
Manfredi Alberti, Senza lavoro. La disoccupazione in Italia dall’Unità a oggi, Laterza, 2016, pp. 233.
Un merito da riconoscere all’autore, Manfredi Alberti, è di essersi coraggiosamente cimentato nel tentativo di condensare in poco più di duecento pagine un argomento di straordinaria complessità qual è la storia sociale, economica, giuridica e politica della disoccupazione in Italia.
La consapevolezza dell’esistenza di un diritto al lavoro, esigibile, anche se di difficile esercizio, è una enorme conquista. E non è un caso che dalla proclamazione della Costituzione Repubblicana ad oggi questo principio sia stato messo continuamente in discussione o negato come un’utopia dei costituenti. Il “senza lavoro” deve quindi essere posto dalla comunità nella condizione di poter realizzare il proprio diritto: ha una dignità e un preciso status.
Il “senza lavoro”, fino a tempi non molto remoti, era chiamato ozioso, vagabondo, mendicante, un paria degno soltanto di attenzione da parte delle leggi criminali o della carità della Chiesa o di filantropi in cerca di benemerenze per l’al di là. Tuttavia fin dai primi vagiti del capitalismo le plebi cittadine o rurali inurbate per necessità (fame), divennero oggetto di interesse economico. La risorsa, del resto, era abbondante, inesauribile e a buon mercato.
Accadeva nell’Inghilterra del 1844, uno dei paesi più avanzati del tempo sotto il profilo della legislazione sociale, dove nell’industria tessile, “per avere delle dita delicate furono massacrati interi bambini…” perché “la delicatezza del tessuto richiede una leggerezza di dita” (Marx, Il capitale, Libro I, cap. VIII).
Il capitalismo, fin dai suoi esordi, non poteva permettersi il lusso di essere umano: così grandi masse operaie vennero gettate come combustibile nella fornace della produzione capitalistica (viene in mente una famosa scena di Metropolis di Fritz Lang).
La disoccupazione è uno status involontario in cui ristagna la forza lavorativa dell’“esercito di riserva”, il prodotto nascosto e inconfessabile del capitalismo, ma essenziale e funzionale per la sua riproduzione e per la sua crescita. Una sentina da cui si attinge nelle fasi espansive e dove, senza alcuno scrupolo, si scarica il surplus umano.
Le forme organizzate di solidarismo e mutualismo operaie hanno creato nel tempo, con la lotta, le premesse per un embrione di legislazione sociale, di mal grado subita dalle classi dominanti per il timore di non riuscire ad arginare con i consueti sistemi repressivi l’onda tempestosa che di tanto in tanto minaccia di travolgere l’ordine borghese.
Nel corso dell’Ottocento si cominciò a studiare e misurare in maniera sistematica il fenomeno della disoccupazione in connessione con il ciclo economico e l’andamento demografico. Inghilterra e Germania, dove il capitalismo industriale aveva posto solide basi, erano all’avanguardia in questi studi.
In Italia solo nelle ultime due decadi del XIX secolo – di pari passo con la divulgazione tra le classi subalterne delle idee anarchiche e socialiste – crebbe l’allarme dell’autorità per le frequenti rivolte dei “senza lavoro” nelle campagne. Così scriveva il prefetto di Bari nel 1883: “se le plebi agricole non fossero con moltissima cura tenute d’occhio, potrebbero facilmente divenire materia incendiaria al lampo della questione sociale” (Alberti, La disoccupazione, pag. 12; v. anche nota 71).
La politica sociale italiana nei due ultimi decenni del secolo XIX non ebbe tenerezze per i ceti popolari, come testimonia il piombo con cui l’esercito regio rispose alla richiesta di più equi patti agrari da parte dei braccianti riuniti attorno ai Fasci Siciliani (strage di Caltavuturo, 1893) o le cannonate di Bava Beccaris in occasione della rivolta per il pane, nel 1898, a Milano (80 morti).
Del resto, questi erano i metodi di dialogo sociale dei governi sabaudi, già ben sperimentati durante la repressione del cosiddetto “brigantaggio” meridionale, metodi che ritorneranno in auge nel corso delle guerre imperialiste italiane dei primi tre decenni del XX secolo e di cui faranno le spese, stavolta, le inermi popolazioni libiche ed etiopiche.
Nel 1893, a causa del peggioramento della situazione economica e delle agitazioni operaie, si avvertì l’esigenza di studiare i riflessi sull’occupazione dei moderni sistemi di collocamento e della regolamentazione dell’orario di lavoro.
Sorgevano le prime Camere del Lavoro, che, come quella di Milano, fungevano anche da ufficio di collocamento. Si rafforzava anche il movimento contadino con la nascita della Federterra e nel 1906 della Confederazione Generale del Lavoro, che fece della lotta alla disoccupazione un obiettivo primario anche per sostenere la propria politica salariale che sarebbe risultata indebolita dalla competizione tra occupati e disoccupati.
In mancanza di strumenti omogenei e sistematici di rilevazione, l’incidenza della disoccupazione non poteva essere valutata in modo efficace. La prevalenza in campo economico delle teorie marginaliste, secondo cui la disoccupazione è una costituente strutturale dell’economia capitalistica, il cui governo è affidato alla libera fluttuazione dei salari in base alle leggi della domanda e dell’offerta, troncava ogni possibilità di analizzare il fenomeno in modo scientifico.
Tuttavia l’emanazione dell’enciclica Rerum Novarum, il forte impulso dato all’associazionismo cattolico e l’influsso culturale del nascente Partito Socialista spinsero alcuni economisti, come Francesco Saverio Nitti o Carlo Francesco Ferraris, ad approfondire il sistema delle assicurazioni sociali istituito nella Germania guglielmina (“la prima patria dello Stato sociale europeo” afferma giustamente Alberti a pag. 35), dove era forte l’influsso del Partito Socialdemocratico. Si fece così strada, anche in Italia, l’idea di un sistema assicurativo obbligatorio contro la disoccupazione.
La prima guerra mondiale ebbe sul gracile sistema produttivo italiano gli effetti di uno shock. Lo sforzo bellico richiedeva la piena utilizzazione degli impianti e la pianificazione della produzione. La sostituzione degli uomini richiamati alle armi ebbe due effetti, quello di giungere a un massiccio incremento dell’occupazione, anche di quella femminile. Le donne così entravano massicciamente nelle fabbriche e avviavano un processo di emancipazione, economica e sociale, dal patriarcato dominante. Si registrarono anche le prime forme di sostegno al reddito da parte dello Stato, una specie di cassa integrazione ante litteram che si attivava nel caso in cui si dovesse temporaneamente interrompere la produzione. Si realizzò così un vero e proprio “stato sociale” di guerra.
Il dopoguerra fu durissimo, perché la concomitanza della smobilitazione e della cessazione della produzione bellica lasciarono milioni di uomini nell’impossibilità di trovare un lavoro. La crisi economica, la disoccupazione diffusa, l’esempio di quanto era accaduto in Russia e di quanto stava accadendo in Germania, dove gli spartachisti si stavano sollevando contro il governo reazionario guidato da Friedrich Ebert, alimentarono la speranza e l’illusione dell’apertura di una via rivoluzionaria anche in Italia (il “biennio rosso” 1919-1920). In quegli stessi anni con il governo Nitti vennero introdotti numerosi istituti tipici dello Stato sociale, quali l’indennità di licenziamento, l’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità e la vecchiaia, l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione e la cassa nazionale per le assicurazioni sociali, l’ufficio nazionale per il collocamento, e introdotto il libretto di lavoro.
Intanto maturava la svolta reazionaria. Il fascismo liquidò rapidamente le vestigia dello stato liberale e, mentre le grandi imprese industriali si sviluppavano anche grazie all’introduzione dei nuovi modelli organizzativi tayloristici e fordisti importati dagli Stati Uniti, la classe operaia pativa bassi salari e un maggiore sfruttamento. Né meglio andava nel settore agricolo. Il fascismo smantellò anche quel po’ di stato sociale che era stato introdotto dal riformismo nittiano e iniziò la costruzione dello stato corporativo, mettendo fuori legge il sindacato e vietando lo sciopero. La disoccupazione ebbe un’impennata negli anni 1926 e 1927 a causa dell’improvvida decisione di rivalutare la lira, a cui si accompagnò un aumento dei prezzi con effetti devastanti sulle classi lavoratrici. Fu in queste condizioni che l’Italia affrontò la grande crisi del 1929. La politica maschilista del regime tendeva a scoraggiare l’impiego femminile, sicché la disoccupazione femminile, dato che alla donna era destinato soltanto il compito di moglie e madre, non era oggetto di alcuna attenzione. Le politiche del lavoro del regime si sostanziavano del resto in alti tassi di disoccupazione e bassi salari, aggravate dalla martellante propaganda tendente ad elevare il tasso di natalità. Le teorie di Keynes (nel 1936 era uscita la sua Teoria Generale) erano bandite dal mondo accademico italiano e condannate senza appello come eretiche e addirittura “comuniste”.
L’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT), cui fu affidato il compito di censire periodicamente la popolazione italiana e in via sussidiaria effettuare ricerche sui livelli occupazionali, si sforzò di definire il perimetro della “disoccupazione” inaugurando una casistica in gran parte valida ancora oggi.
La seconda guerra mondiale, pur tra tremende distruzioni del patrimonio artistico e immobiliare, risparmiò quasi interamente gli impianti industriali più importanti e questo agevolò la ripresa nel secondo dopoguerra. La disoccupazione però raggiunse picchi che non sarebbero più stati raggiunti; sempre più accentuato era l’esodo dalle campagne. L’incremento del terziario, che negli ultimi anni del XXI secolo rappresenta quasi il 70% della forza lavoro nazionale, ebbe origine in quel periodo.
La disoccupazione in Italia colpisce, oggi come ieri, i giovani (nel 2013 oltre il 40%), le donne, i cittadini del sud, dove la disoccupazione è quasi sempre di lunga durata. L’esistenza di due Italie si coglie in pieno da questo dato: al sud il tasso di disoccupazione toccava a fine 2013 oltre il 20% contro il 7% del nord. Pesa sul tasso di disoccupazione meridionale il numero sempre crescente degli “scoraggiati”, di quelli cioè che non cercano più lavoro, i Neet (Not in education, employment or training). Sfugge poi a ogni controllo la fascia del lavoro nero, sia essa un’attività a tempo parziale che si affianca a un lavoro regolare, oppure un’occupazione totalmente sommersa.
Nel 1979 l’Italia entrava nel “serpente monetario”, il “Sistema Monetario Europeo”, e iniziava una politica di contenimento salariale, accettata dal Sindacato nella speranza – rivelatasi fallace – di ottenere per questa via un incentivo per le aziende ad assumere nuova mano d’opera. Maturava in questo lasso di tempo il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, che consegnava all’arbitrio dei mercati la stabilità finanziaria del paese. In questo quadro, i trattati europei, fortemente permeati di filosofia neo-liberista, erodevano fondamentali principi costituzionali. La deregolamentazione dei rapporti di lavoro iniziata con il pacchetto Treu, che introdusse il lavoro interinale, proseguita con la legge Biagi, e poi con la legge Fornero, ha raggiunto il suo apice con il cosiddetto Jobs Act, che tradotto in lingua italiana vuol dire “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
Un interessante paragrafo del volume (l’ultimo) descrive gli strumenti statistici di misurazione della disoccupazione in Italia. Di recente, in seguito all’allineamento dei metodi di ricerca a quelli europei, sono stati adottati criteri più restrittivi per definire lo stato di disoccupazione e al tradizionale tasso di disoccupazione si è aggiunto il “tasso di mancata partecipazione” che include anche gli “scoraggiati” ovvero coloro che pur non cercando attivamente un lavoro sono tuttavia disponibili a lavorare. L’autore riferisce in proposito che nel 2014 il tasso di mancata partecipazione ha raggiunto il 22,9% contro il 12,7% del tasso di disoccupazione. Alberti conclude il suo libro con queste parole, pienamente condivise da chi scrive: “il trattato di Maastricht confligge apertamente con quanto stabilito dalla Costituzione italiana in materia di diritto al lavoro e di intervento pubblico in economia impedendo una politica per la diminuzione della disoccupazione e il rilancio dell’economia italiana”.
Un merito da riconoscere all’autore, Manfredi Alberti, è di essersi coraggiosamente cimentato nel tentativo di condensare in poco più di duecento pagine un argomento di straordinaria complessità qual è la storia sociale, economica, giuridica e politica della disoccupazione in Italia.
La consapevolezza dell’esistenza di un diritto al lavoro, esigibile, anche se di difficile esercizio, è una enorme conquista. E non è un caso che dalla proclamazione della Costituzione Repubblicana ad oggi questo principio sia stato messo continuamente in discussione o negato come un’utopia dei costituenti. Il “senza lavoro” deve quindi essere posto dalla comunità nella condizione di poter realizzare il proprio diritto: ha una dignità e un preciso status.
Il “senza lavoro”, fino a tempi non molto remoti, era chiamato ozioso, vagabondo, mendicante, un paria degno soltanto di attenzione da parte delle leggi criminali o della carità della Chiesa o di filantropi in cerca di benemerenze per l’al di là. Tuttavia fin dai primi vagiti del capitalismo le plebi cittadine o rurali inurbate per necessità (fame), divennero oggetto di interesse economico. La risorsa, del resto, era abbondante, inesauribile e a buon mercato.
Accadeva nell’Inghilterra del 1844, uno dei paesi più avanzati del tempo sotto il profilo della legislazione sociale, dove nell’industria tessile, “per avere delle dita delicate furono massacrati interi bambini…” perché “la delicatezza del tessuto richiede una leggerezza di dita” (Marx, Il capitale, Libro I, cap. VIII).
Il capitalismo, fin dai suoi esordi, non poteva permettersi il lusso di essere umano: così grandi masse operaie vennero gettate come combustibile nella fornace della produzione capitalistica (viene in mente una famosa scena di Metropolis di Fritz Lang).
La disoccupazione è uno status involontario in cui ristagna la forza lavorativa dell’“esercito di riserva”, il prodotto nascosto e inconfessabile del capitalismo, ma essenziale e funzionale per la sua riproduzione e per la sua crescita. Una sentina da cui si attinge nelle fasi espansive e dove, senza alcuno scrupolo, si scarica il surplus umano.
Le forme organizzate di solidarismo e mutualismo operaie hanno creato nel tempo, con la lotta, le premesse per un embrione di legislazione sociale, di mal grado subita dalle classi dominanti per il timore di non riuscire ad arginare con i consueti sistemi repressivi l’onda tempestosa che di tanto in tanto minaccia di travolgere l’ordine borghese.
Nel corso dell’Ottocento si cominciò a studiare e misurare in maniera sistematica il fenomeno della disoccupazione in connessione con il ciclo economico e l’andamento demografico. Inghilterra e Germania, dove il capitalismo industriale aveva posto solide basi, erano all’avanguardia in questi studi.
In Italia solo nelle ultime due decadi del XIX secolo – di pari passo con la divulgazione tra le classi subalterne delle idee anarchiche e socialiste – crebbe l’allarme dell’autorità per le frequenti rivolte dei “senza lavoro” nelle campagne. Così scriveva il prefetto di Bari nel 1883: “se le plebi agricole non fossero con moltissima cura tenute d’occhio, potrebbero facilmente divenire materia incendiaria al lampo della questione sociale” (Alberti, La disoccupazione, pag. 12; v. anche nota 71).
La politica sociale italiana nei due ultimi decenni del secolo XIX non ebbe tenerezze per i ceti popolari, come testimonia il piombo con cui l’esercito regio rispose alla richiesta di più equi patti agrari da parte dei braccianti riuniti attorno ai Fasci Siciliani (strage di Caltavuturo, 1893) o le cannonate di Bava Beccaris in occasione della rivolta per il pane, nel 1898, a Milano (80 morti).
Del resto, questi erano i metodi di dialogo sociale dei governi sabaudi, già ben sperimentati durante la repressione del cosiddetto “brigantaggio” meridionale, metodi che ritorneranno in auge nel corso delle guerre imperialiste italiane dei primi tre decenni del XX secolo e di cui faranno le spese, stavolta, le inermi popolazioni libiche ed etiopiche.
Nel 1893, a causa del peggioramento della situazione economica e delle agitazioni operaie, si avvertì l’esigenza di studiare i riflessi sull’occupazione dei moderni sistemi di collocamento e della regolamentazione dell’orario di lavoro.
Sorgevano le prime Camere del Lavoro, che, come quella di Milano, fungevano anche da ufficio di collocamento. Si rafforzava anche il movimento contadino con la nascita della Federterra e nel 1906 della Confederazione Generale del Lavoro, che fece della lotta alla disoccupazione un obiettivo primario anche per sostenere la propria politica salariale che sarebbe risultata indebolita dalla competizione tra occupati e disoccupati.
In mancanza di strumenti omogenei e sistematici di rilevazione, l’incidenza della disoccupazione non poteva essere valutata in modo efficace. La prevalenza in campo economico delle teorie marginaliste, secondo cui la disoccupazione è una costituente strutturale dell’economia capitalistica, il cui governo è affidato alla libera fluttuazione dei salari in base alle leggi della domanda e dell’offerta, troncava ogni possibilità di analizzare il fenomeno in modo scientifico.
Tuttavia l’emanazione dell’enciclica Rerum Novarum, il forte impulso dato all’associazionismo cattolico e l’influsso culturale del nascente Partito Socialista spinsero alcuni economisti, come Francesco Saverio Nitti o Carlo Francesco Ferraris, ad approfondire il sistema delle assicurazioni sociali istituito nella Germania guglielmina (“la prima patria dello Stato sociale europeo” afferma giustamente Alberti a pag. 35), dove era forte l’influsso del Partito Socialdemocratico. Si fece così strada, anche in Italia, l’idea di un sistema assicurativo obbligatorio contro la disoccupazione.
La prima guerra mondiale ebbe sul gracile sistema produttivo italiano gli effetti di uno shock. Lo sforzo bellico richiedeva la piena utilizzazione degli impianti e la pianificazione della produzione. La sostituzione degli uomini richiamati alle armi ebbe due effetti, quello di giungere a un massiccio incremento dell’occupazione, anche di quella femminile. Le donne così entravano massicciamente nelle fabbriche e avviavano un processo di emancipazione, economica e sociale, dal patriarcato dominante. Si registrarono anche le prime forme di sostegno al reddito da parte dello Stato, una specie di cassa integrazione ante litteram che si attivava nel caso in cui si dovesse temporaneamente interrompere la produzione. Si realizzò così un vero e proprio “stato sociale” di guerra.
Il dopoguerra fu durissimo, perché la concomitanza della smobilitazione e della cessazione della produzione bellica lasciarono milioni di uomini nell’impossibilità di trovare un lavoro. La crisi economica, la disoccupazione diffusa, l’esempio di quanto era accaduto in Russia e di quanto stava accadendo in Germania, dove gli spartachisti si stavano sollevando contro il governo reazionario guidato da Friedrich Ebert, alimentarono la speranza e l’illusione dell’apertura di una via rivoluzionaria anche in Italia (il “biennio rosso” 1919-1920). In quegli stessi anni con il governo Nitti vennero introdotti numerosi istituti tipici dello Stato sociale, quali l’indennità di licenziamento, l’assicurazione obbligatoria contro l’invalidità e la vecchiaia, l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione e la cassa nazionale per le assicurazioni sociali, l’ufficio nazionale per il collocamento, e introdotto il libretto di lavoro.
Intanto maturava la svolta reazionaria. Il fascismo liquidò rapidamente le vestigia dello stato liberale e, mentre le grandi imprese industriali si sviluppavano anche grazie all’introduzione dei nuovi modelli organizzativi tayloristici e fordisti importati dagli Stati Uniti, la classe operaia pativa bassi salari e un maggiore sfruttamento. Né meglio andava nel settore agricolo. Il fascismo smantellò anche quel po’ di stato sociale che era stato introdotto dal riformismo nittiano e iniziò la costruzione dello stato corporativo, mettendo fuori legge il sindacato e vietando lo sciopero. La disoccupazione ebbe un’impennata negli anni 1926 e 1927 a causa dell’improvvida decisione di rivalutare la lira, a cui si accompagnò un aumento dei prezzi con effetti devastanti sulle classi lavoratrici. Fu in queste condizioni che l’Italia affrontò la grande crisi del 1929. La politica maschilista del regime tendeva a scoraggiare l’impiego femminile, sicché la disoccupazione femminile, dato che alla donna era destinato soltanto il compito di moglie e madre, non era oggetto di alcuna attenzione. Le politiche del lavoro del regime si sostanziavano del resto in alti tassi di disoccupazione e bassi salari, aggravate dalla martellante propaganda tendente ad elevare il tasso di natalità. Le teorie di Keynes (nel 1936 era uscita la sua Teoria Generale) erano bandite dal mondo accademico italiano e condannate senza appello come eretiche e addirittura “comuniste”.
L’Istituto Centrale di Statistica (ISTAT), cui fu affidato il compito di censire periodicamente la popolazione italiana e in via sussidiaria effettuare ricerche sui livelli occupazionali, si sforzò di definire il perimetro della “disoccupazione” inaugurando una casistica in gran parte valida ancora oggi.
La seconda guerra mondiale, pur tra tremende distruzioni del patrimonio artistico e immobiliare, risparmiò quasi interamente gli impianti industriali più importanti e questo agevolò la ripresa nel secondo dopoguerra. La disoccupazione però raggiunse picchi che non sarebbero più stati raggiunti; sempre più accentuato era l’esodo dalle campagne. L’incremento del terziario, che negli ultimi anni del XXI secolo rappresenta quasi il 70% della forza lavoro nazionale, ebbe origine in quel periodo.
La disoccupazione in Italia colpisce, oggi come ieri, i giovani (nel 2013 oltre il 40%), le donne, i cittadini del sud, dove la disoccupazione è quasi sempre di lunga durata. L’esistenza di due Italie si coglie in pieno da questo dato: al sud il tasso di disoccupazione toccava a fine 2013 oltre il 20% contro il 7% del nord. Pesa sul tasso di disoccupazione meridionale il numero sempre crescente degli “scoraggiati”, di quelli cioè che non cercano più lavoro, i Neet (Not in education, employment or training). Sfugge poi a ogni controllo la fascia del lavoro nero, sia essa un’attività a tempo parziale che si affianca a un lavoro regolare, oppure un’occupazione totalmente sommersa.
Nel 1979 l’Italia entrava nel “serpente monetario”, il “Sistema Monetario Europeo”, e iniziava una politica di contenimento salariale, accettata dal Sindacato nella speranza – rivelatasi fallace – di ottenere per questa via un incentivo per le aziende ad assumere nuova mano d’opera. Maturava in questo lasso di tempo il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, che consegnava all’arbitrio dei mercati la stabilità finanziaria del paese. In questo quadro, i trattati europei, fortemente permeati di filosofia neo-liberista, erodevano fondamentali principi costituzionali. La deregolamentazione dei rapporti di lavoro iniziata con il pacchetto Treu, che introdusse il lavoro interinale, proseguita con la legge Biagi, e poi con la legge Fornero, ha raggiunto il suo apice con il cosiddetto Jobs Act, che tradotto in lingua italiana vuol dire “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
Un interessante paragrafo del volume (l’ultimo) descrive gli strumenti statistici di misurazione della disoccupazione in Italia. Di recente, in seguito all’allineamento dei metodi di ricerca a quelli europei, sono stati adottati criteri più restrittivi per definire lo stato di disoccupazione e al tradizionale tasso di disoccupazione si è aggiunto il “tasso di mancata partecipazione” che include anche gli “scoraggiati” ovvero coloro che pur non cercando attivamente un lavoro sono tuttavia disponibili a lavorare. L’autore riferisce in proposito che nel 2014 il tasso di mancata partecipazione ha raggiunto il 22,9% contro il 12,7% del tasso di disoccupazione. Alberti conclude il suo libro con queste parole, pienamente condivise da chi scrive: “il trattato di Maastricht confligge apertamente con quanto stabilito dalla Costituzione italiana in materia di diritto al lavoro e di intervento pubblico in economia impedendo una politica per la diminuzione della disoccupazione e il rilancio dell’economia italiana”.
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