
FOLLI E TESTARDI
Lotta di classe in casa Marcegaglia
di Mario Berardi 10 dicembre 2015
Lotta di classe in casa Marcegaglia
di Mario Berardi 10 dicembre 2015
In questi mesi due operai cassintegrati del gruppo industriale Marcegaglia: Massimiliano Murgo e Gianni Romeo, “folli e testardi” - come essi stessi si definiscono – vanno in giro per l'Italia per raccontare la loro esperienza di lotta contro una tra le più potenti famiglie del capitalismo nostrano, i Marcegaglia appunto, che, grazie a una collaudata strategia politica basata sulla “collaborazione” e sul “dialogo” con tutti i soggetti istituzionali utili, a prescindere dal colore politico, non solo sono riusciti a diventare il primo gruppo europeo nella produzione “a freddo” di materiale ferroso per l'edilizia e l'industria, ma si sono anche presentati come affidabili agli occhi dei dirigenti politici e sindacali di sinistra (o presunta tale). Quindi, prima della vertenza aperta dopo la decisione di trasferire l'intera produzione dell'area milanese in un unico stabilimento nell'Alessandrino, i Marcegaglia erano sempre riusciti a neutralizzare il conflitto e ad indossare i panni del padrone “buono” e disponibile al confronto, in primis con i delegati sindacali.
Ecco come lo stesso Massimiliano Murgo sintetizza questa vicenda:
Un breve sunto della storia. La vertenza in fabbrica è cominciata un anno fa. L’azienda della famiglia Marcegaglia ha deciso di ridimensionare radicalmente la sua “Bad Company”, il ramo Buildtech che si occupa di produzione di pannelli sandwich e profilati e tubi a freddo per l’edilizia industriale. L’obiettivo era di ridurre i 4 stabilimenti a uno solo, insediato nel piccolo paese piemontese di Pozzolo Formigaro. Viene praticamente chiuso per primo lo stabilimento di Graffignana (LO), poi tocca allo stabilimento di Taranto chiuso con un accordo e, infine, l’anno scorso, grazie ad un accordo separato firmato da FIM e UILM dopo due mesi di lotta di una parte dei lavoratori dello stabilimento (col sostegno invece della FIOM), Marcegaglia ha avviato lo smantellamento della fabbrica milanese per trasferire parte degli impianti produttivi proprio a Pozzolo Formigaro. 83 dei 167 lavoratori in forza a Milano hanno alla fine accettato la messa in mobilità e il licenziamento definitivo dietro un miserabile “incentivo” di 30.000 euro. Altri 60 hanno accettato la “deportazione” col trasferimento con navetta aziendale a Pozzolo Formigaro (un’ora e mezzo di autobus a tratta). 20 impiegati sono stati trasferiti in un altro ufficio di Milano. Di 167 operai soltanto 7 (fra cui chi scrive), consapevoli delle difficoltà conseguenti, hanno deciso di far valere una parte dell’accordo – inserita probabilmente per imbellettarlo – che prevedeva la possibilità di essere ricollocati in uno dei 4 stabilimenti del gruppo limitrofi alla città di Milano, previo accesso ad un ulteriore anno di cassa integrazione straordinaria.
Senonché la voce di questi sette operai risultava pericolosamente “dissonante” per i vertici aziendali che, peraltro, vedevano in loro quella resistenza al comando del capitale già ampiamente dimostrata nel corso dell'intera vicenda, durante la quale si erano distinti per la loro combattività sindacale e per la loro appartenenza alla FIOM, l'unico sindacato a non aver firmato l'accordo capestro. Di conseguenza, in barba alla possibilità prevista di optare per la terza ipotesi, veniva imposto un aut aut: o il trasferimento a Pozzolo Formigaro accollandosi le spese di trasporto o il licenziamento!
L'impresa Marcegaglia perdeva il suo candore. Appariva ora per quello che era: un'impresa capitalistica come le altre, in cui l'operaio è esclusivamente forza-lavoro funzionale al profitto, senza alcun diritto di replica in nome dei suoi bisogni come persona. L'idillio si era spezzato, dunque!
Di cedere al ricatto padronale non se ne parlava proprio! Innanzitutto come riuscire a vivere con un salario già basso decurtato delle spese di trasporto; e poi, può essere considerata vera vita quella fagocitata pressoché unicamente dal tempo di lavoro (con gli spostamenti connessi)?
A questo punto questa agguerrita e combattiva minoranza, non sentendosi né rappresentata né adeguatamente tutelata da sindacalisti compiacenti o, più esattamente, compartecipi dell'ideologia dominante secondo cui il punto di vista dell'impresa è l'unico ad avere diritto di cittadinanza (in nome di una sua presunta razionalità economica,visto che non è contemplato alcun sistema economico al di fuori di quello liberista), ha deciso di scendere sul terreno della lotta frontale, bloccando la produzione dello stabilimento milanese e assumendosi fino in fondo i rischi di un'azione bollata come “illegale”.
Sono stati così occupati i carri-ponte e si è presidiato il tetto dello stabilimento, sperando così di “bucare il video” per essere mediaticamente visibili, e così sperare in un appoggio potenzialmente più ampio. Nonostante le veline dell'informazione, fortemente condizionata dalla rete di relazioni su cui può contare il gruppo Marcegaglia, questa resistenza disperata, di fronte alla ventilata possibilità di gesti estremi, ha raggiunto i suoi obiettivi, evitando il licenziamento e ottenendo un anno di cassa integrazione straordinaria.
Al di là di quelli che potrebbero essere considerati unicamente come risultati temporanei, l'esito di questa lotta di fabbrica e le modalità stesse con cui essa è stata condotta, sono quanto mai rilevanti proprio perché ci indicano un modo di fare politica “altro” rispetto a quello fino ad oggi praticato dalle forze politiche che si considerano figlie del movimento operaio, dominato dalla ricerca, a volte esasperata, della mediazione istituzionale a tutti i livelli, investendo il momento elettorale in cui si “contano i voti” di una funzione quasi totalizzante e sacrificando ad esso un tipo di azione politica sicuramente più difficile da portare avanti in una società sempre più frammentata, ma certamente più utile per le classi popolari, ovvero esplicitare l'esistenza di uno iato crescente nella distribuzione della ricchezza rispetto alle classi “alte” che parte proprio dalla concezione capitalistica del lavoro e del modo di remunerarlo, da ribaltare attraverso la riproposizione della lotta di classe e la parallela costruzione di un progetto alternativo di società.
Il valore di questa “piccolagrande” vittoria è stato pienamente compreso dai sette operai che ne sono stati i protagonisti; all'inizio spinti alla loro protesta estrema da un misto di disperazione e di follia che essi stessi attribuiscono alla necessità di affermare quel valore supremo che è la dignità umana, stanchi di subire così come di “doversi leccare le ferite” per le continue sconfitte politiche e sindacali, ma successivamente consci che la loro lotta riusciva ad ottenere quei risultati che la cosiddetta “concertazione” non era riuscita a raggiungere. La lotta, dunque, come strumento politico necessario per trasmettere nuovamente fiducia al popolo lavoratore, spingendolo ad uscire da uno stato di passività e di rassegnazione per riproporsi come soggetto sociale e politico capace di superare la frammentazione, di ridefinire un'identità di classe e di rilanciare con forza l'iniziativa politica.
Così si esprime, in merito, Massimiliano Murgo:
Questa lotta, nel suo piccolo, incarna perfettamente lo scontro attuale fra capitale e lavoro. È, in piccoli numeri, la lotta contro la ristrutturazione, la speculazione, contro il Jobs Act di Renzi e, di fatto, rivendica dichiaratamente la redistribuzione del lavoro che c’è, per lavorare meno e tutti attraverso il ricollocamento degli operai negli altri stabilimenti del gruppo, limitrofi a Milano, nei quali il livello di intensità dello sfruttamento del lavoro è altissimo e ci sarebbe bisogno di altra manodopera. La lotta degli operai dimostra che con l’organizzazione, la determinazione, l’intelligenza di classe è possibile abbattere muri giganteschi, piegare la volontà di padroni forti e reazionari, riscrivere il nostro futuro. Dimostra che è necessario unificare le lotte e ricomporre la classe lavoratrice, perché attraverso l’unità e il rilancio del conflitto nei luoghi di lavoro e sul terreno sociale è possibile rimettere in discussione gli attuali rapporti di forza fra le classi.
Oltre a raccontare quest'esperienza e a sostenere la propria lotta, ancora in corso, dunque, gli operai della Marcegaglia stanno utilizzando i momenti di discussione che vengono organizzati con il contributo di circoli, di comitati, di collettivi e di associazioni, per provare a costruire una rete capace di informare sulle tante lotte in corso e di unificarle per connetterle a un progetto politico che rilanci innanzitutto l'obiettivo della diminuzione dell'orario di lavoro a parità di salario.
Si riparte da una piccola lotta perché possa diventare la madre di tutte le battaglie!
* Massimiliano Murgo è delegato FIOM e componente del CPN del partito della Rifondazione comunista; Gianni Romeo è delegato FIOM.
Ecco come lo stesso Massimiliano Murgo sintetizza questa vicenda:
Un breve sunto della storia. La vertenza in fabbrica è cominciata un anno fa. L’azienda della famiglia Marcegaglia ha deciso di ridimensionare radicalmente la sua “Bad Company”, il ramo Buildtech che si occupa di produzione di pannelli sandwich e profilati e tubi a freddo per l’edilizia industriale. L’obiettivo era di ridurre i 4 stabilimenti a uno solo, insediato nel piccolo paese piemontese di Pozzolo Formigaro. Viene praticamente chiuso per primo lo stabilimento di Graffignana (LO), poi tocca allo stabilimento di Taranto chiuso con un accordo e, infine, l’anno scorso, grazie ad un accordo separato firmato da FIM e UILM dopo due mesi di lotta di una parte dei lavoratori dello stabilimento (col sostegno invece della FIOM), Marcegaglia ha avviato lo smantellamento della fabbrica milanese per trasferire parte degli impianti produttivi proprio a Pozzolo Formigaro. 83 dei 167 lavoratori in forza a Milano hanno alla fine accettato la messa in mobilità e il licenziamento definitivo dietro un miserabile “incentivo” di 30.000 euro. Altri 60 hanno accettato la “deportazione” col trasferimento con navetta aziendale a Pozzolo Formigaro (un’ora e mezzo di autobus a tratta). 20 impiegati sono stati trasferiti in un altro ufficio di Milano. Di 167 operai soltanto 7 (fra cui chi scrive), consapevoli delle difficoltà conseguenti, hanno deciso di far valere una parte dell’accordo – inserita probabilmente per imbellettarlo – che prevedeva la possibilità di essere ricollocati in uno dei 4 stabilimenti del gruppo limitrofi alla città di Milano, previo accesso ad un ulteriore anno di cassa integrazione straordinaria.
Senonché la voce di questi sette operai risultava pericolosamente “dissonante” per i vertici aziendali che, peraltro, vedevano in loro quella resistenza al comando del capitale già ampiamente dimostrata nel corso dell'intera vicenda, durante la quale si erano distinti per la loro combattività sindacale e per la loro appartenenza alla FIOM, l'unico sindacato a non aver firmato l'accordo capestro. Di conseguenza, in barba alla possibilità prevista di optare per la terza ipotesi, veniva imposto un aut aut: o il trasferimento a Pozzolo Formigaro accollandosi le spese di trasporto o il licenziamento!
L'impresa Marcegaglia perdeva il suo candore. Appariva ora per quello che era: un'impresa capitalistica come le altre, in cui l'operaio è esclusivamente forza-lavoro funzionale al profitto, senza alcun diritto di replica in nome dei suoi bisogni come persona. L'idillio si era spezzato, dunque!
Di cedere al ricatto padronale non se ne parlava proprio! Innanzitutto come riuscire a vivere con un salario già basso decurtato delle spese di trasporto; e poi, può essere considerata vera vita quella fagocitata pressoché unicamente dal tempo di lavoro (con gli spostamenti connessi)?
A questo punto questa agguerrita e combattiva minoranza, non sentendosi né rappresentata né adeguatamente tutelata da sindacalisti compiacenti o, più esattamente, compartecipi dell'ideologia dominante secondo cui il punto di vista dell'impresa è l'unico ad avere diritto di cittadinanza (in nome di una sua presunta razionalità economica,visto che non è contemplato alcun sistema economico al di fuori di quello liberista), ha deciso di scendere sul terreno della lotta frontale, bloccando la produzione dello stabilimento milanese e assumendosi fino in fondo i rischi di un'azione bollata come “illegale”.
Sono stati così occupati i carri-ponte e si è presidiato il tetto dello stabilimento, sperando così di “bucare il video” per essere mediaticamente visibili, e così sperare in un appoggio potenzialmente più ampio. Nonostante le veline dell'informazione, fortemente condizionata dalla rete di relazioni su cui può contare il gruppo Marcegaglia, questa resistenza disperata, di fronte alla ventilata possibilità di gesti estremi, ha raggiunto i suoi obiettivi, evitando il licenziamento e ottenendo un anno di cassa integrazione straordinaria.
Al di là di quelli che potrebbero essere considerati unicamente come risultati temporanei, l'esito di questa lotta di fabbrica e le modalità stesse con cui essa è stata condotta, sono quanto mai rilevanti proprio perché ci indicano un modo di fare politica “altro” rispetto a quello fino ad oggi praticato dalle forze politiche che si considerano figlie del movimento operaio, dominato dalla ricerca, a volte esasperata, della mediazione istituzionale a tutti i livelli, investendo il momento elettorale in cui si “contano i voti” di una funzione quasi totalizzante e sacrificando ad esso un tipo di azione politica sicuramente più difficile da portare avanti in una società sempre più frammentata, ma certamente più utile per le classi popolari, ovvero esplicitare l'esistenza di uno iato crescente nella distribuzione della ricchezza rispetto alle classi “alte” che parte proprio dalla concezione capitalistica del lavoro e del modo di remunerarlo, da ribaltare attraverso la riproposizione della lotta di classe e la parallela costruzione di un progetto alternativo di società.
Il valore di questa “piccolagrande” vittoria è stato pienamente compreso dai sette operai che ne sono stati i protagonisti; all'inizio spinti alla loro protesta estrema da un misto di disperazione e di follia che essi stessi attribuiscono alla necessità di affermare quel valore supremo che è la dignità umana, stanchi di subire così come di “doversi leccare le ferite” per le continue sconfitte politiche e sindacali, ma successivamente consci che la loro lotta riusciva ad ottenere quei risultati che la cosiddetta “concertazione” non era riuscita a raggiungere. La lotta, dunque, come strumento politico necessario per trasmettere nuovamente fiducia al popolo lavoratore, spingendolo ad uscire da uno stato di passività e di rassegnazione per riproporsi come soggetto sociale e politico capace di superare la frammentazione, di ridefinire un'identità di classe e di rilanciare con forza l'iniziativa politica.
Così si esprime, in merito, Massimiliano Murgo:
Questa lotta, nel suo piccolo, incarna perfettamente lo scontro attuale fra capitale e lavoro. È, in piccoli numeri, la lotta contro la ristrutturazione, la speculazione, contro il Jobs Act di Renzi e, di fatto, rivendica dichiaratamente la redistribuzione del lavoro che c’è, per lavorare meno e tutti attraverso il ricollocamento degli operai negli altri stabilimenti del gruppo, limitrofi a Milano, nei quali il livello di intensità dello sfruttamento del lavoro è altissimo e ci sarebbe bisogno di altra manodopera. La lotta degli operai dimostra che con l’organizzazione, la determinazione, l’intelligenza di classe è possibile abbattere muri giganteschi, piegare la volontà di padroni forti e reazionari, riscrivere il nostro futuro. Dimostra che è necessario unificare le lotte e ricomporre la classe lavoratrice, perché attraverso l’unità e il rilancio del conflitto nei luoghi di lavoro e sul terreno sociale è possibile rimettere in discussione gli attuali rapporti di forza fra le classi.
Oltre a raccontare quest'esperienza e a sostenere la propria lotta, ancora in corso, dunque, gli operai della Marcegaglia stanno utilizzando i momenti di discussione che vengono organizzati con il contributo di circoli, di comitati, di collettivi e di associazioni, per provare a costruire una rete capace di informare sulle tante lotte in corso e di unificarle per connetterle a un progetto politico che rilanci innanzitutto l'obiettivo della diminuzione dell'orario di lavoro a parità di salario.
Si riparte da una piccola lotta perché possa diventare la madre di tutte le battaglie!
* Massimiliano Murgo è delegato FIOM e componente del CPN del partito della Rifondazione comunista; Gianni Romeo è delegato FIOM.
Lascia un commento