proprietà della famiglia mafiosa dei Graviano, situato in viale Regione Siciliana, nei pressi di via Oreto. In quest’area il ministero dell’Interno e la Protezione civile dovrebbero realizzare un “hotspot leggero”, composto “solamente” da alcuni prefabbricati. Al momento in Sicilia sono presenti 3 hotspot e una nuova struttura dovrebbe essere allestita nella caserma Gasparro a Messina; Palermo rientrerebbe, così, a pieno titolo, nel piano di potenziamento del “sistema della prima accoglienza”. La struttura, come annunciato da Gerarda Pantalone, capo del dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, dovrebbe “ospitare” insieme migranti adulti e minori stranieri non accompagnati – pratica del tutto illegale – appena sbarcati e in attesa di essere smistati nei centri di seconda accoglienza.
Il 18 gennaio, il Giornale di Sicilia ci ha fatto credere che Palermo, città accogliente, avesse rifiutato di aprire un hotspot su ordine di Roma. Eppure, lentamente, l’idea ha preso piede.
E nonostante la natura fortemente retorica delle dichiarazioni, l’uso di belle parole come “accoglienza” e “ospitalità”, nonostante i toni rassicuranti di un comunicato che parla di “hotspot leggero” e nonostante il tentativo, ben congegnato alla vigilia della Giornata in memoria delle vittime della mafia, di sottolineare la natura di bene confiscato del terreno in questione, come a contrapporre la dimensione dell’accoglienza alle logiche mafiose, la notizia ha avuto un forte impatto. Le condizioni di vita dei migranti negli hotspot già esistenti a Lampedusa, Pozzallo e Trapani sono note e ampiamente documentate, così questo annuncio ha creato non pochi problemi all'amministrazione in carica alla vigilia delle elezioni, specie se si pensa che Palermo è stata appena nominata “capitale della cultura 2018” proprio come “città dell'accoglienza” e inaugurerebbe il suo neoconquistato titolo con i segni tangibili di una chiara svolta securitaria nel suo territorio. Nel tentativo di correre ai ripari, l’Amministrazione ha subito chiarito che non di vero e proprio hotspot si parla, ma soltanto di una struttura di supporto alle operazioni di prima identificazione dei migranti appena arrivati, che il progetto non rientrerebbe nel sopracitato piano del Ministero dell’Interno, ma servirebbe soltanto ai migranti per evitare che le operazioni di prima accoglienza si svolgano unicamente in banchina, al porto, con tempi lunghissimi e in condizioni logistiche che rischiano di essere non rispettose della dignità. Il Comunicato ufficiale del Comune ribadisce di aver sempre rigettato la prassi e la logica degli hotspot, che non riconosce come modello di accoglienza perché producono degenerazioni ben note, come privazione delle libertà individuali e mortificazione delle persone. Fa eco, sulla stessa linea d’onda, la neo prefetta di Palermo Antonella De Miro, che si affretta a spiegare che non di una vera struttura si tratterà ma di prefabbricati, a disposizione del sistema di prima accoglienza soltanto per garantire la rapidità delle procedure di identificazione e la partenza per le altre destinazioni, come si fa adesso in questura.
Queste dichiarazioni, però, non ci convincono, specie nell’epoca Minniti. In primo luogo, come si legge chiaramente nelle “Procedure Operative Standard (SOP)” (facilmente reperibili in rete) redatte dal Ministero dell’Interno su indicazione della Commissione Europea e di altre realtà come Europol e Frontex, rese note lo scorso giugno, “hotspot” è, di per sé, un modello organizzativo leggero, pensato per la gestione di grandi arrivi che può essere stabilito in qualsiasi area territoriale. In realtà, come si legge, l’hotspot non è un “luogo”, ma un metodo di lavoro, con cui le Forze di Polizia, il personale sanitario e le organizzazioni internazionali e non governative devono gestire i migranti in ingresso. Tutte le strutture già esistenti sono già state allestite per “accogliere” i migranti e fornire le operazioni di prima assistenza, l’identificazione e la somministrazione delle informazioni necessarie alla richiesta della protezione internazionale, in attesa che vengano inseriti nel piano di relocation in Europa. Ora, come già previsto dal protocollo, la procedura di ricollocazione ha tempi molto variabili e dovrebbe essere completata entro due mesi, ma non occorre essere dei fini analisti per comprendere come i tempi in realtà siano ben diversi. Anche per fronteggiare l’emergenza sbarchi, questa struttura non avrebbe ragion d’essere. Ammesso che di emergenza si parli (dal momento che ogni arrivo è largamente previsto, per cui basterebbero semplici operazioni come implementare il personale disponibile in questura e organizzare in modo più opportuno la permanenza in banchina), anche in questo senso una struttura capace di ospitare 150 persone non risolverebbe il problema posto dagli sbarchi che sono stati molto numerosi e non così tanto frequenti da giustificare l’apertura di un (non-)luogo specifico.
Il punto, dunque, è ben diverso, non riguarda la natura dell’edificio in sé, ma la sua natura giuridica: si tratterebbe di un spazio di fatto escluso da ogni controllo giurisdizionale e legale, dove né gli avvocati né le associazioni potrebbero accedere. Infatti, “hotspot” ancora non indica un luogo con un preciso status legale, ma denomina un “approccio”, tanto minaccioso quanto vago, che la Commissione Europea ha annunciato a maggio 2015. Sulla base di questa logica impartita dall'alto, un luogo designato deve essere reso conforme a questo modello (non il contrario) in base alle norme italiane. Come ampiamente documentato, negli hotspot di Lampedusa e Pozzallo, le organizzazioni non governative hanno più volte denunciato le gravissime condizioni in cui vivono i migranti, la lunghezza dei tempi di attesa, la prolungata presenza di minori non accompagnati. Si tratta di luoghi in cui non sono affatto garantiti i diritti di informazione individuale, si tratta di luoghi in cui si travalicano norme e regole, in nome della retorica dell’emergenza e della sicurezza, luoghi dove si registra il più alto numero di respingimenti, per lo più formulati in base alla folle distinzione tra “migranti economici” e “richiedenti asilo”, formulata nel corso di una prima e quasi sempre errata prima identificazione.
Del resto, come ben chiarito nei protocolli, in alcuni casi tali respingimenti negli hotspot potranno essere eseguiti, ove ne ricorrano le condizioni, immediatamente oppure mediante il trasferimento in un CIE, perché in questi luoghi di fatto sono le forze di polizia che distinguono tra richiedenti asilo (soggetti inespellibili) e migranti economici irregolari, senza però avere né le competenze né l’autorità per farlo.
La memoria del movimento antirazzista è piuttosto lunga; questo non sarebbe di certo il primo esempio di struttura leggera capace di essere presto trasformata in lager. Era il 30 marzo del 2011 quando a Trapani, in contrada Chinisia, veniva annunciata l’installazione di un'altra struttura leggera, una tendopoli capace di ospitare circa 500 persone, per accogliere i migranti solo “temporaneamente”, in attesa di ricollocazione. Le tende sono poi state circondate da una spessa rete alta 3m, il luogo presidiato costantemente da un cospicuo contingente di Forze dell’ordine, i migranti “ospitati” sono diventati mille, la sosta durava diversi mesi e le organizzazioni umanitarie avevano grande difficoltà ad entrare per effettuare il monitoraggio. Proprio il modello Chinisia dimostra, ancora una volta, che il problema non è la struttura, ma l’intento politico che la determina. Una volta edificata, di qualsiasi struttura si tratti, dipenderà dal Ministero degli Interni deciderne l’utilizzo, confrontandosi tutt’al più con l’Amministrazione Comunale al momento in carica.
Su queste dinamiche, questi equilibri e queste relazioni siamo ben consapevoli che avremo davvero poche certezze e poco potere. Ma di una cosa siamo abbastanza sicuri. Abbiamo letto con attenzione i decreti Minniti, conosciamo gli schemi di accelerazione delle procedure di identificazione dei cittadini non comunitari e di contrasto all’immigrazione clandestina. Abbiamo letto chiaramente in quel decreto l’intento di assicurare l’effettività dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione e allontanamento dei cittadini stranieri irregolari mediante l’istituzione di sezioni speciali in alcuni tribunali tra cui Palermo. Abbiamo letto di come cambieranno le modalità di richiesta, di come avverrà il nuovo colloquio videoregistrato, di come l’interprete sarà tenuto a verificare la correttezza della trascrizione dopo la conclusione del colloquio e di come per accelerare le procedure di asilo si elimini un grado di appello in caso di respingimento. Abbiamo letto anche di come ai questori e ai sindaci sia riconosciuto il potere di allontanare per sei mesi chiunque venga considerato “indecoroso” – neppure necessariamente indagato – mediante un “mini Daspo urbano”.
E quindi, scusate se non ci fidiamo del bravo Ministro, del buon Sindaco e della zelante Prefetta.
Perché avevano ragione gli eritrei che nel 2015 a Lampedusa protestarono con uno sciopero della fame, quando il centro di prima accoglienza divenne un hotspot e i nuovi arrivati furono costretti, con la violenza, a lasciare le loro impronte digitali. Avevano ragione anche gli uomini fuggiti da Milo nel 2016, sotto gli occhi delle guardie armate. Come hanno ragione i presunti “scafisti”che, costretti con una pistola alla testa a guidare un gommone strapieno di persone, rivendicano la propria innocenza quando vengono arrestati non appena sbarcati sulle coste siciliane. Gli stessi migranti, le cavie destinate di questo processo, usati sin da subito come laboratorio umano su cui testare queste pratiche sistematiche di annientamento delle libertà personali, hanno dimostrato concretamente in questi anni cosa voglia dire Resistere. E il processo e le lotte continuano.
In questo clima politico ogni terreno può essere murato, ogni tenda imprigionata tra spesse reti, ogni edificio circondato da sbarre: ogni donna e ogni uomo possono essere reclusi. Poi abbattere quei muri, tagliare quelle reti e quelle sbarre sarà ben altra impresa. Ma al momento c’è solo un terreno vuoto e un movimento antirazzista che non ha intenzione di cedere, né di indietreggiare, che non vuole trattare, ascoltare, né discutere, ma che al contrario è intenzionato a lottare perché la nostra Palermo non porti sul suo corpo i segni della deriva securitaria in atto. Ci piace pensare di vivere davvero in un porto aperto, accogliente, cosmopolita da condividere e salvaguardare. Per questo chiediamo a tutte e tutti, singoli/e, realtà politiche e sindacali, associazioni, candidati e candidate e persino all’Amministrazione Comunale di aiutarci ad impedire in ogni modo qualsiasi progetto di costruzione. Senza frontiere, per la libera circolazione di tutti e tutte.
Palermo, 27/03/17
Primi/e firmatari/e
A-dif, Arci Palermo, Assemblea Montevergini, Borderline Sicilia, Centro Salesiano Santa Chiara, CISS, Cobas Antirazzista Palermo, Democrazia e Lavoro CGIL, Forum Antirazzista Palermo, Isati Junco#PoterePopolare, Laici e laiche comboniani/e, Missionari comboniani Palermo, Osservatorio Noureddine Adnane, Palermosenzafrontiere, Mariarosa Ragonese, Tania Macaluso, Silvia Timoneri
Il 18 gennaio, il Giornale di Sicilia ci ha fatto credere che Palermo, città accogliente, avesse rifiutato di aprire un hotspot su ordine di Roma. Eppure, lentamente, l’idea ha preso piede.
E nonostante la natura fortemente retorica delle dichiarazioni, l’uso di belle parole come “accoglienza” e “ospitalità”, nonostante i toni rassicuranti di un comunicato che parla di “hotspot leggero” e nonostante il tentativo, ben congegnato alla vigilia della Giornata in memoria delle vittime della mafia, di sottolineare la natura di bene confiscato del terreno in questione, come a contrapporre la dimensione dell’accoglienza alle logiche mafiose, la notizia ha avuto un forte impatto. Le condizioni di vita dei migranti negli hotspot già esistenti a Lampedusa, Pozzallo e Trapani sono note e ampiamente documentate, così questo annuncio ha creato non pochi problemi all'amministrazione in carica alla vigilia delle elezioni, specie se si pensa che Palermo è stata appena nominata “capitale della cultura 2018” proprio come “città dell'accoglienza” e inaugurerebbe il suo neoconquistato titolo con i segni tangibili di una chiara svolta securitaria nel suo territorio. Nel tentativo di correre ai ripari, l’Amministrazione ha subito chiarito che non di vero e proprio hotspot si parla, ma soltanto di una struttura di supporto alle operazioni di prima identificazione dei migranti appena arrivati, che il progetto non rientrerebbe nel sopracitato piano del Ministero dell’Interno, ma servirebbe soltanto ai migranti per evitare che le operazioni di prima accoglienza si svolgano unicamente in banchina, al porto, con tempi lunghissimi e in condizioni logistiche che rischiano di essere non rispettose della dignità. Il Comunicato ufficiale del Comune ribadisce di aver sempre rigettato la prassi e la logica degli hotspot, che non riconosce come modello di accoglienza perché producono degenerazioni ben note, come privazione delle libertà individuali e mortificazione delle persone. Fa eco, sulla stessa linea d’onda, la neo prefetta di Palermo Antonella De Miro, che si affretta a spiegare che non di una vera struttura si tratterà ma di prefabbricati, a disposizione del sistema di prima accoglienza soltanto per garantire la rapidità delle procedure di identificazione e la partenza per le altre destinazioni, come si fa adesso in questura.
Queste dichiarazioni, però, non ci convincono, specie nell’epoca Minniti. In primo luogo, come si legge chiaramente nelle “Procedure Operative Standard (SOP)” (facilmente reperibili in rete) redatte dal Ministero dell’Interno su indicazione della Commissione Europea e di altre realtà come Europol e Frontex, rese note lo scorso giugno, “hotspot” è, di per sé, un modello organizzativo leggero, pensato per la gestione di grandi arrivi che può essere stabilito in qualsiasi area territoriale. In realtà, come si legge, l’hotspot non è un “luogo”, ma un metodo di lavoro, con cui le Forze di Polizia, il personale sanitario e le organizzazioni internazionali e non governative devono gestire i migranti in ingresso. Tutte le strutture già esistenti sono già state allestite per “accogliere” i migranti e fornire le operazioni di prima assistenza, l’identificazione e la somministrazione delle informazioni necessarie alla richiesta della protezione internazionale, in attesa che vengano inseriti nel piano di relocation in Europa. Ora, come già previsto dal protocollo, la procedura di ricollocazione ha tempi molto variabili e dovrebbe essere completata entro due mesi, ma non occorre essere dei fini analisti per comprendere come i tempi in realtà siano ben diversi. Anche per fronteggiare l’emergenza sbarchi, questa struttura non avrebbe ragion d’essere. Ammesso che di emergenza si parli (dal momento che ogni arrivo è largamente previsto, per cui basterebbero semplici operazioni come implementare il personale disponibile in questura e organizzare in modo più opportuno la permanenza in banchina), anche in questo senso una struttura capace di ospitare 150 persone non risolverebbe il problema posto dagli sbarchi che sono stati molto numerosi e non così tanto frequenti da giustificare l’apertura di un (non-)luogo specifico.
Il punto, dunque, è ben diverso, non riguarda la natura dell’edificio in sé, ma la sua natura giuridica: si tratterebbe di un spazio di fatto escluso da ogni controllo giurisdizionale e legale, dove né gli avvocati né le associazioni potrebbero accedere. Infatti, “hotspot” ancora non indica un luogo con un preciso status legale, ma denomina un “approccio”, tanto minaccioso quanto vago, che la Commissione Europea ha annunciato a maggio 2015. Sulla base di questa logica impartita dall'alto, un luogo designato deve essere reso conforme a questo modello (non il contrario) in base alle norme italiane. Come ampiamente documentato, negli hotspot di Lampedusa e Pozzallo, le organizzazioni non governative hanno più volte denunciato le gravissime condizioni in cui vivono i migranti, la lunghezza dei tempi di attesa, la prolungata presenza di minori non accompagnati. Si tratta di luoghi in cui non sono affatto garantiti i diritti di informazione individuale, si tratta di luoghi in cui si travalicano norme e regole, in nome della retorica dell’emergenza e della sicurezza, luoghi dove si registra il più alto numero di respingimenti, per lo più formulati in base alla folle distinzione tra “migranti economici” e “richiedenti asilo”, formulata nel corso di una prima e quasi sempre errata prima identificazione.
Del resto, come ben chiarito nei protocolli, in alcuni casi tali respingimenti negli hotspot potranno essere eseguiti, ove ne ricorrano le condizioni, immediatamente oppure mediante il trasferimento in un CIE, perché in questi luoghi di fatto sono le forze di polizia che distinguono tra richiedenti asilo (soggetti inespellibili) e migranti economici irregolari, senza però avere né le competenze né l’autorità per farlo.
La memoria del movimento antirazzista è piuttosto lunga; questo non sarebbe di certo il primo esempio di struttura leggera capace di essere presto trasformata in lager. Era il 30 marzo del 2011 quando a Trapani, in contrada Chinisia, veniva annunciata l’installazione di un'altra struttura leggera, una tendopoli capace di ospitare circa 500 persone, per accogliere i migranti solo “temporaneamente”, in attesa di ricollocazione. Le tende sono poi state circondate da una spessa rete alta 3m, il luogo presidiato costantemente da un cospicuo contingente di Forze dell’ordine, i migranti “ospitati” sono diventati mille, la sosta durava diversi mesi e le organizzazioni umanitarie avevano grande difficoltà ad entrare per effettuare il monitoraggio. Proprio il modello Chinisia dimostra, ancora una volta, che il problema non è la struttura, ma l’intento politico che la determina. Una volta edificata, di qualsiasi struttura si tratti, dipenderà dal Ministero degli Interni deciderne l’utilizzo, confrontandosi tutt’al più con l’Amministrazione Comunale al momento in carica.
Su queste dinamiche, questi equilibri e queste relazioni siamo ben consapevoli che avremo davvero poche certezze e poco potere. Ma di una cosa siamo abbastanza sicuri. Abbiamo letto con attenzione i decreti Minniti, conosciamo gli schemi di accelerazione delle procedure di identificazione dei cittadini non comunitari e di contrasto all’immigrazione clandestina. Abbiamo letto chiaramente in quel decreto l’intento di assicurare l’effettività dell’esecuzione dei provvedimenti di espulsione e allontanamento dei cittadini stranieri irregolari mediante l’istituzione di sezioni speciali in alcuni tribunali tra cui Palermo. Abbiamo letto di come cambieranno le modalità di richiesta, di come avverrà il nuovo colloquio videoregistrato, di come l’interprete sarà tenuto a verificare la correttezza della trascrizione dopo la conclusione del colloquio e di come per accelerare le procedure di asilo si elimini un grado di appello in caso di respingimento. Abbiamo letto anche di come ai questori e ai sindaci sia riconosciuto il potere di allontanare per sei mesi chiunque venga considerato “indecoroso” – neppure necessariamente indagato – mediante un “mini Daspo urbano”.
E quindi, scusate se non ci fidiamo del bravo Ministro, del buon Sindaco e della zelante Prefetta.
Perché avevano ragione gli eritrei che nel 2015 a Lampedusa protestarono con uno sciopero della fame, quando il centro di prima accoglienza divenne un hotspot e i nuovi arrivati furono costretti, con la violenza, a lasciare le loro impronte digitali. Avevano ragione anche gli uomini fuggiti da Milo nel 2016, sotto gli occhi delle guardie armate. Come hanno ragione i presunti “scafisti”che, costretti con una pistola alla testa a guidare un gommone strapieno di persone, rivendicano la propria innocenza quando vengono arrestati non appena sbarcati sulle coste siciliane. Gli stessi migranti, le cavie destinate di questo processo, usati sin da subito come laboratorio umano su cui testare queste pratiche sistematiche di annientamento delle libertà personali, hanno dimostrato concretamente in questi anni cosa voglia dire Resistere. E il processo e le lotte continuano.
In questo clima politico ogni terreno può essere murato, ogni tenda imprigionata tra spesse reti, ogni edificio circondato da sbarre: ogni donna e ogni uomo possono essere reclusi. Poi abbattere quei muri, tagliare quelle reti e quelle sbarre sarà ben altra impresa. Ma al momento c’è solo un terreno vuoto e un movimento antirazzista che non ha intenzione di cedere, né di indietreggiare, che non vuole trattare, ascoltare, né discutere, ma che al contrario è intenzionato a lottare perché la nostra Palermo non porti sul suo corpo i segni della deriva securitaria in atto. Ci piace pensare di vivere davvero in un porto aperto, accogliente, cosmopolita da condividere e salvaguardare. Per questo chiediamo a tutte e tutti, singoli/e, realtà politiche e sindacali, associazioni, candidati e candidate e persino all’Amministrazione Comunale di aiutarci ad impedire in ogni modo qualsiasi progetto di costruzione. Senza frontiere, per la libera circolazione di tutti e tutte.
Palermo, 27/03/17
Primi/e firmatari/e
A-dif, Arci Palermo, Assemblea Montevergini, Borderline Sicilia, Centro Salesiano Santa Chiara, CISS, Cobas Antirazzista Palermo, Democrazia e Lavoro CGIL, Forum Antirazzista Palermo, Isati Junco#PoterePopolare, Laici e laiche comboniani/e, Missionari comboniani Palermo, Osservatorio Noureddine Adnane, Palermosenzafrontiere, Mariarosa Ragonese, Tania Macaluso, Silvia Timoneri
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