
GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
Tra Steiner e Dolci
di Giovanni Di Benedetto 13 maggio 2016
Tra Steiner e Dolci
di Giovanni Di Benedetto 13 maggio 2016
Lo scorso 22 aprile si è tenuto presso la scuola Waldorf di Palermo, in via Parlatore, l’ultimo incontro del ciclo Formazione di Comunità, organizzato dal Centro Sviluppo Creativo Danilo Dolci e dalla Libera Scuola Waldorf di Palermo. Si è trattato di una serie di incontri seminariali che, a partire da Gennaio, si sono prefissati l’obiettivo di analizzare l’opera teorica e pratica di Danilo Dolci e di Rudolf Steiner, con lo scopo di immaginare possibili sviluppi per la definizione di pratiche comunitarie e di condivisione.
Il pregio dell’iniziativa è stato quello di mettere a confronto l’opera e la teoria di due figure centrali del panorama culturale, e non solo, del secolo scorso: Rudolf Steiner e Danilo Dolci. Al di là delle differenze di percorso intellettuale e di esperienza biografica, oltre che di contestualizzazione storica (il primo nasce nel 1861 quando ancora giganteggiava l’impero Austro-Ungarico, il secondo opera in Sicilia, a Partinico, fin dal secondo dopoguerra), è stato possibile esaminare le sorprendenti analogie che, dal punto di vista teorico, ma con immediate ricadute pratiche, animano la ricerca dei due. Il presupposto operativo che ha animato la ricerca e la riflessione dei partecipanti agli interessantissimi momenti di ricerca condivisa è relativo al fatto che la formazione pedagogica e educativa del singolo si intreccia inestricabilmente con la costruzione di un’idea cittadinanza attiva e partecipe che esige la definizione di soggetti liberi e autonomi.
Sotto questo rispetto, significativa appare la tematica di partenza; non a caso essa è, infatti, per entrambi, quella della maieutica che, a partire dall’insegnamento socratico, viene declinata, formulando straordinarie affinità, sul terreno della ricerca e dell’esperienza pedagogica. Esiste tutta una corrente sotterranea che, nella tradizione occidentale, si oppone alla affermazione di modelli di costruzione del sapere centrati sull’egemonia dell’intellettualismo fine a se stesso, dell’unidirezionalità cattedratica, del nozionismo mnemonico e dell’acritica erudizione. Si può, per esempio, citare Steiner che ne L’educazione dei figli scrive della necessità di guidare il fanciullo (ma noi potremmo anche dire gli studenti e le studentesse) ad adoperare il proprio intelletto: “Non dobbiamo imporgli l’intelletto, ma dobbiamo condurlo in lui” (L’educazione dei figli, Mondadori, Milano, 2007, p. 71).
Questa tradizione alternativa, se non antagonistica, parte dal presupposto che il discente non sia un oggetto passivo a cui somministrare pillole di conoscenza ma un soggetto attivo col quale dialogare e che deve essere messo nella condizione di esprimere da se stesso i propri talenti realizzandone tutte le potenzialità: “La cosa più grande che si può preparare nell’uomo in divenire, nel bambino, è che egli, nel momento giusto della sua vita, arrivi all’esperienza della libertà mediante la comprensione di se stesso. La vera libertà è un’esperienza interiore, e la vera libertà può venir sviluppata in un uomo soltanto se, come maestri ed educatori, si volge in tal modo lo sguardo verso l’uomo. Allora ci si dice: io non posso dare la libertà all’uomo, egli deve sperimentarla in se stesso. Avrò allora raggiunto questo di bello: avrò educato nell’uomo ciò che era da educare, e avrò lasciato intatto, in trepido rispetto dell’essenza divina in ogni singolo individuo, ciò che più tardi deve arrivare da solo alla comprensione di se stesso. Io attendo, mentre educo nell’uomo tutto quello che è proprio suo, fino a quando quello che è proprio suo afferrerà ciò che io ho educato in lui. Così io non mi intrometto brutalmente nello sviluppo proprio dell’uomo, ma preparo il terreno al suo sviluppo individuale” (Metodica di insegnamento ed esigenze dell’educazione, Stoccarda 8-11 Aprile 1924, Quarta Conferenza, Editrice Antroposofica, Milano, 2012, pp. 115-116).
Analoghe considerazioni si possono agevolmente rintracciare nell’impegno instancabile e indomito di Danilo Dolci che, agli inizi degli anni ’70, in un saggio pubblicato dalla casa editrice Einaudi, dal titolo estremamente significativo, Chissà se i pesci piangono (1972), si misurava concretamente con la necessità di elaborare un’esperienza educativa che fosse in grado di fare i conti con il tema della sincera conoscenza reciproca tra educatore e studente, nel tentativo di superare ogni possibile deriva autoritaria insita nel rapporto pedagogico. Da questa prospettiva la maieutica si rivelava non già l’espediente tecnico per sensibilizzare e attivare l’attenzione affinché l’adulto possa poi appioppare la sua lezione con successo (265), quanto il processo dialettico in grado di suscitare negli altri capacità di scelta e assunzione di responsabilità (254). Se questo è vero, se ne deduce che “un vero educatore non può che accettare di essere cooperatore dello sviluppo psicofisico dell’alunno, diventando egli stesso alunno per apprendere quanto non sa e per dare in forma più perfetta quanto egli stesso ha provato. Viene a stabilirsi un rapporto veramente democratico di accettazione che è il fondamento stesso della concrescita” (258).
È evidente che l’arte maieutica chiama in causa infinite connessioni, problematizzazioni, considerazioni. Se ne possono citare alcune, come quella del rapporto, nell’educazione, tra teoria e pratica. Avanziamo un paio di ulteriori citazioni: “durante il cosiddetto insegnamento di lavoro manuale, si possono vedere ragazzi e ragazze seduti gli uni accanto agli altri a lavorare con i ferri o con l’uncinetto. (…) Facciamo praticare ai ragazzi queste diverse arti, non tanto per insegnarle, ma soprattutto perché sorga comprensione in tutte le direzioni. Uno dei danni principali delle nostre condizioni sociali attuali è infatti che ognuno comprenda molto poco di quello che fanno gli altri. Dobbiamo veramente arrivare non a stare come singoli o come gruppi separati, ma a essere gli uni di fronte agli altri con piena comprensione. È poi fondamentale che l’esecuzione di lavori manuali renda i giovani abili nelle più diverse direzioni. Sembrerà forse un’affermazione un po’ paradossale, ma sono convinto che nessuno, che non sia in condizione, se è necessario, di rattopparsi le calze o di rammendarsi i vestiti, possa essere un bravo filosofo” (L’educazione dei figli, pp.139-140). Ed ecco Danilo Dolci che, contro il vacuo intellettualismo fine a se stesso, scrive del bisogno di imparare a usare orecchie, occhi, mani, bocca: “ci si educa a diverse forme di scoperta e di espressione mirando ad uno sviluppo organico. Un gruppo (di studenti e studentesse ndr.) apprende di un soggetto (…) parlandone e scrivendone, analizzando, fotografando, disegnando, plasmando, praticando, meditando: cioè vivendolo nel modo più opportuno. Tende alla verifica delle diverse forme di apprendimento verso un apprendimento unitario” (252).
Sarebbe possibile continuare questa operazione di confronto suscitatrice di spunti, idee, similitudini, ancora per pagine e pagine, sottolineando la particolare attenzione per l’elemento artistico, la necessità di favorire la sana e armoniosa crescita dell’essere umano, l’attenzione per i talenti e le potenzialità di ogni singolo, la consapevolezza che occorre avvicinare l’essere, del bambino prima e del giovane poi, all’interesse e all’amore per il mondo imparando dalla vita, il bisogno, infine, di valorizzare la libertà di giudizio del singolo rendendolo responsabile nei confronti del contesto sociale nel quale vive.
Da quanto si è detto emerge la considerazione del fatto che proprio un’educazione cattiva e inadeguata, come quella che purtroppo tanto spesso ci troviamo a incontrare come genitori, operatori e educatori, non può essere la chiave adeguata per affrontare molti dei problemi nei quali la nostra società è precipitata. Una consapevolezza di questo genere era fortissima in Steiner e in Dolci che non a caso scrivono della tragica connessione che lega la crisi di civiltà attuale e la corruttela veicolata da un’insana pedagogia: il fondatore della scuola Waldorf scrive che “se oggi l’insegnamento lascia tanto a desiderare, è appunto perché in fondo la civiltà odierna sviluppa di per sé negli adulti troppo poco senso artistico. Una sana pedagogia non può emanare da una singola arte, ma dal complessivo atteggiamento artistico della civiltà” (L’educazione dei figli, 71). Anche Danilo Dolci ne La struttura maieutica e l’evolverci (La Nuova Italia 1996) si affrettava a riconoscere, poco prima di morire, che “il culto del dominio si insinua in questa problematica che ha immense implicazioni nella salute psicofisica individuale e sociale, del mondo. (…) Nessuna società ha mai subìto una così tragica frequenza di bambini e giovani suicidi come la moderna. Il sistema scolare trasmissivo non produce, né può produrre mai, sociali innovazioni. Consolida la realtà esistente. Non solo, ma produce fascismi, nazismi, machiavellici sistemi mafioso-clientelari a livello statale: non prodotti dalla gente semplice ma subìti, quando è incapace di organizzarsi” (249).
La pratica dell’educare è oggi quanto di più complesso e difficile possa esserci: aumentano i rischi di insuccesso e di tragico fallimento. Tuttavia, proprio questa lucida visione delle immani difficoltà nelle quali si trovano i soggetti del cambiamento deve fare crescere la consapevolezza che, con un impegno che va alimentato in tutte le direzioni, da quella della comprensione razionale e intellettuale a quella della dimensione affettiva e emotiva, si possono far conseguire nei giovani e nelle giovani capacità, attitudini e qualità morali in grado di sviluppare personalità, forti del necessario spirito critico, pronte a distinguersi nella società. Non tanto per soddisfare i propri desideri narcisistici, egoistici e esibizionistici, come va tanto di moda oggigiorno, quanto per contribuire al bene comune, mettendo al servizio degli altri quanto si è conseguito. Del resto, non è proprio questa l’essenza del fare comunità?
Il pregio dell’iniziativa è stato quello di mettere a confronto l’opera e la teoria di due figure centrali del panorama culturale, e non solo, del secolo scorso: Rudolf Steiner e Danilo Dolci. Al di là delle differenze di percorso intellettuale e di esperienza biografica, oltre che di contestualizzazione storica (il primo nasce nel 1861 quando ancora giganteggiava l’impero Austro-Ungarico, il secondo opera in Sicilia, a Partinico, fin dal secondo dopoguerra), è stato possibile esaminare le sorprendenti analogie che, dal punto di vista teorico, ma con immediate ricadute pratiche, animano la ricerca dei due. Il presupposto operativo che ha animato la ricerca e la riflessione dei partecipanti agli interessantissimi momenti di ricerca condivisa è relativo al fatto che la formazione pedagogica e educativa del singolo si intreccia inestricabilmente con la costruzione di un’idea cittadinanza attiva e partecipe che esige la definizione di soggetti liberi e autonomi.
Sotto questo rispetto, significativa appare la tematica di partenza; non a caso essa è, infatti, per entrambi, quella della maieutica che, a partire dall’insegnamento socratico, viene declinata, formulando straordinarie affinità, sul terreno della ricerca e dell’esperienza pedagogica. Esiste tutta una corrente sotterranea che, nella tradizione occidentale, si oppone alla affermazione di modelli di costruzione del sapere centrati sull’egemonia dell’intellettualismo fine a se stesso, dell’unidirezionalità cattedratica, del nozionismo mnemonico e dell’acritica erudizione. Si può, per esempio, citare Steiner che ne L’educazione dei figli scrive della necessità di guidare il fanciullo (ma noi potremmo anche dire gli studenti e le studentesse) ad adoperare il proprio intelletto: “Non dobbiamo imporgli l’intelletto, ma dobbiamo condurlo in lui” (L’educazione dei figli, Mondadori, Milano, 2007, p. 71).
Questa tradizione alternativa, se non antagonistica, parte dal presupposto che il discente non sia un oggetto passivo a cui somministrare pillole di conoscenza ma un soggetto attivo col quale dialogare e che deve essere messo nella condizione di esprimere da se stesso i propri talenti realizzandone tutte le potenzialità: “La cosa più grande che si può preparare nell’uomo in divenire, nel bambino, è che egli, nel momento giusto della sua vita, arrivi all’esperienza della libertà mediante la comprensione di se stesso. La vera libertà è un’esperienza interiore, e la vera libertà può venir sviluppata in un uomo soltanto se, come maestri ed educatori, si volge in tal modo lo sguardo verso l’uomo. Allora ci si dice: io non posso dare la libertà all’uomo, egli deve sperimentarla in se stesso. Avrò allora raggiunto questo di bello: avrò educato nell’uomo ciò che era da educare, e avrò lasciato intatto, in trepido rispetto dell’essenza divina in ogni singolo individuo, ciò che più tardi deve arrivare da solo alla comprensione di se stesso. Io attendo, mentre educo nell’uomo tutto quello che è proprio suo, fino a quando quello che è proprio suo afferrerà ciò che io ho educato in lui. Così io non mi intrometto brutalmente nello sviluppo proprio dell’uomo, ma preparo il terreno al suo sviluppo individuale” (Metodica di insegnamento ed esigenze dell’educazione, Stoccarda 8-11 Aprile 1924, Quarta Conferenza, Editrice Antroposofica, Milano, 2012, pp. 115-116).
Analoghe considerazioni si possono agevolmente rintracciare nell’impegno instancabile e indomito di Danilo Dolci che, agli inizi degli anni ’70, in un saggio pubblicato dalla casa editrice Einaudi, dal titolo estremamente significativo, Chissà se i pesci piangono (1972), si misurava concretamente con la necessità di elaborare un’esperienza educativa che fosse in grado di fare i conti con il tema della sincera conoscenza reciproca tra educatore e studente, nel tentativo di superare ogni possibile deriva autoritaria insita nel rapporto pedagogico. Da questa prospettiva la maieutica si rivelava non già l’espediente tecnico per sensibilizzare e attivare l’attenzione affinché l’adulto possa poi appioppare la sua lezione con successo (265), quanto il processo dialettico in grado di suscitare negli altri capacità di scelta e assunzione di responsabilità (254). Se questo è vero, se ne deduce che “un vero educatore non può che accettare di essere cooperatore dello sviluppo psicofisico dell’alunno, diventando egli stesso alunno per apprendere quanto non sa e per dare in forma più perfetta quanto egli stesso ha provato. Viene a stabilirsi un rapporto veramente democratico di accettazione che è il fondamento stesso della concrescita” (258).
È evidente che l’arte maieutica chiama in causa infinite connessioni, problematizzazioni, considerazioni. Se ne possono citare alcune, come quella del rapporto, nell’educazione, tra teoria e pratica. Avanziamo un paio di ulteriori citazioni: “durante il cosiddetto insegnamento di lavoro manuale, si possono vedere ragazzi e ragazze seduti gli uni accanto agli altri a lavorare con i ferri o con l’uncinetto. (…) Facciamo praticare ai ragazzi queste diverse arti, non tanto per insegnarle, ma soprattutto perché sorga comprensione in tutte le direzioni. Uno dei danni principali delle nostre condizioni sociali attuali è infatti che ognuno comprenda molto poco di quello che fanno gli altri. Dobbiamo veramente arrivare non a stare come singoli o come gruppi separati, ma a essere gli uni di fronte agli altri con piena comprensione. È poi fondamentale che l’esecuzione di lavori manuali renda i giovani abili nelle più diverse direzioni. Sembrerà forse un’affermazione un po’ paradossale, ma sono convinto che nessuno, che non sia in condizione, se è necessario, di rattopparsi le calze o di rammendarsi i vestiti, possa essere un bravo filosofo” (L’educazione dei figli, pp.139-140). Ed ecco Danilo Dolci che, contro il vacuo intellettualismo fine a se stesso, scrive del bisogno di imparare a usare orecchie, occhi, mani, bocca: “ci si educa a diverse forme di scoperta e di espressione mirando ad uno sviluppo organico. Un gruppo (di studenti e studentesse ndr.) apprende di un soggetto (…) parlandone e scrivendone, analizzando, fotografando, disegnando, plasmando, praticando, meditando: cioè vivendolo nel modo più opportuno. Tende alla verifica delle diverse forme di apprendimento verso un apprendimento unitario” (252).
Sarebbe possibile continuare questa operazione di confronto suscitatrice di spunti, idee, similitudini, ancora per pagine e pagine, sottolineando la particolare attenzione per l’elemento artistico, la necessità di favorire la sana e armoniosa crescita dell’essere umano, l’attenzione per i talenti e le potenzialità di ogni singolo, la consapevolezza che occorre avvicinare l’essere, del bambino prima e del giovane poi, all’interesse e all’amore per il mondo imparando dalla vita, il bisogno, infine, di valorizzare la libertà di giudizio del singolo rendendolo responsabile nei confronti del contesto sociale nel quale vive.
Da quanto si è detto emerge la considerazione del fatto che proprio un’educazione cattiva e inadeguata, come quella che purtroppo tanto spesso ci troviamo a incontrare come genitori, operatori e educatori, non può essere la chiave adeguata per affrontare molti dei problemi nei quali la nostra società è precipitata. Una consapevolezza di questo genere era fortissima in Steiner e in Dolci che non a caso scrivono della tragica connessione che lega la crisi di civiltà attuale e la corruttela veicolata da un’insana pedagogia: il fondatore della scuola Waldorf scrive che “se oggi l’insegnamento lascia tanto a desiderare, è appunto perché in fondo la civiltà odierna sviluppa di per sé negli adulti troppo poco senso artistico. Una sana pedagogia non può emanare da una singola arte, ma dal complessivo atteggiamento artistico della civiltà” (L’educazione dei figli, 71). Anche Danilo Dolci ne La struttura maieutica e l’evolverci (La Nuova Italia 1996) si affrettava a riconoscere, poco prima di morire, che “il culto del dominio si insinua in questa problematica che ha immense implicazioni nella salute psicofisica individuale e sociale, del mondo. (…) Nessuna società ha mai subìto una così tragica frequenza di bambini e giovani suicidi come la moderna. Il sistema scolare trasmissivo non produce, né può produrre mai, sociali innovazioni. Consolida la realtà esistente. Non solo, ma produce fascismi, nazismi, machiavellici sistemi mafioso-clientelari a livello statale: non prodotti dalla gente semplice ma subìti, quando è incapace di organizzarsi” (249).
La pratica dell’educare è oggi quanto di più complesso e difficile possa esserci: aumentano i rischi di insuccesso e di tragico fallimento. Tuttavia, proprio questa lucida visione delle immani difficoltà nelle quali si trovano i soggetti del cambiamento deve fare crescere la consapevolezza che, con un impegno che va alimentato in tutte le direzioni, da quella della comprensione razionale e intellettuale a quella della dimensione affettiva e emotiva, si possono far conseguire nei giovani e nelle giovani capacità, attitudini e qualità morali in grado di sviluppare personalità, forti del necessario spirito critico, pronte a distinguersi nella società. Non tanto per soddisfare i propri desideri narcisistici, egoistici e esibizionistici, come va tanto di moda oggigiorno, quanto per contribuire al bene comune, mettendo al servizio degli altri quanto si è conseguito. Del resto, non è proprio questa l’essenza del fare comunità?
Commento lasciato da Danila Curto il 26 maggio 2016
É stato molto interessante leggere questo articolo grazie! Ha fatto riaffiorare in me il ricordo dei primi anni di liceo durante i quali partecipai ad un workshop con Danilo dolci ... Ero ancora molto piccola per approfondire ciò che lui ci raccontava,ma una parte di me ha custodito quest'esperienza unica in silenzioe in tale silenzio a lavorato contribuendo sicuramente a quello che ora sono. Una frase che diceva molto spesso dopo averci ascoltato era "se questa non è poesia.... Ditemi voi cosa é poesia" . Questo intimo rispetto e ascolto attento verso l'altro, il costante meravigliarsi del contributo che ognuno di noi donava per il miglioramento e l'approfondimento dell'argomento che si stava affrontando lo porto nel cuore da allora. E adesso per una "pura coincidenza" i miei 3figli frequentano la scuola Waldorf!!! Grazie di cuore!
É stato molto interessante leggere questo articolo grazie! Ha fatto riaffiorare in me il ricordo dei primi anni di liceo durante i quali partecipai ad un workshop con Danilo dolci ... Ero ancora molto piccola per approfondire ciò che lui ci raccontava,ma una parte di me ha custodito quest'esperienza unica in silenzioe in tale silenzio a lavorato contribuendo sicuramente a quello che ora sono. Una frase che diceva molto spesso dopo averci ascoltato era "se questa non è poesia.... Ditemi voi cosa é poesia" . Questo intimo rispetto e ascolto attento verso l'altro, il costante meravigliarsi del contributo che ognuno di noi donava per il miglioramento e l'approfondimento dell'argomento che si stava affrontando lo porto nel cuore da allora. E adesso per una "pura coincidenza" i miei 3figli frequentano la scuola Waldorf!!! Grazie di cuore!
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