
[Abbiamo intervistato Francesco Saraceno* stimolati dalla lettura del suo ultimo lavoro: La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela (Luiss University Press, 2020) - qui la scheda del libro nel sito dell’editore.
Una delle tesi fondamentali del testo è che, riprendendo la teoria delle Aree Valutarie Ottimali dell’Economista Premio Nobel Robert Mundell[1], la zona Euro non possiede strumenti di politica economica a livello continentale tali da gestire shock asimmetrici. La zona rimane ingabbiata in uno schema di doppia velocità. Il problema ideologico di fondo è che gli aggiustamenti di questi shock asimmetrici debbano essere lasciati gestire direttamente dai mercati, trascurando invece la vulgata keynesiana che vorrebbe interventi più diretti di politica economica nel garantire stabilità e crescita. Tu proponi un cambiamento nel quadro di riferimento intellettuale. Come ritieni che possa avvenire un cambiamento di questo tipo?
Per parafrasare il Keynes della Teoria Generale, gli uomini politici sono sempre schiavi di qualche economista (lui aggiunge defunto, speriamo che non sia sempre così!). L'enfasi della costruzione europea sugli aggiustamenti di mercato non è un caso, ma è figlia del consenso degli anni Novanta che rigettava le politiche keynesiane. Oggi quel consenso è ridiscusso, e anche tra gli economisti detti mainstream sembra esserci più attenzione ai ruoli di politiche monetaria e di bilancio nel regolare l'economia. Se questo nuovo clima intellettuale si consolida, si porrà anche ai policy maker la questione del rivedere le istituzioni per la moneta unica e dell'introduzione di mezzi di "condivisione del rischio"
Per quanto attiene le istituzioni europee, suggerisci delle riforme per un ritorno del dibattito verso un federalismo più compiuto. In particolare proponi l’utilizzo di strumenti automatici di condivisione del rischio: capacità dei mercati di assorbire gli shock asimmetrici, magari aumentando la loro regolazione (un modello ordoliberale alla tedesca?). Infine la revisione delle regole di bilancio. Potresti spiegarci, anche sinteticamente e per chi non ha ancora letto il tuo libro, in cosa consistono questi tre pilastri?
L'enfasi sull'aggiustamento dei meccanismi di mercato riposa sull'idea che i mercati (fondamentalmente efficienti) possano da soli, con flessibilità e mobilità, assorbire ogni shock che colpisce l'economia. Abbiamo davanti agli occhi un esempio che mostra che questo non basta in nessun caso: anche in un paese come gli Stati Uniti, dove i mercati finanziari sono integrati, prezzi e salari flessibili e la mobilità del lavoro molto forte, il ruolo del governo federale nell'evitare la divergenza dei diversi stati è fondamentale. L'idea del federalismo surrogato è quella di replicare questi meccanismi in un sistema, come il nostro, in cui il federalismo non è (e non sarà ancora a lungo) all'ordine del giorno. Prendiamo il caso del sussidio di disoccupazione europeo, una sorta di assicurazione. Nei periodi di espansione e di bassa disoccupazione, i paesi contribuiscono ad un fondo, dal quale poi riprendono nel momento in cui le cose vanno male. Se il ciclo in due paesi non è sincronizzato, questo vorrà dire che in alcuni momenti i contributi al fondo ad esempio della Francia in espansione serviranno a pagare i sussidi di disoccupazione dell'Italia in crisi. L'opposto avverrà quando i cicli si invertiranno. Si noti che questo meccanismo è molto diverso da quelli esistenti nel bilancio europeo (ad esempio i fondi strutturali) volti a trasferire risorse dalle regioni più ricche a quelle più povere, per garantire una convergenza di lungo periodo. Se fosse esistito nei primi anni Duemila, un meccanismo assicurativo del tipo del sussidio di disoccupazione avrebbe visto la Grecia contribuire e la Germania attingere al fondo.
Un ritrovato ruolo della politica di bilancio richiederebbe poi di rivedere le regole europee, che oggi tendono a vincolare eccessivamente l'azione dei governi, soprattutto per quel che riguarda l’investimento pubblico. È lodevole che la Commissione abbia avviato, prima dell'arrivo della pandemia, un processo di consultazione sulla revisione del Patto di Stabilità
Una domanda che riguarda il tuo libro ma che, credo, non mi pare di aver letto nel testo. La questione è molto attuale. Alfonso Gianni, dalle pagine del Manifesto di qualche settimana fa[2], riprendeva una tua proposta per affrontare la crisi sanitaria attuale. Tale idea riguarda la costituzione di uno strumento di finanziamento europeo della sanità pubblica simile allo SURE, evitando così gli inconvenienti del ricorso al MES. Ci spieghi meglio le differenze tra i due strumenti e in che cosa consiste sinteticamente la proposta?
Gli strumenti sono molto simili nel funzionamento: Le istituzioni europee si indebitano a tassi molto bassi e girano questi prestiti ai paesi europei, che così si indebitano a tassi più bassi di quelli di mercato. In entrambi i casi ci sono vincoli alla destinazione dei fondi, il mercato del lavoro nel caso del SURE e la sanità nel caso del MES detto sanitario. Ci si potrebbe chiedere allora perché il SURE è stato plebiscitato (17 paesi lo hanno chiesto) mentre il MES sanitario finora non ha avuto nessuna richiesta (e se ne parla solo nel nostro paese). La risposta risiede nella natura del meccanismo. Mentre il SURE si appoggia sull'articolo dei trattati (122 TFEU) che regola la solidarietà in caso di eventi eccezionali, il MES sanitario utilizza una struttura, il MES appunto, che è stata messa in piedi nel 2012 per fornire assistenza ai paesi in preda a crisi finanziarie. Per poter preservare la stabilità della zona euro al MES sono stati dati molti poteri di interferenza nelle scelte dei paesi. Se questo si può almeno in linea di principio (e solo in linea di principio, ma questo è un altro discorso) giustificare nel caso di una crisi del debito (ti assisto ma mi assicuro che rimetti i conti in ordine), nulla giustifica quest'ingerenza nel caso di un'emergenza sanitaria. Siccome tutto l'impianto che consente l'ingerenza del MES è rimasto invariato nella linea di credito sanitaria, non è vero che il MES non ha condizioni come osservano alcuni. E se ne sono accorti tutti i governi che hanno ritenuto di non doverlo prendere.
Da qualche anno come PalermoGrad leggiamo con grande interesse i tuoi libri e i tuoi interventi, anche nell'ottica di cercare di ricostruire un pensiero e una prassi di sinistra che accetti l'Europa come terreno di lotta, contro le utopie luddista dei NoEuro e simili. Quali sono secondo te le 2-3 battaglie che dovrebbe fare oggi la sinistra italiana, se esistesse?
La madre di tutte le battaglie, che si declina in quasi tutte le scelte di politica economica, è quella per la riduzione delle disuguaglianze. Sia quelle dette di mercato che quelle successive alla redistribuzione operata dal sistema fiscale. La disuguaglianza, oltre un certo livello, non è solo una questione etica dipendente dai valori e dalle scelte di ognuno di noi. Ma diventa una questione di efficienza. Atkinson, Milanovic, Piketty Stiglitz e molti altri mostrano che l'aumento eccessivo della disuguaglianza ha sregolato la macchina del capitalismo, ormai sempre più instabile, incapace di generare crescita, innovazione, benessere. Quindi per ritrovare il capitalismo progressista dell'età d'oro socialdemocratica bisogna in primo luogo agire sulla distribuzione del reddito.
In questa risposta tu poni l’accento sulle questioni di etica e di efficienza, valori che – se rispettati – ci lancerebbero di nuovo in una “età d’oro socialdemocratica” del “capitalismo progressista”. Se ti riferisci al periodo del Trentennio Glorioso del dopoguerra è vero che abbiamo assistito in Italia e in altri paesi occidentali (attenzione: non in tutto il mondo) ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, anche grazie ad un nuovo welfare. Come pensi che questo “benessere” fosse stato costruito? Quali dinamiche politico-sociali hanno creato l’humus che ha determinato una prima volta la situazione alla quale aspiri adesso? Non credi che quella fase sia ormai definitivamente alle nostre spalle, in quanto quel keynesismo, di cui si sono avvantaggiati molto anche i capitalisti, è esploso a causa del seguente corto circuito: conflitti, lotte, crescita dei salari e dei diritti civili, crescita profitti e rendite, stagflazione? Non pensi che bisognerebbe inventarsi qualcosa di diverso?
Non si può immaginare di tornare al periodo socialdemocratico del dopoguerra, non fosse altro perché il contesto economico è cambiato moltissimo. Piketty nel suo Capitale nel XXI secolo descrive molto bene la specificità di quel periodo, durante il quale il patto sociale era molto diverso. Da un lato le difficoltà del capitale, messo in crisi dalla crisi degli anni Trenta, dall'altro la forte crescita del secondo dopoguerra che hanno consentito di perfezionare la costruzione dello Stato sociale e di ridurre le disuguaglianze. Infine, un mondo aperto ma non globale, in cui gli Stati avevano anch'essi una sia pur parziale capacità di redistribuzione. Oggi il contesto è molto diverso. La stagnazione secolare, la stagnazione della produttività, il predominio delle rendite, l’impotenza degli Stati di fronte a capitali sempre più mobili. Però, sia chiaro, quello che è cambiato è solo l'insieme di vincoli che l'azione pubblica fronteggia, non gli obiettivi. Non è possibile oggi, per lo Stato, utilizzare gli stessi strumenti utilizzati negli anni Cinquanta per assicurare efficienza ed equità. Ma come spiegavo sopra, questi devono rimanere obiettivi centrali. E oggi credo che la sola dimensione che consenta (con enormi difficoltà) di perseguirli sia quella sovranazionale. E un po' si cerca di farlo. Si pensi al gruppo di lavoro dell'OCSE sulla tassazione delle multinazionali. Di fondo, questa è la ragione del mio scettiscismo di fondo sul sovranismo. Le politiche neoliberali non sono inevitabili per l'Europa (è il tema centrale del mio libro), ma non vedo come un singolo paese possa lavorare ad un capitalismo progressista. Se una (flebile) speranza di tornare ad una distribuzione più equa esiste, non è certo l'Italia (o la Francia, o la Germania) da sola che riuscirà ad arrivarci.
[1] https://www.treccani.it/enciclopedia/aree-valutarie-ottimali_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/
[2] https://ilmanifesto.it/il-mes-sarebbe-un-passo-indietro-e-nessun-paese-lo-ha-chiesto/
[intervista a cura di Marco Palazzotto]
*Francesco Saraceno è professore di macroeconomia internazionale ed europea a Sciences Po di Parigi e alla Luiss. È vicedirettore dell’OFCE, l’osservatorio francese di congiunture economiche, e membro del comitato scientifico della Luiss School of European Political Economy. Ha pubblicato, oltre al saggio che presentiamo con questa intervista, La scienza inutile. Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia (Luiss University Press, 2018) qui una nostra recensione. I suoi editoriali appaiono tra l’altro sul Sole 24 Ore.
Una delle tesi fondamentali del testo è che, riprendendo la teoria delle Aree Valutarie Ottimali dell’Economista Premio Nobel Robert Mundell[1], la zona Euro non possiede strumenti di politica economica a livello continentale tali da gestire shock asimmetrici. La zona rimane ingabbiata in uno schema di doppia velocità. Il problema ideologico di fondo è che gli aggiustamenti di questi shock asimmetrici debbano essere lasciati gestire direttamente dai mercati, trascurando invece la vulgata keynesiana che vorrebbe interventi più diretti di politica economica nel garantire stabilità e crescita. Tu proponi un cambiamento nel quadro di riferimento intellettuale. Come ritieni che possa avvenire un cambiamento di questo tipo?
Per parafrasare il Keynes della Teoria Generale, gli uomini politici sono sempre schiavi di qualche economista (lui aggiunge defunto, speriamo che non sia sempre così!). L'enfasi della costruzione europea sugli aggiustamenti di mercato non è un caso, ma è figlia del consenso degli anni Novanta che rigettava le politiche keynesiane. Oggi quel consenso è ridiscusso, e anche tra gli economisti detti mainstream sembra esserci più attenzione ai ruoli di politiche monetaria e di bilancio nel regolare l'economia. Se questo nuovo clima intellettuale si consolida, si porrà anche ai policy maker la questione del rivedere le istituzioni per la moneta unica e dell'introduzione di mezzi di "condivisione del rischio"
Per quanto attiene le istituzioni europee, suggerisci delle riforme per un ritorno del dibattito verso un federalismo più compiuto. In particolare proponi l’utilizzo di strumenti automatici di condivisione del rischio: capacità dei mercati di assorbire gli shock asimmetrici, magari aumentando la loro regolazione (un modello ordoliberale alla tedesca?). Infine la revisione delle regole di bilancio. Potresti spiegarci, anche sinteticamente e per chi non ha ancora letto il tuo libro, in cosa consistono questi tre pilastri?
L'enfasi sull'aggiustamento dei meccanismi di mercato riposa sull'idea che i mercati (fondamentalmente efficienti) possano da soli, con flessibilità e mobilità, assorbire ogni shock che colpisce l'economia. Abbiamo davanti agli occhi un esempio che mostra che questo non basta in nessun caso: anche in un paese come gli Stati Uniti, dove i mercati finanziari sono integrati, prezzi e salari flessibili e la mobilità del lavoro molto forte, il ruolo del governo federale nell'evitare la divergenza dei diversi stati è fondamentale. L'idea del federalismo surrogato è quella di replicare questi meccanismi in un sistema, come il nostro, in cui il federalismo non è (e non sarà ancora a lungo) all'ordine del giorno. Prendiamo il caso del sussidio di disoccupazione europeo, una sorta di assicurazione. Nei periodi di espansione e di bassa disoccupazione, i paesi contribuiscono ad un fondo, dal quale poi riprendono nel momento in cui le cose vanno male. Se il ciclo in due paesi non è sincronizzato, questo vorrà dire che in alcuni momenti i contributi al fondo ad esempio della Francia in espansione serviranno a pagare i sussidi di disoccupazione dell'Italia in crisi. L'opposto avverrà quando i cicli si invertiranno. Si noti che questo meccanismo è molto diverso da quelli esistenti nel bilancio europeo (ad esempio i fondi strutturali) volti a trasferire risorse dalle regioni più ricche a quelle più povere, per garantire una convergenza di lungo periodo. Se fosse esistito nei primi anni Duemila, un meccanismo assicurativo del tipo del sussidio di disoccupazione avrebbe visto la Grecia contribuire e la Germania attingere al fondo.
Un ritrovato ruolo della politica di bilancio richiederebbe poi di rivedere le regole europee, che oggi tendono a vincolare eccessivamente l'azione dei governi, soprattutto per quel che riguarda l’investimento pubblico. È lodevole che la Commissione abbia avviato, prima dell'arrivo della pandemia, un processo di consultazione sulla revisione del Patto di Stabilità
Una domanda che riguarda il tuo libro ma che, credo, non mi pare di aver letto nel testo. La questione è molto attuale. Alfonso Gianni, dalle pagine del Manifesto di qualche settimana fa[2], riprendeva una tua proposta per affrontare la crisi sanitaria attuale. Tale idea riguarda la costituzione di uno strumento di finanziamento europeo della sanità pubblica simile allo SURE, evitando così gli inconvenienti del ricorso al MES. Ci spieghi meglio le differenze tra i due strumenti e in che cosa consiste sinteticamente la proposta?
Gli strumenti sono molto simili nel funzionamento: Le istituzioni europee si indebitano a tassi molto bassi e girano questi prestiti ai paesi europei, che così si indebitano a tassi più bassi di quelli di mercato. In entrambi i casi ci sono vincoli alla destinazione dei fondi, il mercato del lavoro nel caso del SURE e la sanità nel caso del MES detto sanitario. Ci si potrebbe chiedere allora perché il SURE è stato plebiscitato (17 paesi lo hanno chiesto) mentre il MES sanitario finora non ha avuto nessuna richiesta (e se ne parla solo nel nostro paese). La risposta risiede nella natura del meccanismo. Mentre il SURE si appoggia sull'articolo dei trattati (122 TFEU) che regola la solidarietà in caso di eventi eccezionali, il MES sanitario utilizza una struttura, il MES appunto, che è stata messa in piedi nel 2012 per fornire assistenza ai paesi in preda a crisi finanziarie. Per poter preservare la stabilità della zona euro al MES sono stati dati molti poteri di interferenza nelle scelte dei paesi. Se questo si può almeno in linea di principio (e solo in linea di principio, ma questo è un altro discorso) giustificare nel caso di una crisi del debito (ti assisto ma mi assicuro che rimetti i conti in ordine), nulla giustifica quest'ingerenza nel caso di un'emergenza sanitaria. Siccome tutto l'impianto che consente l'ingerenza del MES è rimasto invariato nella linea di credito sanitaria, non è vero che il MES non ha condizioni come osservano alcuni. E se ne sono accorti tutti i governi che hanno ritenuto di non doverlo prendere.
Da qualche anno come PalermoGrad leggiamo con grande interesse i tuoi libri e i tuoi interventi, anche nell'ottica di cercare di ricostruire un pensiero e una prassi di sinistra che accetti l'Europa come terreno di lotta, contro le utopie luddista dei NoEuro e simili. Quali sono secondo te le 2-3 battaglie che dovrebbe fare oggi la sinistra italiana, se esistesse?
La madre di tutte le battaglie, che si declina in quasi tutte le scelte di politica economica, è quella per la riduzione delle disuguaglianze. Sia quelle dette di mercato che quelle successive alla redistribuzione operata dal sistema fiscale. La disuguaglianza, oltre un certo livello, non è solo una questione etica dipendente dai valori e dalle scelte di ognuno di noi. Ma diventa una questione di efficienza. Atkinson, Milanovic, Piketty Stiglitz e molti altri mostrano che l'aumento eccessivo della disuguaglianza ha sregolato la macchina del capitalismo, ormai sempre più instabile, incapace di generare crescita, innovazione, benessere. Quindi per ritrovare il capitalismo progressista dell'età d'oro socialdemocratica bisogna in primo luogo agire sulla distribuzione del reddito.
In questa risposta tu poni l’accento sulle questioni di etica e di efficienza, valori che – se rispettati – ci lancerebbero di nuovo in una “età d’oro socialdemocratica” del “capitalismo progressista”. Se ti riferisci al periodo del Trentennio Glorioso del dopoguerra è vero che abbiamo assistito in Italia e in altri paesi occidentali (attenzione: non in tutto il mondo) ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, anche grazie ad un nuovo welfare. Come pensi che questo “benessere” fosse stato costruito? Quali dinamiche politico-sociali hanno creato l’humus che ha determinato una prima volta la situazione alla quale aspiri adesso? Non credi che quella fase sia ormai definitivamente alle nostre spalle, in quanto quel keynesismo, di cui si sono avvantaggiati molto anche i capitalisti, è esploso a causa del seguente corto circuito: conflitti, lotte, crescita dei salari e dei diritti civili, crescita profitti e rendite, stagflazione? Non pensi che bisognerebbe inventarsi qualcosa di diverso?
Non si può immaginare di tornare al periodo socialdemocratico del dopoguerra, non fosse altro perché il contesto economico è cambiato moltissimo. Piketty nel suo Capitale nel XXI secolo descrive molto bene la specificità di quel periodo, durante il quale il patto sociale era molto diverso. Da un lato le difficoltà del capitale, messo in crisi dalla crisi degli anni Trenta, dall'altro la forte crescita del secondo dopoguerra che hanno consentito di perfezionare la costruzione dello Stato sociale e di ridurre le disuguaglianze. Infine, un mondo aperto ma non globale, in cui gli Stati avevano anch'essi una sia pur parziale capacità di redistribuzione. Oggi il contesto è molto diverso. La stagnazione secolare, la stagnazione della produttività, il predominio delle rendite, l’impotenza degli Stati di fronte a capitali sempre più mobili. Però, sia chiaro, quello che è cambiato è solo l'insieme di vincoli che l'azione pubblica fronteggia, non gli obiettivi. Non è possibile oggi, per lo Stato, utilizzare gli stessi strumenti utilizzati negli anni Cinquanta per assicurare efficienza ed equità. Ma come spiegavo sopra, questi devono rimanere obiettivi centrali. E oggi credo che la sola dimensione che consenta (con enormi difficoltà) di perseguirli sia quella sovranazionale. E un po' si cerca di farlo. Si pensi al gruppo di lavoro dell'OCSE sulla tassazione delle multinazionali. Di fondo, questa è la ragione del mio scettiscismo di fondo sul sovranismo. Le politiche neoliberali non sono inevitabili per l'Europa (è il tema centrale del mio libro), ma non vedo come un singolo paese possa lavorare ad un capitalismo progressista. Se una (flebile) speranza di tornare ad una distribuzione più equa esiste, non è certo l'Italia (o la Francia, o la Germania) da sola che riuscirà ad arrivarci.
[1] https://www.treccani.it/enciclopedia/aree-valutarie-ottimali_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/
[2] https://ilmanifesto.it/il-mes-sarebbe-un-passo-indietro-e-nessun-paese-lo-ha-chiesto/
[intervista a cura di Marco Palazzotto]
*Francesco Saraceno è professore di macroeconomia internazionale ed europea a Sciences Po di Parigi e alla Luiss. È vicedirettore dell’OFCE, l’osservatorio francese di congiunture economiche, e membro del comitato scientifico della Luiss School of European Political Economy. Ha pubblicato, oltre al saggio che presentiamo con questa intervista, La scienza inutile. Tutto quello che non abbiamo voluto imparare dall’economia (Luiss University Press, 2018) qui una nostra recensione. I suoi editoriali appaiono tra l’altro sul Sole 24 Ore.
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