
SI RIPARLA DELL’UOMO OMBRA
DOPO L'UOMO OMBRA
Il testamento ideologico di Dashiell Hammett
di Marcello Benfante 12 ottobre 2018
DOPO L'UOMO OMBRA
Il testamento ideologico di Dashiell Hammett
di Marcello Benfante 12 ottobre 2018
[si conclude con questa Postilla, dedicata al romanzo e ai film da cui prende il titolo, la serie di Marcello Benfante. Le puntate precedenti sono: Pericolo Giallo (29/11/2016); Solo per i tuoi occhi (10/1/2017); Mary per sempre (7/2/2017); La lezione è finita (14/3/2017); Ma un giorno, cara stella (4/4/2017); Non capisco perché tutti quanti continuano – insistentemente – a chiamarlo ‘Graphic Novel’ (4/7/2017); Il cappello noir (7/11/2017); Viene avanti il cretino (6/2/2018); Un sacco di astronavi in questa libreria (10/7/2018); Non ho l’età (12/9/2108)]
L’uomo ombra (The Thin Man, 1934) è l’ultimo romanzo di Dashiell Hammett, e forse per questo custodisce tra le righe un’atmosfera disincantata di congedo. Hammett è considerato il caposcuola dell’hard-boiled, la corrente realistica veicolata soprattutto dalle riviste pulp, come la celebre Black Mask, sulle cui pagine esordì nel 1922. Ma in questo suo commiato agrodolce, dove peraltro non mancano crudezze e violenze, il tono dominante è dettato piuttosto da una corrosiva ironia.
“L’uomo ombra” è anche una commedia di costume tutta giocata su un umorismo ai limiti della parodia e su uno sguardo scettico e polemico gettato con uno spirito di sprezzante dissenso sulla società americana tra la fine del Proibizionismo e l’avvento del New Deal rooseveltiano. Questo tocco amarostico da commedia sotterraneamente satirica, con ripetuti riferimenti al trauma storico del ’29, fu per un verso adeguatamente intercettato e per un altro depurato e depotenziato dalla versione cinematografica che ne fece W. S. Van Dyke sempre nel 1934. Versione infedelmente felice o felicemente infedele che contribuì non poco al successo del libro, ma che traduceva impropriamente il distacco critico di Hammett in una specie di snobismo disinvolto quanto disimpegnato.
I protagonisti, William Powell e Myrna Loy, sebbene distanti dai Nick e Nora originali, sono perfetti nei loro ruoli, soprattutto perché interpretano fondamentalmente se stessi (se stessi, va da sé, in termini cinematografici) con un brillantissimo e coinvolgente charme. Altro discorso potrebbe farsi, in termini assai meno accondiscendenti, per lo stucchevole seguito (ma a suo modo, cioè secondo i canoni hollywoodiani, spesso assai gradevole) di altri cinque episodi, sempre più calibrati sul genere della felice famiglia borghese, ancorché sui generis e spregiudicata.
Delle ambiguità e delle stratificazioni del testo originale si andrà poi perdendo ogni traccia lungo il percorso di questo frivolo e stiracchiato serial.
È invece un romanzo di una sfuggente sottigliezza (fin dal titolo) questo Uomo ombra, quest’apologo sulla doppiezza e sulla ferocia del romanzo poliziesco, con cui sostanzialmente si chiude la carriera letteraria di Hammett, autore scomodo e di irriducibile antagonismo, nonostante la proscrizione nelle famigerate “liste nere” anticomuniste che anticipano i furori del maccartismo.
“L’uomo ombra” si può anzi considerare come una drastica condanna sia dei procedimenti indiziari e giudiziari del sistema repressivo americano, sia dello stesso romanzo poliziesco. La leggerezza del tocco antiretorico, soprattutto nei sarcastici dialoghi, ha smussato e mimetizzato con sapiente understatement il contenuto politico di questa denuncia che demistifica allo stesso tempo i pregiudizi accusatori della caccia agli untori e i meccanismi a posteriori di costruzione probatoria tipici del mystery.
Mentre il film (il primo della serie) contamina efficacemente la cadenza della commedia rosa e la struttura inesorabile del genere poliziesco, offrendo al pubblico una pausa di sollievo alle cupezze angosciose della Grande Depressione, il libro compie un’operazione più elaborata. Più sottile, appunto.
Si tratta di una destrutturazione basilare del giallo, a partire dalla figura stessa del detective, allo scopo di mostrarne al lettore le ragionevoli imposture, ossia quelle arbitrarie supposizioni, logicamente inoppugnabili, sulle quali il genere poliziesco costruisce le sue verità. Nel compiere questa operazione problematica, Hammett rispetta tutte le convenzioni del genere, che pure non esita a denigrare con scanzonate considerazioni ironiche e metaletterarie (“Senti, cara, domani ti comprerò una quantità di libri gialli, ma adesso non riempirti la tua bella testolina di racconti polizieschi”).
Il che rende estremamente credibile l’impalcatura letteraria, mostrandone il risvolto concreto nella vita reale, nelle vere pratiche poliziesche. Il realismo di Hammett non è solo una questione di stile e di personale esperienza sul campo: è pure il racconto di come il crimine sia talora il risultato di un modo per certi versi fuorviante e per altri esplicativo di leggere i fatti e i fenomeni sociali.
Ne L’uomo ombra, l’asciuttezza del testo, talora laconico oltre le stesse consuetudini del genere, la sua ingannevole esilità così densa di allusioni, tende ad eccedere il mero enigma, a farne un simbolo della lacerata condizione umana: “Com’era quello scherzo di un tale così magro che doveva tornare due volte nello stesso posto per riuscire a far ombra?”. La barzelletta è in realtà serissima. Letteralmente straziante. Stiamo parlando dell’uomo scisso, dell’uomo invisibile, fatto a pezzi, dilaniato. Lo strano e apparentemente incongruo resoconto di “Alfred G. Parker, il ‘mangiatore di uomini’, che assassinò i suoi cinque compagni nelle montagne del Colorado, mangiò i loro corpi e rubò il loro denaro” non è solo una pagina di storia dell’America selvaggia del 1873. È un modo obliquo e bizzarramente collocato nel cuore del racconto per dirci che il giallo, ogni buon giallo, sottende una verità crudele e abominevole: che i rapporti sociali capitalistici somigliano a patologiche dinamiche di oscena antropofagia, a un insaziabile e ossessivo cannibalismo che mercifica l’uomo, lo squarta e lo divora.
A un certo punto Nora, sconvolta dai racconti del marito, esclama incredula: “L’hai inventato. Non esiste gente fatta così. Che cos’hanno? Sono i primi di una nuova razza di mostri?”. E Nick: “Io ti racconto quello che succede; non te lo sto spiegando”. È quello che in genere fa un onesto giallo tra le pieghe delle sue contraddizioni, dei suoi doppi sensi, ovvero della canonica ambivalenza dell’indizio, la fuorviante indicazione di ogni traccia, come l’abituale lettore di detective novels ben sa.
Ma stavolta Hammett aggiunge qualcosa in più: l’avviso rivolto al lettore a non lasciarsi raggirare dalla apparente obiettività scientifica dei congegni polizieschi. L’invito a scardinarne gli assiomi più consolidati.
Intanto, l’eroe del romanzo, il quarantunenne di origine greca Nick Charles (il vero cognome è Charalambides), è un “duro” in pensione, che dal 1927, ossia da sei anni, ha cessato la sua attività di investigatore per l’Agenzia Trans-americana e ora si occupa soltanto dei capitali e delle attività della sua bella moglie, Nora, di quindici anni più giovane. Non che si sia rammollito, beninteso. Resta senz’altro un “tipo tosto” capace di sopportare senza lagnarsi una ferita al fianco (di striscio, però) dovuta a un colpo di pistola. Tuttavia, il coriaceo reduce non si trova più nelle condizioni di interpretare la vita come lotta. Le cose per lui si sono messe bene da ogni punto di vista. C’è anche da supporre che abbia superato indenne o pressoché il crollo di Wall Street e navighi economicamente in acque abbastanza tranquille.
Alto, magro, elegante, dotato di intelligenza e fascino notevoli, Nick ha certamente un passato di seduttore e di sedotto, ma ormai sembra essere “un mascalzone di greco”, come lo definisce scherzosamente Nora, piuttosto impigrito e soddisfatto della sua condizione coniugale.
Un ex cacciatore di donne e malfattori, insomma, che ha ormai abbandonato l’agone per godere degli agi di una comoda e sregolata esistenza stordita dall’alcol. Questo Dandy pacificato e “fuori forma”, se non proprio imborghesito, sembra infatti mantenersi in uno stato di stanziale e controllata ebbrezza che non compromette minimamente la sua lucidità mentale e i suoi riflessi da uomo d’azione, ma che a tratti, in certe frasi apparentemente scherzose, rivela una pesante situazione di dipendenza: “Che ne diresti di un goccio di qualcosa per curare il raffreddore?”, oppure, “Non credi che un bicchierino ci aiuterebbe a dormire?”. L’alcol come panacea, insomma. Forse per tacitare un disagio o un tormento interiori.
Nora, d’altronde, sembra seguirlo volentieri sulla medesima strada, come un po’ tutti, poliziotti in servizio compresi, un bicchierino dietro l’altro.
In questo suo chiedere il toccasana e il soporifero sotto forma di bicchierini, Nick è pure, a suo modo, un personaggio comico, ma tragicamente comico, in cui si riflette un certo infantilismo decadente degli Usa, uno stato di morbosa intossicazione collettiva, di dissoluzione epocale. E anche Nora, con tutto il suo candore quasi fanciullesco e il suo ingenuo interesse per la pittoresca tipologia dei bulli e dei gangster, è un personaggio seducente e al tempo stesso disarmante, con alcuni tratti buffi, da comics, da strip. Quando chiede a Nick, appisolato al suo fianco, “Dormi?”, ovviamente svegliandolo, sembra la Blondie di Chic Young, con le sue paradossali insensatezze.
Ma Nora è pure una donna sensibile e materna, protettiva e accogliente, una svampita assennatissima, provvista di un intuito e di un acume assai affinati che le consentono uno sguardo molto maturo e penetrante sul mondo e sulle persone che lo abitano.
Si capisce allora come certe battute, certe gag apparentemente frivole (al pari di certi particolari accattivanti e rassicuranti, come la cagnolina Asta nelle veci del figlio/a che non c’è), anziché tendere a un timbro più rilassato da screwball comedy, servano a restituire con accurato realismo un ambiente, un gergo, un certo tipo di relazioni, un determinato milieu. In particolare, una certa New York beffarda, incapace di stupirsi o di indignarsi, che Hammett descrive con brevi tocchi, fulminee e bozzettistiche descrizioni (eccone una: “Era un uomo abbastanza giovane, grassoccio, bruno, di media altezza, largo fra le mascelle e stretto tra gli occhi”).
Il racconto presenta una rassegna di tipi quasi fumettistici, efficacemente schematizzati: lo scienziato misantropo, misteriosamente volatilizzato, che si sospetta abbia ucciso la sua segretaria; l’ex moglie sensuale e infida, donna pantera voracemente feroce, dai modi nevrotici e volgari di vamp(ira); i loro strani figli (una signorinella dal tremulo sentimentalismo, invaghita fin dall’infanzia di Nick, e un ragazzino bizzarramente ingegnoso che studia il cinese ed elabora improbabili teorie riguardo alle più diverse discipline). E poi uno spregiudicato e confuso detective, un agente di borsa maneggione, una nutrita schiera di loschi figuri e avanzi di galera, un avvocato accortissimo che la sa lunga. Ovvero una famiglia disgregata, i Wynant, all’interno di una società disfatta, a cui si contrappone la solare anarchia della coppia etilica, Nick & Nora, che sembra volersi sottrarre a ogni regola e si sposta svogliatamente in una metropoli che non dorme mai, tra salotti male assortiti e locali malfamati.
Il giovane Gilbert, macchietta dell’adolescente secchione e genialoide, che si sforza sulle orme del padre scienziato un po’ pazzo (Clyde Wynant: l’uomo ombra del titolo) di catalogare metodicamente i suoi apprendimenti antropologici e le sue teorie criminologiche, è indubbiamente una figura caricaturale e parodistica che sembra anticipare i potenziali sviluppi di un divertente adattamento cinematografico.
Ma Nick e Nora, pur prestandosi al gioco delle parti, rimandano pur sempre alla parallela realtà vitale di Hammett e della sua compagna Lillian Hellman, di cui sono la versione edulcorata o fermata in un momento di incantevole armonia.
Se Nora è la controfigura semplificata di Lillian (così come Nick è quella sdrammatizzata dell’alcolizzato e tubercolotico Dashiell), è chiaro allora in che senso i suoi commenti, a metà tra lo sprovveduto e l’intellettualismo radicale, rappresentino una chiave di lettura del testo letterario come documento di denuncia sociale e politica.
Allorché Nick, nel finale del romanzo, ricostruisce (com’è d’uso in ogni buon giallo) dinamiche e moventi, cause ed effetti, del delitto, anzi dei delitti, la spiegazione del caso assume agli occhi di Nora un che di eccessivamente meccanico.
Nick invero spiega bene ogni passaggio dell’intricata vicenda (non prima, ovviamente, di aver ingollato un goccio supplementare: “Bisogna che beva qualcosa, prima di poter parlare”). Ma il teorema è troppo consequenziale per convincere del tutto Nora. Troppo ipotetico.
“Ma li ha commessi?”, obietta Nora riguardo ai crimini di cui è accusato il presunto colpevole in base a un impeccabile procedimento sillogistico. L’obiezione è legittima: il ragionamento costituisce una prova? Possiamo affermare con certezza (ancorché relativa) che l’accusato ha davvero commesso i crimini che a rigor di logica gli vengono attribuiti? Che sappiamo veramente come è andata?
“Certo che lo sappiamo. Altrimenti la storia non torna”, risponde Nick. Che è come dire che altrimenti il romanzo poliziesco non si regge, è impossibile. “Bisognava che fosse lui. Era l’unica cosa logica”.
Ma il punto è, insiste metodologicamente Nora, che non possiamo essere sicuri solo sulla base della quadratura di una teoria.
“Adesso non dire che non ne siamo sicuri. Se non fosse andata così non ci sarebbe senso”, ribatte ancora Nick. Ed è il nocciolo della questione: un romanzo giallo deve sempre obbedire a ipotesi sensate. Ma la vita no. La vita può essere assurda. E la giustizia?
Nora se lo domanda con una certa apprensione: “Ma credevo che chiunque debba essere considerato innocente finché non si prova la sua colpevolezza”.
Di fronte alla circostanziata e convincente spiegazione dei fatti fornita da Nick, di cui il lettore non ha motivo di dubitare, la contestazione di Nora potrebbe sembrare un po’ artificiosa e sofistica, sconfinando in un’astratta petizione di principio dopo essersi appellata alla concretezza delle prove fattuali.
Ma la risposta di Nick riporta cinicamente la questione al suo errore (e peccato) originario, da cui promana ogni altra impostura: “Questo vale per le giurie, non per i poliziotti. Loro scovano il tipo che credono sia l’assassino, lo ficcano dentro e fanno credere a tutti d’essere convinti che sia il colpevole e mettono la sua fotografia su tutti i giornali e l’avvocato distrettuale costruisce la migliore teoria che può sulle informazioni esistenti, e intanto raccolgono altri dettagli qua e là; e le persone che riconoscono la fotografia, come pure quelle che lo avrebbero creduto innocente se non fosse stato arrestato, vengono a deporre contro di lui, e dopo un po’ finisce sulla sedia elettrica”.
In altre parole la polizia - che nel corso del romanzo abbiamo visto infischiarsene delle regole legali a cominciare dai mandati di perquisizione e pestare senza remore di sorta gli indiziati - costruisce un colpevole allo stesso modo in cui uno scrittore di gialli costruisce il suo romanzo. Con l’unica eccezione che lo scrittore mette solitamente un po’ più di “matematica” nelle sue deduzioni.
Tutto ciò aiuta a comprendere il motivo per cui Hammett abbia precocemente (ahimè, troppo precocemente!) deposto la penna per impegnarsi totalmente nell’attivismo politico. In questa chiave interpretativa L’uomo ombra, può essere assunto come canto del cigno letterario e testamento ideologico, oltre il quale si apre la prosecuzione dell’opera di smascheramento dell’oppressione sociale con altri mezzi, non più romanzeschi, ma esplicitamente politici. Come dire, dalla teoria letteraria, alla prassi marxista. Dalla fiction alla realtà.
Tuttavia, Nick-Dashiell (che considera i “ragionamenti logici” un ottimo metodo “per allontanare l’insonnia”) non cala dogmaticamente uno schema giuridico-filosofico sull’impianto narrativo. Nick si limita a dire che presumibilmente i fatti si sono svolti come lui li ha esposti. “Probabilmente”, commenta Nora. “È una parola che bisogna adoperare molto spesso in questa faccenda”, ammette l’investigatore.
E proprio a Nora-Lillian spetta l’ultima parola, che è un insoddisfatto “Può darsi” con il quale si chiude scetticamente il romanzo.
Dashiell Hammett, “L’uomo ombra”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1980, traduzione di Marcella Hannau
L’uomo ombra (The Thin Man, 1934) è l’ultimo romanzo di Dashiell Hammett, e forse per questo custodisce tra le righe un’atmosfera disincantata di congedo. Hammett è considerato il caposcuola dell’hard-boiled, la corrente realistica veicolata soprattutto dalle riviste pulp, come la celebre Black Mask, sulle cui pagine esordì nel 1922. Ma in questo suo commiato agrodolce, dove peraltro non mancano crudezze e violenze, il tono dominante è dettato piuttosto da una corrosiva ironia.
“L’uomo ombra” è anche una commedia di costume tutta giocata su un umorismo ai limiti della parodia e su uno sguardo scettico e polemico gettato con uno spirito di sprezzante dissenso sulla società americana tra la fine del Proibizionismo e l’avvento del New Deal rooseveltiano. Questo tocco amarostico da commedia sotterraneamente satirica, con ripetuti riferimenti al trauma storico del ’29, fu per un verso adeguatamente intercettato e per un altro depurato e depotenziato dalla versione cinematografica che ne fece W. S. Van Dyke sempre nel 1934. Versione infedelmente felice o felicemente infedele che contribuì non poco al successo del libro, ma che traduceva impropriamente il distacco critico di Hammett in una specie di snobismo disinvolto quanto disimpegnato.
I protagonisti, William Powell e Myrna Loy, sebbene distanti dai Nick e Nora originali, sono perfetti nei loro ruoli, soprattutto perché interpretano fondamentalmente se stessi (se stessi, va da sé, in termini cinematografici) con un brillantissimo e coinvolgente charme. Altro discorso potrebbe farsi, in termini assai meno accondiscendenti, per lo stucchevole seguito (ma a suo modo, cioè secondo i canoni hollywoodiani, spesso assai gradevole) di altri cinque episodi, sempre più calibrati sul genere della felice famiglia borghese, ancorché sui generis e spregiudicata.
Delle ambiguità e delle stratificazioni del testo originale si andrà poi perdendo ogni traccia lungo il percorso di questo frivolo e stiracchiato serial.
È invece un romanzo di una sfuggente sottigliezza (fin dal titolo) questo Uomo ombra, quest’apologo sulla doppiezza e sulla ferocia del romanzo poliziesco, con cui sostanzialmente si chiude la carriera letteraria di Hammett, autore scomodo e di irriducibile antagonismo, nonostante la proscrizione nelle famigerate “liste nere” anticomuniste che anticipano i furori del maccartismo.
“L’uomo ombra” si può anzi considerare come una drastica condanna sia dei procedimenti indiziari e giudiziari del sistema repressivo americano, sia dello stesso romanzo poliziesco. La leggerezza del tocco antiretorico, soprattutto nei sarcastici dialoghi, ha smussato e mimetizzato con sapiente understatement il contenuto politico di questa denuncia che demistifica allo stesso tempo i pregiudizi accusatori della caccia agli untori e i meccanismi a posteriori di costruzione probatoria tipici del mystery.
Mentre il film (il primo della serie) contamina efficacemente la cadenza della commedia rosa e la struttura inesorabile del genere poliziesco, offrendo al pubblico una pausa di sollievo alle cupezze angosciose della Grande Depressione, il libro compie un’operazione più elaborata. Più sottile, appunto.
Si tratta di una destrutturazione basilare del giallo, a partire dalla figura stessa del detective, allo scopo di mostrarne al lettore le ragionevoli imposture, ossia quelle arbitrarie supposizioni, logicamente inoppugnabili, sulle quali il genere poliziesco costruisce le sue verità. Nel compiere questa operazione problematica, Hammett rispetta tutte le convenzioni del genere, che pure non esita a denigrare con scanzonate considerazioni ironiche e metaletterarie (“Senti, cara, domani ti comprerò una quantità di libri gialli, ma adesso non riempirti la tua bella testolina di racconti polizieschi”).
Il che rende estremamente credibile l’impalcatura letteraria, mostrandone il risvolto concreto nella vita reale, nelle vere pratiche poliziesche. Il realismo di Hammett non è solo una questione di stile e di personale esperienza sul campo: è pure il racconto di come il crimine sia talora il risultato di un modo per certi versi fuorviante e per altri esplicativo di leggere i fatti e i fenomeni sociali.
Ne L’uomo ombra, l’asciuttezza del testo, talora laconico oltre le stesse consuetudini del genere, la sua ingannevole esilità così densa di allusioni, tende ad eccedere il mero enigma, a farne un simbolo della lacerata condizione umana: “Com’era quello scherzo di un tale così magro che doveva tornare due volte nello stesso posto per riuscire a far ombra?”. La barzelletta è in realtà serissima. Letteralmente straziante. Stiamo parlando dell’uomo scisso, dell’uomo invisibile, fatto a pezzi, dilaniato. Lo strano e apparentemente incongruo resoconto di “Alfred G. Parker, il ‘mangiatore di uomini’, che assassinò i suoi cinque compagni nelle montagne del Colorado, mangiò i loro corpi e rubò il loro denaro” non è solo una pagina di storia dell’America selvaggia del 1873. È un modo obliquo e bizzarramente collocato nel cuore del racconto per dirci che il giallo, ogni buon giallo, sottende una verità crudele e abominevole: che i rapporti sociali capitalistici somigliano a patologiche dinamiche di oscena antropofagia, a un insaziabile e ossessivo cannibalismo che mercifica l’uomo, lo squarta e lo divora.
A un certo punto Nora, sconvolta dai racconti del marito, esclama incredula: “L’hai inventato. Non esiste gente fatta così. Che cos’hanno? Sono i primi di una nuova razza di mostri?”. E Nick: “Io ti racconto quello che succede; non te lo sto spiegando”. È quello che in genere fa un onesto giallo tra le pieghe delle sue contraddizioni, dei suoi doppi sensi, ovvero della canonica ambivalenza dell’indizio, la fuorviante indicazione di ogni traccia, come l’abituale lettore di detective novels ben sa.
Ma stavolta Hammett aggiunge qualcosa in più: l’avviso rivolto al lettore a non lasciarsi raggirare dalla apparente obiettività scientifica dei congegni polizieschi. L’invito a scardinarne gli assiomi più consolidati.
Intanto, l’eroe del romanzo, il quarantunenne di origine greca Nick Charles (il vero cognome è Charalambides), è un “duro” in pensione, che dal 1927, ossia da sei anni, ha cessato la sua attività di investigatore per l’Agenzia Trans-americana e ora si occupa soltanto dei capitali e delle attività della sua bella moglie, Nora, di quindici anni più giovane. Non che si sia rammollito, beninteso. Resta senz’altro un “tipo tosto” capace di sopportare senza lagnarsi una ferita al fianco (di striscio, però) dovuta a un colpo di pistola. Tuttavia, il coriaceo reduce non si trova più nelle condizioni di interpretare la vita come lotta. Le cose per lui si sono messe bene da ogni punto di vista. C’è anche da supporre che abbia superato indenne o pressoché il crollo di Wall Street e navighi economicamente in acque abbastanza tranquille.
Alto, magro, elegante, dotato di intelligenza e fascino notevoli, Nick ha certamente un passato di seduttore e di sedotto, ma ormai sembra essere “un mascalzone di greco”, come lo definisce scherzosamente Nora, piuttosto impigrito e soddisfatto della sua condizione coniugale.
Un ex cacciatore di donne e malfattori, insomma, che ha ormai abbandonato l’agone per godere degli agi di una comoda e sregolata esistenza stordita dall’alcol. Questo Dandy pacificato e “fuori forma”, se non proprio imborghesito, sembra infatti mantenersi in uno stato di stanziale e controllata ebbrezza che non compromette minimamente la sua lucidità mentale e i suoi riflessi da uomo d’azione, ma che a tratti, in certe frasi apparentemente scherzose, rivela una pesante situazione di dipendenza: “Che ne diresti di un goccio di qualcosa per curare il raffreddore?”, oppure, “Non credi che un bicchierino ci aiuterebbe a dormire?”. L’alcol come panacea, insomma. Forse per tacitare un disagio o un tormento interiori.
Nora, d’altronde, sembra seguirlo volentieri sulla medesima strada, come un po’ tutti, poliziotti in servizio compresi, un bicchierino dietro l’altro.
In questo suo chiedere il toccasana e il soporifero sotto forma di bicchierini, Nick è pure, a suo modo, un personaggio comico, ma tragicamente comico, in cui si riflette un certo infantilismo decadente degli Usa, uno stato di morbosa intossicazione collettiva, di dissoluzione epocale. E anche Nora, con tutto il suo candore quasi fanciullesco e il suo ingenuo interesse per la pittoresca tipologia dei bulli e dei gangster, è un personaggio seducente e al tempo stesso disarmante, con alcuni tratti buffi, da comics, da strip. Quando chiede a Nick, appisolato al suo fianco, “Dormi?”, ovviamente svegliandolo, sembra la Blondie di Chic Young, con le sue paradossali insensatezze.
Ma Nora è pure una donna sensibile e materna, protettiva e accogliente, una svampita assennatissima, provvista di un intuito e di un acume assai affinati che le consentono uno sguardo molto maturo e penetrante sul mondo e sulle persone che lo abitano.
Si capisce allora come certe battute, certe gag apparentemente frivole (al pari di certi particolari accattivanti e rassicuranti, come la cagnolina Asta nelle veci del figlio/a che non c’è), anziché tendere a un timbro più rilassato da screwball comedy, servano a restituire con accurato realismo un ambiente, un gergo, un certo tipo di relazioni, un determinato milieu. In particolare, una certa New York beffarda, incapace di stupirsi o di indignarsi, che Hammett descrive con brevi tocchi, fulminee e bozzettistiche descrizioni (eccone una: “Era un uomo abbastanza giovane, grassoccio, bruno, di media altezza, largo fra le mascelle e stretto tra gli occhi”).
Il racconto presenta una rassegna di tipi quasi fumettistici, efficacemente schematizzati: lo scienziato misantropo, misteriosamente volatilizzato, che si sospetta abbia ucciso la sua segretaria; l’ex moglie sensuale e infida, donna pantera voracemente feroce, dai modi nevrotici e volgari di vamp(ira); i loro strani figli (una signorinella dal tremulo sentimentalismo, invaghita fin dall’infanzia di Nick, e un ragazzino bizzarramente ingegnoso che studia il cinese ed elabora improbabili teorie riguardo alle più diverse discipline). E poi uno spregiudicato e confuso detective, un agente di borsa maneggione, una nutrita schiera di loschi figuri e avanzi di galera, un avvocato accortissimo che la sa lunga. Ovvero una famiglia disgregata, i Wynant, all’interno di una società disfatta, a cui si contrappone la solare anarchia della coppia etilica, Nick & Nora, che sembra volersi sottrarre a ogni regola e si sposta svogliatamente in una metropoli che non dorme mai, tra salotti male assortiti e locali malfamati.
Il giovane Gilbert, macchietta dell’adolescente secchione e genialoide, che si sforza sulle orme del padre scienziato un po’ pazzo (Clyde Wynant: l’uomo ombra del titolo) di catalogare metodicamente i suoi apprendimenti antropologici e le sue teorie criminologiche, è indubbiamente una figura caricaturale e parodistica che sembra anticipare i potenziali sviluppi di un divertente adattamento cinematografico.
Ma Nick e Nora, pur prestandosi al gioco delle parti, rimandano pur sempre alla parallela realtà vitale di Hammett e della sua compagna Lillian Hellman, di cui sono la versione edulcorata o fermata in un momento di incantevole armonia.
Se Nora è la controfigura semplificata di Lillian (così come Nick è quella sdrammatizzata dell’alcolizzato e tubercolotico Dashiell), è chiaro allora in che senso i suoi commenti, a metà tra lo sprovveduto e l’intellettualismo radicale, rappresentino una chiave di lettura del testo letterario come documento di denuncia sociale e politica.
Allorché Nick, nel finale del romanzo, ricostruisce (com’è d’uso in ogni buon giallo) dinamiche e moventi, cause ed effetti, del delitto, anzi dei delitti, la spiegazione del caso assume agli occhi di Nora un che di eccessivamente meccanico.
Nick invero spiega bene ogni passaggio dell’intricata vicenda (non prima, ovviamente, di aver ingollato un goccio supplementare: “Bisogna che beva qualcosa, prima di poter parlare”). Ma il teorema è troppo consequenziale per convincere del tutto Nora. Troppo ipotetico.
“Ma li ha commessi?”, obietta Nora riguardo ai crimini di cui è accusato il presunto colpevole in base a un impeccabile procedimento sillogistico. L’obiezione è legittima: il ragionamento costituisce una prova? Possiamo affermare con certezza (ancorché relativa) che l’accusato ha davvero commesso i crimini che a rigor di logica gli vengono attribuiti? Che sappiamo veramente come è andata?
“Certo che lo sappiamo. Altrimenti la storia non torna”, risponde Nick. Che è come dire che altrimenti il romanzo poliziesco non si regge, è impossibile. “Bisognava che fosse lui. Era l’unica cosa logica”.
Ma il punto è, insiste metodologicamente Nora, che non possiamo essere sicuri solo sulla base della quadratura di una teoria.
“Adesso non dire che non ne siamo sicuri. Se non fosse andata così non ci sarebbe senso”, ribatte ancora Nick. Ed è il nocciolo della questione: un romanzo giallo deve sempre obbedire a ipotesi sensate. Ma la vita no. La vita può essere assurda. E la giustizia?
Nora se lo domanda con una certa apprensione: “Ma credevo che chiunque debba essere considerato innocente finché non si prova la sua colpevolezza”.
Di fronte alla circostanziata e convincente spiegazione dei fatti fornita da Nick, di cui il lettore non ha motivo di dubitare, la contestazione di Nora potrebbe sembrare un po’ artificiosa e sofistica, sconfinando in un’astratta petizione di principio dopo essersi appellata alla concretezza delle prove fattuali.
Ma la risposta di Nick riporta cinicamente la questione al suo errore (e peccato) originario, da cui promana ogni altra impostura: “Questo vale per le giurie, non per i poliziotti. Loro scovano il tipo che credono sia l’assassino, lo ficcano dentro e fanno credere a tutti d’essere convinti che sia il colpevole e mettono la sua fotografia su tutti i giornali e l’avvocato distrettuale costruisce la migliore teoria che può sulle informazioni esistenti, e intanto raccolgono altri dettagli qua e là; e le persone che riconoscono la fotografia, come pure quelle che lo avrebbero creduto innocente se non fosse stato arrestato, vengono a deporre contro di lui, e dopo un po’ finisce sulla sedia elettrica”.
In altre parole la polizia - che nel corso del romanzo abbiamo visto infischiarsene delle regole legali a cominciare dai mandati di perquisizione e pestare senza remore di sorta gli indiziati - costruisce un colpevole allo stesso modo in cui uno scrittore di gialli costruisce il suo romanzo. Con l’unica eccezione che lo scrittore mette solitamente un po’ più di “matematica” nelle sue deduzioni.
Tutto ciò aiuta a comprendere il motivo per cui Hammett abbia precocemente (ahimè, troppo precocemente!) deposto la penna per impegnarsi totalmente nell’attivismo politico. In questa chiave interpretativa L’uomo ombra, può essere assunto come canto del cigno letterario e testamento ideologico, oltre il quale si apre la prosecuzione dell’opera di smascheramento dell’oppressione sociale con altri mezzi, non più romanzeschi, ma esplicitamente politici. Come dire, dalla teoria letteraria, alla prassi marxista. Dalla fiction alla realtà.
Tuttavia, Nick-Dashiell (che considera i “ragionamenti logici” un ottimo metodo “per allontanare l’insonnia”) non cala dogmaticamente uno schema giuridico-filosofico sull’impianto narrativo. Nick si limita a dire che presumibilmente i fatti si sono svolti come lui li ha esposti. “Probabilmente”, commenta Nora. “È una parola che bisogna adoperare molto spesso in questa faccenda”, ammette l’investigatore.
E proprio a Nora-Lillian spetta l’ultima parola, che è un insoddisfatto “Può darsi” con il quale si chiude scetticamente il romanzo.
Dashiell Hammett, “L’uomo ombra”, Milano, Arnoldo Mondadori, 1980, traduzione di Marcella Hannau
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