
DENTRO E CONTRO IL POST-MODERNO.
In morte di E.L. Doctorow
di Salvatore Cavaleri 24 luglio 2015
In morte di E.L. Doctorow
di Salvatore Cavaleri 24 luglio 2015
Lo
scorso 22 luglio, all'età di 84 anni, è morto lo scrittore E. L. Doctorow. Verrebbe
da dire che se esiste un'accezione positiva da dare alla parola postmoderno,
questa è da riferire a Doctorow. Magari non solo a lui, certo. Ci sono stati
altri giganti come Don De Lillo e Kurt Vonnegut, per citarne un paio, ma i
libri di Doctorow hanno rappresentato un tentativo prezioso di sottrarsi ad un
uso labirintico e barocco del
linguaggio, senza per questo rinunciare a giocare con i generi e compiere
esercizi di stile.
Non a caso Fredric Jameson, che del postmoderno resta uno dei maggiori critici, gli dedicò alcune pagine entusiaste del suo saggio più famoso, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo:
“Doctorow è il poeta epico della scomparsa del passato radicale americano, della soppressione delle correnti e dei movimenti della tradizione radicale americana: nessun simpatizzante della sinistra può leggere questi splendidi romanzi senza struggimento, che è il modo più autentico di affrontare i dilemmi politici di oggi. Ma il dato più interessante sul piano culturale è che Doctorow ha dovuto comunicare questi temi formalmente e, più ancora, ha dovuto elaborare la sua opera mediante quella stessa logica culturale del postmoderno che costituisce il segno e il simbolo del suo dilemma”.
Doctorow sta, in qualche modo, dentro e contro il postmoderno. Non segue le mode e non c'è mai alcun segno di compiacimento formale. Ciononostante, c'è un'attenzione geometrica per le regole del racconto, tanto che alcune pagine chiedono quasi di essere lette ad alta voce, per quanto sono stilisticamente impeccabili. Ma la narrazione non va mai a discapito della trama, l'affabulazione non serve a nascondere, ma a disvelare storie, anzi, la Storia.
Il romanzo storico, infatti, è stato il suo campo di battaglia. Ha raccontato i grandi momenti della storia americana, facendo intrecciare, come poi avrebbe fatto James Ellroy, la storia ufficiale con le storie piccole. Le atmosfere di un'epoca sono rese attraverso un incrocio di prospettive che ha, evidentemente, un intenzione tanto poetica quanto politica.
Pensiamo a Ragtime (la cui trasposizione cinematografica di Sidney Lumet non restituisce la complessità di livelli), in cui i conflitti sociali e le discriminazioni razziali dell'America dei primi del novecento vengono raccontati attraverso le vicende di una lunga serie di personaggi letterari, che si intrecciano con quelle di Henry Ford, J.P. Morgan, Emma Goldman e perfino di Houdini. Perché le grandi trasformazioni sociali hanno sempre ripercussioni sulla miriade di vicende singolari, che a loro volta, in modo circolare, le determinano. Salta, in questo modo, la linea di separazione tra macro storia e micro storia, proprio perché è esattamente questa polifonia a raccontare in profondità il senso ultimo degli eventi.
Questi tratti sono ancora più evidenti in La marcia del 2005, in cui viene raccontata la traversata delle truppe abolizioniste dalla Georgia alla Carolina, all'apice della guerra civile americana. Qui troviamo le gesta del generale William Tecumseh Sherman alternarsi a quelle di una ventina di personaggi, tra cui quelle di Wrede Sartorius, medico militare che ritroveremo anche in L'acquedotto di New York, inevitabilmente quelle di Abramo Lincoln, ma soprattutto quelle di Pearl, ragazzina né bianca né nera, né bambina né donna, figlia di una schiava e di un possidente, vero controcanto alla storia ufficiale di cui generali e presidenti sono l'emblema.
La marcia è un atto d'accusa contro la brutalità e l'insensatezza di ogni guerra, ma ancor di più contro il cinismo e l'ipocrisia di quei burocrati che, senza sporcarsi le mani, creano altrettante atrocità di cannoni e fucili.
“E così dalla guerra si era passati alle parole. Ora la guerra riguardava la terminologia e veniva combattuta sopra un tavolo. La contesa si sviluppava a colpi di frasi. Trinceramenti e assalti, squilli di tromba e rulli di tamburi, marce, imboscate, incendi e battaglie campali si erano d'incanto trasformati in verbi e sostantivi.
“Tutto è diventato molto silenzioso”, disse Sherman a Johnston, il quale, non capendo, alzò la testa per ascoltare.
Né mitraglia né palle di cannone, la guerra è diventata il linguaggio che si parla qui, le parole scritte, pensò Sherman.
Il linguaggio è la guerra con altri mezzi.”
Questa frase nasconde in qualche modo anche un dichiarazione poetica. Perché dice molto sulla guerra ma, evidentemente, dice altrettanto sul linguaggio. Sulla sua potenza e sulla sua delicatezza. Doctorow ci parla della narrazione come di un campo minato, in cui le parole vanno usate con cautela, in cui è necessaria una precisione chirurgica nel trattare la potenza esplosiva delle parole.
Questi sono i tratti comuni a tutta la produzione di Doctorow, li ritroviamo nei suoi racconti raccolti in Storie da una dolce terra, come nei suoi altri classici Billy Bathgate, L'acquedotto di New York o Homer & Langly, tutti libri ambientati nella Green mela, la sua città. Billy Bathgate la racconta attraverso i sobborghi, L'acquedotto di New Yorky ne ricostruisce possibili trame oscure, Homer & Langly invece è un tentativo di insidiare i confini della letteratura. Vengono ripresi due personaggi realmente esistiti, i fratelli Collyer, ma vengono ricollocati in un'altra epoca e resi testimoni di altre vicende.
Si forzano i confini perché Langly, tornato dalla guerra tormentato dagli incubi, e Homer, Omero, il narratore cieco, vivono insieme a New York, la città del romanzo contemporaneo per eccellenza, ma in una condizione di autoreclusione dentro una casa dalla quale non usciranno mai, intrappolati in una bulimia accumulativa che rappresenterà la propria condanna. Al tempo stesso, però, saranno testimoni paradossali di tutto ciò che avviene fuori da quel rifugio diventato galera.
Persino nel suo ultimo La coscienza di Andrew, incentrato sulle tragiche vicende di uno scienziato cognitivo e colmo di interrogativi propri delle sfide tra neuroscenziati e psicanalisti, c'è ben poco di intimista e alla fine il libro si rivela un tentativo di indagare l'inconscio collettivo di una nazione dopo l'11 settembre.
Forse, l'unico calzino spaiato, l'unico libro in cui Doctorow abbandona i territori a lui più consueti è La città di Dio. Un libro duro da leggere, faticoso, pieno di frammenti, in cui ci si perde di continuo. Al tempo stesso un romanzo doloroso, tanto (immagino) per chi lo ha scritto, quanto (di certo) per chi lo ha letto.
E' un libro sulla crisi di vocazione: c'è uno scrittore che ha perso il senso della scrittura che si imbatte in un prete che, arrivando a porsi le domande ultime sulla fede, finisce, inevitabilmente, per lasciare la Chiesa. Queste vicende si incrociano con incipit di romanzi abortiti, storie che riemergono dall'oblio, sottotrame di spionaggio e dispute di carattere teologico.
La città di Dio è estremamente doloroso perché è un libro sulla resa dei conti, sul rispondere nel modo più scomodo possibile al crollo delle certezze, cioè abbandonando i ruoli e le posture che sarebbe semplice continuare a reggere, rifiutando le risposte convenzionali e andando al fondo nelle questioni definitive, anche quando questo percorso può rivelarsi tutt'altro che piacevole.
In Italia, per qualche strano motivo, Doctorow ha sempre avuto un'accoglienza abbastanza distratta. Rispettato dalla critica, ma quasi del tutto sconosciuto al grande pubblico. Basti pensare che a parte i romanzi degli ultimi anni tutto il resto della sua produzione è fuori catalogo ormai da tempo.
Nelle scorse settimane il Corriere della sera ha proposto sul proprio sito un sondaggio nel quale si domandava quale fosse il più grande scrittore americano vivente. Con grande rammarico ho dovuto constatare che tra i vari Philip Roth, Jonathan Franzen e Richard Ford non fosse proposta l'opzione Doctorow.
Solo pochi giorni dopo ho trovato, nella colonna accanto, la triste notizia che annunciava che Doctorow non rientrava più nella categoria scrittori americani viventi.
Ci toccherà, allora, ricordarlo come uno tra i più grandi scrittori americani di sempre.
Non a caso Fredric Jameson, che del postmoderno resta uno dei maggiori critici, gli dedicò alcune pagine entusiaste del suo saggio più famoso, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo:
“Doctorow è il poeta epico della scomparsa del passato radicale americano, della soppressione delle correnti e dei movimenti della tradizione radicale americana: nessun simpatizzante della sinistra può leggere questi splendidi romanzi senza struggimento, che è il modo più autentico di affrontare i dilemmi politici di oggi. Ma il dato più interessante sul piano culturale è che Doctorow ha dovuto comunicare questi temi formalmente e, più ancora, ha dovuto elaborare la sua opera mediante quella stessa logica culturale del postmoderno che costituisce il segno e il simbolo del suo dilemma”.
Doctorow sta, in qualche modo, dentro e contro il postmoderno. Non segue le mode e non c'è mai alcun segno di compiacimento formale. Ciononostante, c'è un'attenzione geometrica per le regole del racconto, tanto che alcune pagine chiedono quasi di essere lette ad alta voce, per quanto sono stilisticamente impeccabili. Ma la narrazione non va mai a discapito della trama, l'affabulazione non serve a nascondere, ma a disvelare storie, anzi, la Storia.
Il romanzo storico, infatti, è stato il suo campo di battaglia. Ha raccontato i grandi momenti della storia americana, facendo intrecciare, come poi avrebbe fatto James Ellroy, la storia ufficiale con le storie piccole. Le atmosfere di un'epoca sono rese attraverso un incrocio di prospettive che ha, evidentemente, un intenzione tanto poetica quanto politica.
Pensiamo a Ragtime (la cui trasposizione cinematografica di Sidney Lumet non restituisce la complessità di livelli), in cui i conflitti sociali e le discriminazioni razziali dell'America dei primi del novecento vengono raccontati attraverso le vicende di una lunga serie di personaggi letterari, che si intrecciano con quelle di Henry Ford, J.P. Morgan, Emma Goldman e perfino di Houdini. Perché le grandi trasformazioni sociali hanno sempre ripercussioni sulla miriade di vicende singolari, che a loro volta, in modo circolare, le determinano. Salta, in questo modo, la linea di separazione tra macro storia e micro storia, proprio perché è esattamente questa polifonia a raccontare in profondità il senso ultimo degli eventi.
Questi tratti sono ancora più evidenti in La marcia del 2005, in cui viene raccontata la traversata delle truppe abolizioniste dalla Georgia alla Carolina, all'apice della guerra civile americana. Qui troviamo le gesta del generale William Tecumseh Sherman alternarsi a quelle di una ventina di personaggi, tra cui quelle di Wrede Sartorius, medico militare che ritroveremo anche in L'acquedotto di New York, inevitabilmente quelle di Abramo Lincoln, ma soprattutto quelle di Pearl, ragazzina né bianca né nera, né bambina né donna, figlia di una schiava e di un possidente, vero controcanto alla storia ufficiale di cui generali e presidenti sono l'emblema.
La marcia è un atto d'accusa contro la brutalità e l'insensatezza di ogni guerra, ma ancor di più contro il cinismo e l'ipocrisia di quei burocrati che, senza sporcarsi le mani, creano altrettante atrocità di cannoni e fucili.
“E così dalla guerra si era passati alle parole. Ora la guerra riguardava la terminologia e veniva combattuta sopra un tavolo. La contesa si sviluppava a colpi di frasi. Trinceramenti e assalti, squilli di tromba e rulli di tamburi, marce, imboscate, incendi e battaglie campali si erano d'incanto trasformati in verbi e sostantivi.
“Tutto è diventato molto silenzioso”, disse Sherman a Johnston, il quale, non capendo, alzò la testa per ascoltare.
Né mitraglia né palle di cannone, la guerra è diventata il linguaggio che si parla qui, le parole scritte, pensò Sherman.
Il linguaggio è la guerra con altri mezzi.”
Questa frase nasconde in qualche modo anche un dichiarazione poetica. Perché dice molto sulla guerra ma, evidentemente, dice altrettanto sul linguaggio. Sulla sua potenza e sulla sua delicatezza. Doctorow ci parla della narrazione come di un campo minato, in cui le parole vanno usate con cautela, in cui è necessaria una precisione chirurgica nel trattare la potenza esplosiva delle parole.
Questi sono i tratti comuni a tutta la produzione di Doctorow, li ritroviamo nei suoi racconti raccolti in Storie da una dolce terra, come nei suoi altri classici Billy Bathgate, L'acquedotto di New York o Homer & Langly, tutti libri ambientati nella Green mela, la sua città. Billy Bathgate la racconta attraverso i sobborghi, L'acquedotto di New Yorky ne ricostruisce possibili trame oscure, Homer & Langly invece è un tentativo di insidiare i confini della letteratura. Vengono ripresi due personaggi realmente esistiti, i fratelli Collyer, ma vengono ricollocati in un'altra epoca e resi testimoni di altre vicende.
Si forzano i confini perché Langly, tornato dalla guerra tormentato dagli incubi, e Homer, Omero, il narratore cieco, vivono insieme a New York, la città del romanzo contemporaneo per eccellenza, ma in una condizione di autoreclusione dentro una casa dalla quale non usciranno mai, intrappolati in una bulimia accumulativa che rappresenterà la propria condanna. Al tempo stesso, però, saranno testimoni paradossali di tutto ciò che avviene fuori da quel rifugio diventato galera.
Persino nel suo ultimo La coscienza di Andrew, incentrato sulle tragiche vicende di uno scienziato cognitivo e colmo di interrogativi propri delle sfide tra neuroscenziati e psicanalisti, c'è ben poco di intimista e alla fine il libro si rivela un tentativo di indagare l'inconscio collettivo di una nazione dopo l'11 settembre.
Forse, l'unico calzino spaiato, l'unico libro in cui Doctorow abbandona i territori a lui più consueti è La città di Dio. Un libro duro da leggere, faticoso, pieno di frammenti, in cui ci si perde di continuo. Al tempo stesso un romanzo doloroso, tanto (immagino) per chi lo ha scritto, quanto (di certo) per chi lo ha letto.
E' un libro sulla crisi di vocazione: c'è uno scrittore che ha perso il senso della scrittura che si imbatte in un prete che, arrivando a porsi le domande ultime sulla fede, finisce, inevitabilmente, per lasciare la Chiesa. Queste vicende si incrociano con incipit di romanzi abortiti, storie che riemergono dall'oblio, sottotrame di spionaggio e dispute di carattere teologico.
La città di Dio è estremamente doloroso perché è un libro sulla resa dei conti, sul rispondere nel modo più scomodo possibile al crollo delle certezze, cioè abbandonando i ruoli e le posture che sarebbe semplice continuare a reggere, rifiutando le risposte convenzionali e andando al fondo nelle questioni definitive, anche quando questo percorso può rivelarsi tutt'altro che piacevole.
In Italia, per qualche strano motivo, Doctorow ha sempre avuto un'accoglienza abbastanza distratta. Rispettato dalla critica, ma quasi del tutto sconosciuto al grande pubblico. Basti pensare che a parte i romanzi degli ultimi anni tutto il resto della sua produzione è fuori catalogo ormai da tempo.
Nelle scorse settimane il Corriere della sera ha proposto sul proprio sito un sondaggio nel quale si domandava quale fosse il più grande scrittore americano vivente. Con grande rammarico ho dovuto constatare che tra i vari Philip Roth, Jonathan Franzen e Richard Ford non fosse proposta l'opzione Doctorow.
Solo pochi giorni dopo ho trovato, nella colonna accanto, la triste notizia che annunciava che Doctorow non rientrava più nella categoria scrittori americani viventi.
Ci toccherà, allora, ricordarlo come uno tra i più grandi scrittori americani di sempre.
Lascia un commento