
IN TEORIA
DAL PENSIERO DELLA GUERRA FREDDA AL FEMMINISMO INTEGRATO (PASSANDO PER L'AMERICA LATINA)
Silvia Federici a colloquio con George Souvlis e Ankica Čakardić
27 gennaio 2017
Seconda parte
DAL PENSIERO DELLA GUERRA FREDDA AL FEMMINISMO INTEGRATO (PASSANDO PER L'AMERICA LATINA)
Silvia Federici a colloquio con George Souvlis e Ankica Čakardić
27 gennaio 2017
Seconda parte
In un libro che hai curato, Enduring Western Civilization, fai tua la tesi per cui il Canone Occidentale si sarebbe formato di pari passo all'esclusione dell’ "altro" inteso in senso sessuale, di genere, etnico, religioso e "razziale". Un processo strettamente collegato alla formazione delle categorie analitiche occidentalizzate attraverso le quali noi percepiamo il mondo, che ha influenzato anche le scienze sociali ed i concetti che esse utilizzano al fine di comprendere la realtà sociale. Vivek Chibber - con l'obiettivo di decostruire proprio quella Teoria Postcoloniale che ha articolato critiche radicali del Canone Occidentale - nel suo ultimo libro Postcolonial Theory and the Specter of Capital avanza una energica difesa di quegli approcci teorici che enfatizzano categorie universali come ‘capitalismo’ e ‘classe’. Chibber, in altre parole, argomenta in favore di una permanente rilevanza del marxismo, contro alcuni dei suoi critici più radicali. Cosa pensi di questa linea argomentativa e di tutta la questione dell'uso di categorie universali per svolgere la critica del capitalismo ? Si può trovare un equilibrio tra critica dell’Occidente e utilizzo di un repertorio di concetti che nascono proprio in Occidente, oppure le due cose si escludono a vicenda?
Non mi va di commentare testi che non ho letto o non consulto da tempo. Pertanto mi limito a qualche considerazione in merito al concetto di “Occidente” e all’ipotizzata necessità di categorie universali. Come ho, insieme ad altri, mostrato in Enduring Western Civilization, i concetti di Occidente e Occidentale sono prodotti della Guerra Fredda: in seguito alla rivoluzione bolscevica, ‘occidentale’ è divenuto sinonimo di capitalista, tecnologicamente sviluppato, innovativo eccetera, laddove il comunismo è stato “razzializzato”, raffigurato come 'asiatico', visto come arretrato e incapace di sviluppo. Per questo motivo io non utilizzo mai il termine 'occidentale', che cela oltretutto i rapporti di classe, occultando le relazioni sociali antagonistiche all’interno di Europa e Stati Uniti - il cosiddetto Occidente - e analogamente i rapporti di classe / antagonistici all’interno dell’Africa e dell’America Latina. Occidente e Occidentale sono termini politici, indifendibili nel loro contenuto, che servono a rappresentare una politica globale formata da mondi diametralmente opposti, all’interno dei quali non esistono divisioni né gerarchie, e dove s’immagina prevalga l’interesse comune.
Per quanto riguarda le categorie universali, posso dire che evidentemente abbiamo bisogno di un certo livello di astrazione nelle nostre analisi, ma non possiamo comprendere il capitalismo e la storia dell'economia globale se non lo guardiamo dal punto di vista di soggetti differenti. In una società che è il risultato di secoli di costruzione di gerarchie attraverso esperienze estremamente diverse fra loro, l'idea di un punto di vista universale è fallimentare. Il capitalismo non può essere compreso nella sua totalità se non lo si affronta dal punto di vista degli schiavi, dei colonizzati, così come dal punto di vista dei lavoratori dell'industria, dal punto di vista delle donne proletarie, così come degli uomini proletari, e direi anche dal punto di vista dei bambini e, naturalmente, da un punto di vista ecologico.
Cosa pensi dell’attuale situazione dei profughi e della nuova ondata del nazionalismo e dell'ideologia nazionale cui stiamo assistendo in Europa e in altre parti del mondo? Come possiamo combattere contro queste tendenze?
È impossibile esprimere in poche parole il dolore e l'indignazione che sento nel vedere ciò che i governi e tante persone in Europa stanno facendo ai profughi delle guerre che gli stessi governi hanno finanziato. È spaventoso vedere che anno dopo anno, quasi ogni settimana, barche che trasportano i profughi fanno naufragio nel Mediterraneo e centinaia e centinaia di persone perdono la vita, tanto che il Mediterraneo è oggi un grande cimitero; e questo sta accadendo davanti agli occhi di tutti, non dentro invisibili campi di concentramento; per non parlare dei "centri di accoglienza”, che sono carceri in cui chi è privo di documenti viene gettato e trattenuto, per periodi indefiniti e in condizioni miserevoli.
Ovviamente è una sciagura che la risposta a tutto ciò di tanti, anche tra i lavoratori, non sia la solidarietà, ma il rifiuto, la persecuzione, le posture nazionalistiche. È particolarmente preoccupante in quanto si tratta spesso di una guerra tra poveri, dacché spesso quanti vogliono innalzare barriere sono le stesse persone che lottano per sopravvivere, immaginando di potersi difendere non attraverso la solidarietà con i profughi, ma attraverso una politica di esclusione. Vorrei aggiungere però che abbiamo bisogno di saperne di più, in merito al neonazista che aggredisce i profughi: ad esempio in Germania ci sono prove di complicità da parte di autorità e polizia, al punto che possiamo pensare all’impennata neonazista come a uno strumento di controllo dei profughi, che possono tornare utili come forza lavoro a basso costo, ma solo nella misura in cui accettano di restare in fondo alla scala sociale.
Di recente ci sono stati sviluppi politici interessanti nel mondo occidentale, come la candidatura di Bernie Sanders per il Partito Democratico, l’elezione di Jeremy Corbyn a leader del partito laburista, la vittoria di Syriza nelle elezioni in Grecia e l’ascesa di Podemos in Spagna. C’è qualche speranza che questi sviluppi portino a una significativa trasformazione sociale? La sinistra di oggi deve organizzarsi intorno alla strategia di "occupare" le funzioni sociali dello Stato, ovvero auto-organizzarsi in chiave spontaneista (ad esempio nella lotta per i beni comuni), al di fuori della politica dei partiti?
Non è facile rispondere a questa domanda. Abbiamo di recente saputo – e la cosa ha sorpreso parecchio i più - che gli zapatisti intendono partecipare alle elezioni presidenziali del 2018 attraverso la candidatura di una donna indigena. Non è che abbiano cambiato il loro orientamento politico: ma a quanto pare sono talmente assediati che in questo modo cercano di spezzare l'accerchiamento e di rendere consapevoli settori più ampi della popolazione in merito al massiccio, violento attacco che stanno sperimentando nel periodo successivo alla morte di Galeano. Detto questo, è evidente che i governi di sinistra e tutta la politica del progressismo, in Europa come in America Latina, sono in crisi. Pochi si sono mobilitati in Brasile per esigere la reintegrazione di Dilma Rousseff, nonostante molti condannassero il suo impeachment vedendovi una mossa fraudolenta, quasi un colpo di stato. Il bilancio dei governi progressisti ci dice che nel migliore dei casi hanno alleviato alcune delle forme più estreme di povertà, ma non hanno aggredito il nodo della produzione, non hanno attuato la riforma reclamata dai movimenti sociali che li hanno portati al potere, non hanno frenato la violenza dell'esercito e della polizia. Forse un discorso diverso si può fare per il chavismo, in quanto maggiormente rispettoso delle forze popolari: anch’esso però si è basato sull’estrattivismo, che ha reso il paese dipendente dagli alti e bassi del mercato globale. E che dire di Bernie Sanders, che passa mesi e mesi a spiegare perché i suoi seguaci non debbono votare per Clinton, e finisce col dire che non c’è alternativa al votarla? Una vera lezione di cinismo.
Io non definisco la politica dei beni comuni "spontaneista". Ci sono al mondo assetti comunitaristi con centinaia di anni di storia alle spalle. E non c'è chissà quanto spontaneismo nella difesa dei beni comuni in diverse parti del mondo, allorché si tratta di affrontare la violenza di paramilitari ed eserciti, nonché delle guardie giurate delle aziende. Chiaramente non bisogna essere dogmatici, in merito. A livello locale è spesso possibile esercitare una certa influenza sui governi. Vediamo però che i centri in cui vengono prese le decisioni diventano sempre più lontani, sempre più fuori dalla portata della gente. Assistiamo altresì alla formazione di una struttura di potere internazionale che si sostituisce costantemente al potere dello stato nazionale, come è nel caso dell'UE.
Con la costante interferenza del FMI e della Banca Mondiale nella politica statuale, con particolare, ma non esclusivo, riferimento al 'terzo mondo', vediamo un proliferare di "accordi di libero scambio" - come il TTP[1] o il TTIP (fortunatamente non ancora firmato) – volti a stabilire il dominio diretto del capitale sull'economia globale, in modo che nessuna decisione a livello economico possa esser presa senza l’approvazione delle grandi imprese, e la sovranità nazionale venga del tutto meno. In tali condizioni come si potrebbe essere ottimisti riguardo a eventuali governi di sinistra o radicali?
Un'ondata di cambiamento ha attraversato l'America Latina all’inizio del XXI secolo, spazzando via i bipartitismi neoliberisti, in nome della rifondazione dello stato sulla base di un'ampia partecipazione e di costituzioni democraticamente elaborate. Aspetto cruciale di queste nuove realtà politiche progressiste sono i nuovi movimenti sociali, che esigono tanto i diritti socio-politici che quelli economici. E tuttavia tra i due aspetti della rivendicazione popolare sono emerse contraddizioni, il più delle volte a motivo del modello di sviluppo seguito dai nuovi governi. Più precisamente, la maggior parte dei leader degli stati in oggetto, in particolare Correa in Ecuador e Morales in Bolivia, hanno espresso preoccupazione per la "Pachamama" (Madre Terra) e adottato il linguaggio del "Socialismo del XXI secolo" promosso dal presidente venezuelano Chávez e dal suo successore, Nicolas Maduro; in pratica però le rivendicazioni espresse dai movimenti sono state disattese, ad esempio attraverso la privatizzazione delle risorse naturali. Credi che queste tensioni possano essere risolte in modo tale da promuovere gli interessi delle classi lavoratrici in America Latina?
In Ecuador sono stata lo scorso aprile e ha avuto parecchi incontri con gruppi ecologisti e di donne, che mi hanno parlato con voce unanime: perché, si chiedono, la sinistra in Europa e negli Stati Uniti parla di Correa come un radicale, quando la sua politica è pienamente in linea con il neoliberismo? Perché mai, dato che, più di ogni precedente governo, quello di Correa è partito all’attacco della terra delle popolazioni indigene e mostra quotidianamente nelle sue scelte politiche il più completo disprezzo per le donne? Dopo esser stato portato al potere dal movimento delle popolazioni indigene, Correa ha introdotto nella costituzione del paese il principio che anche la natura ha i suoi diritti, e a tutta prima sembrava deciso a non sfruttare oltremodo le sue risorse petrolifere; ma da allora ha cambiato idea, ora sta promuovendo gli investimenti esteri e le perforazioni nel parco del Yasuni. Non sorprende perciò che si sia più volte scontrato con le stesse popolazioni indigene che una volta lo sostenevano, e che il suo governo sia ampiamente criticato per lo sprezzo mostrato nei confronti dei movimenti dal basso, l’autoritarismo e il sostegno al potere delle corporations. Anche Evo Morales parla di Pachamama quando è in viaggio all'estero, ma persegue una analoga politica estrattivista, che oltre a distruggere terre, foreste, fiumi, sta creando una forma di colonialismo interno. Questo non vuol dire che non ci sono gruppi di lavoratori che possono sostenere la sua politica, dacché estrattivismo significa salario per alcuni, sebbene al prezzo della distruzione dei mezzi di sostentamento di molti, così come in diverse comunità ci sono giovani lavoratori che approvano il fracking.
Devo dire che vi è un ampio divario tra come questi governi vengono visti da teorici radicali latino-americani come Luis Tapia, Raul Zibechi, Raquel Gutierrez, Silvia Rivera Cusicanqui e molti altri, da un lato; e l’immagine che tanti, a sinistra, se ne fanno negli Stati Uniti e in Europa, dall’altro.
Cosa ci dici in merito alle elezioni USA? Cosa pensi delle posizioni politiche di Hilary Clinton riguardo le donne? Lei ama presentarsi come “femminista” e appassionata paladina dei diritti delle donne..
Le elezioni USA sono un triste spettacolo, le cui pericolose conseguenze sono già evidenti, se è vero che decine di gruppi di suprematisti bianchi sono emersi in superficie sentendosi legittimati dai pronunciamenti di Trump.
È demoralizzante vedere settori della classe operaia statunitense andar dietro a uno come Trump. Ma ovviamente Clinton - con i suoi legami con Wall Street, la CIA, la macchina bellica - non è un'alternativa. E può recitare la parte della femminista solo perché dopo gli anni '70 il femminismo è stato istituzionalizzato, in modo che le donne potessero essere integrate nell'economia globale come manodopera a basso costo.
[traduzione di Angelo Foscari]
(qui la prima parte dell'intervista)
[1] L’intervista si è svolta immediatamente prima delle elezioni USA, e dunque precede di un paio di mesi il ritiro degli USA dal TTP [N.d.R.]
Non mi va di commentare testi che non ho letto o non consulto da tempo. Pertanto mi limito a qualche considerazione in merito al concetto di “Occidente” e all’ipotizzata necessità di categorie universali. Come ho, insieme ad altri, mostrato in Enduring Western Civilization, i concetti di Occidente e Occidentale sono prodotti della Guerra Fredda: in seguito alla rivoluzione bolscevica, ‘occidentale’ è divenuto sinonimo di capitalista, tecnologicamente sviluppato, innovativo eccetera, laddove il comunismo è stato “razzializzato”, raffigurato come 'asiatico', visto come arretrato e incapace di sviluppo. Per questo motivo io non utilizzo mai il termine 'occidentale', che cela oltretutto i rapporti di classe, occultando le relazioni sociali antagonistiche all’interno di Europa e Stati Uniti - il cosiddetto Occidente - e analogamente i rapporti di classe / antagonistici all’interno dell’Africa e dell’America Latina. Occidente e Occidentale sono termini politici, indifendibili nel loro contenuto, che servono a rappresentare una politica globale formata da mondi diametralmente opposti, all’interno dei quali non esistono divisioni né gerarchie, e dove s’immagina prevalga l’interesse comune.
Per quanto riguarda le categorie universali, posso dire che evidentemente abbiamo bisogno di un certo livello di astrazione nelle nostre analisi, ma non possiamo comprendere il capitalismo e la storia dell'economia globale se non lo guardiamo dal punto di vista di soggetti differenti. In una società che è il risultato di secoli di costruzione di gerarchie attraverso esperienze estremamente diverse fra loro, l'idea di un punto di vista universale è fallimentare. Il capitalismo non può essere compreso nella sua totalità se non lo si affronta dal punto di vista degli schiavi, dei colonizzati, così come dal punto di vista dei lavoratori dell'industria, dal punto di vista delle donne proletarie, così come degli uomini proletari, e direi anche dal punto di vista dei bambini e, naturalmente, da un punto di vista ecologico.
Cosa pensi dell’attuale situazione dei profughi e della nuova ondata del nazionalismo e dell'ideologia nazionale cui stiamo assistendo in Europa e in altre parti del mondo? Come possiamo combattere contro queste tendenze?
È impossibile esprimere in poche parole il dolore e l'indignazione che sento nel vedere ciò che i governi e tante persone in Europa stanno facendo ai profughi delle guerre che gli stessi governi hanno finanziato. È spaventoso vedere che anno dopo anno, quasi ogni settimana, barche che trasportano i profughi fanno naufragio nel Mediterraneo e centinaia e centinaia di persone perdono la vita, tanto che il Mediterraneo è oggi un grande cimitero; e questo sta accadendo davanti agli occhi di tutti, non dentro invisibili campi di concentramento; per non parlare dei "centri di accoglienza”, che sono carceri in cui chi è privo di documenti viene gettato e trattenuto, per periodi indefiniti e in condizioni miserevoli.
Ovviamente è una sciagura che la risposta a tutto ciò di tanti, anche tra i lavoratori, non sia la solidarietà, ma il rifiuto, la persecuzione, le posture nazionalistiche. È particolarmente preoccupante in quanto si tratta spesso di una guerra tra poveri, dacché spesso quanti vogliono innalzare barriere sono le stesse persone che lottano per sopravvivere, immaginando di potersi difendere non attraverso la solidarietà con i profughi, ma attraverso una politica di esclusione. Vorrei aggiungere però che abbiamo bisogno di saperne di più, in merito al neonazista che aggredisce i profughi: ad esempio in Germania ci sono prove di complicità da parte di autorità e polizia, al punto che possiamo pensare all’impennata neonazista come a uno strumento di controllo dei profughi, che possono tornare utili come forza lavoro a basso costo, ma solo nella misura in cui accettano di restare in fondo alla scala sociale.
Di recente ci sono stati sviluppi politici interessanti nel mondo occidentale, come la candidatura di Bernie Sanders per il Partito Democratico, l’elezione di Jeremy Corbyn a leader del partito laburista, la vittoria di Syriza nelle elezioni in Grecia e l’ascesa di Podemos in Spagna. C’è qualche speranza che questi sviluppi portino a una significativa trasformazione sociale? La sinistra di oggi deve organizzarsi intorno alla strategia di "occupare" le funzioni sociali dello Stato, ovvero auto-organizzarsi in chiave spontaneista (ad esempio nella lotta per i beni comuni), al di fuori della politica dei partiti?
Non è facile rispondere a questa domanda. Abbiamo di recente saputo – e la cosa ha sorpreso parecchio i più - che gli zapatisti intendono partecipare alle elezioni presidenziali del 2018 attraverso la candidatura di una donna indigena. Non è che abbiano cambiato il loro orientamento politico: ma a quanto pare sono talmente assediati che in questo modo cercano di spezzare l'accerchiamento e di rendere consapevoli settori più ampi della popolazione in merito al massiccio, violento attacco che stanno sperimentando nel periodo successivo alla morte di Galeano. Detto questo, è evidente che i governi di sinistra e tutta la politica del progressismo, in Europa come in America Latina, sono in crisi. Pochi si sono mobilitati in Brasile per esigere la reintegrazione di Dilma Rousseff, nonostante molti condannassero il suo impeachment vedendovi una mossa fraudolenta, quasi un colpo di stato. Il bilancio dei governi progressisti ci dice che nel migliore dei casi hanno alleviato alcune delle forme più estreme di povertà, ma non hanno aggredito il nodo della produzione, non hanno attuato la riforma reclamata dai movimenti sociali che li hanno portati al potere, non hanno frenato la violenza dell'esercito e della polizia. Forse un discorso diverso si può fare per il chavismo, in quanto maggiormente rispettoso delle forze popolari: anch’esso però si è basato sull’estrattivismo, che ha reso il paese dipendente dagli alti e bassi del mercato globale. E che dire di Bernie Sanders, che passa mesi e mesi a spiegare perché i suoi seguaci non debbono votare per Clinton, e finisce col dire che non c’è alternativa al votarla? Una vera lezione di cinismo.
Io non definisco la politica dei beni comuni "spontaneista". Ci sono al mondo assetti comunitaristi con centinaia di anni di storia alle spalle. E non c'è chissà quanto spontaneismo nella difesa dei beni comuni in diverse parti del mondo, allorché si tratta di affrontare la violenza di paramilitari ed eserciti, nonché delle guardie giurate delle aziende. Chiaramente non bisogna essere dogmatici, in merito. A livello locale è spesso possibile esercitare una certa influenza sui governi. Vediamo però che i centri in cui vengono prese le decisioni diventano sempre più lontani, sempre più fuori dalla portata della gente. Assistiamo altresì alla formazione di una struttura di potere internazionale che si sostituisce costantemente al potere dello stato nazionale, come è nel caso dell'UE.
Con la costante interferenza del FMI e della Banca Mondiale nella politica statuale, con particolare, ma non esclusivo, riferimento al 'terzo mondo', vediamo un proliferare di "accordi di libero scambio" - come il TTP[1] o il TTIP (fortunatamente non ancora firmato) – volti a stabilire il dominio diretto del capitale sull'economia globale, in modo che nessuna decisione a livello economico possa esser presa senza l’approvazione delle grandi imprese, e la sovranità nazionale venga del tutto meno. In tali condizioni come si potrebbe essere ottimisti riguardo a eventuali governi di sinistra o radicali?
Un'ondata di cambiamento ha attraversato l'America Latina all’inizio del XXI secolo, spazzando via i bipartitismi neoliberisti, in nome della rifondazione dello stato sulla base di un'ampia partecipazione e di costituzioni democraticamente elaborate. Aspetto cruciale di queste nuove realtà politiche progressiste sono i nuovi movimenti sociali, che esigono tanto i diritti socio-politici che quelli economici. E tuttavia tra i due aspetti della rivendicazione popolare sono emerse contraddizioni, il più delle volte a motivo del modello di sviluppo seguito dai nuovi governi. Più precisamente, la maggior parte dei leader degli stati in oggetto, in particolare Correa in Ecuador e Morales in Bolivia, hanno espresso preoccupazione per la "Pachamama" (Madre Terra) e adottato il linguaggio del "Socialismo del XXI secolo" promosso dal presidente venezuelano Chávez e dal suo successore, Nicolas Maduro; in pratica però le rivendicazioni espresse dai movimenti sono state disattese, ad esempio attraverso la privatizzazione delle risorse naturali. Credi che queste tensioni possano essere risolte in modo tale da promuovere gli interessi delle classi lavoratrici in America Latina?
In Ecuador sono stata lo scorso aprile e ha avuto parecchi incontri con gruppi ecologisti e di donne, che mi hanno parlato con voce unanime: perché, si chiedono, la sinistra in Europa e negli Stati Uniti parla di Correa come un radicale, quando la sua politica è pienamente in linea con il neoliberismo? Perché mai, dato che, più di ogni precedente governo, quello di Correa è partito all’attacco della terra delle popolazioni indigene e mostra quotidianamente nelle sue scelte politiche il più completo disprezzo per le donne? Dopo esser stato portato al potere dal movimento delle popolazioni indigene, Correa ha introdotto nella costituzione del paese il principio che anche la natura ha i suoi diritti, e a tutta prima sembrava deciso a non sfruttare oltremodo le sue risorse petrolifere; ma da allora ha cambiato idea, ora sta promuovendo gli investimenti esteri e le perforazioni nel parco del Yasuni. Non sorprende perciò che si sia più volte scontrato con le stesse popolazioni indigene che una volta lo sostenevano, e che il suo governo sia ampiamente criticato per lo sprezzo mostrato nei confronti dei movimenti dal basso, l’autoritarismo e il sostegno al potere delle corporations. Anche Evo Morales parla di Pachamama quando è in viaggio all'estero, ma persegue una analoga politica estrattivista, che oltre a distruggere terre, foreste, fiumi, sta creando una forma di colonialismo interno. Questo non vuol dire che non ci sono gruppi di lavoratori che possono sostenere la sua politica, dacché estrattivismo significa salario per alcuni, sebbene al prezzo della distruzione dei mezzi di sostentamento di molti, così come in diverse comunità ci sono giovani lavoratori che approvano il fracking.
Devo dire che vi è un ampio divario tra come questi governi vengono visti da teorici radicali latino-americani come Luis Tapia, Raul Zibechi, Raquel Gutierrez, Silvia Rivera Cusicanqui e molti altri, da un lato; e l’immagine che tanti, a sinistra, se ne fanno negli Stati Uniti e in Europa, dall’altro.
Cosa ci dici in merito alle elezioni USA? Cosa pensi delle posizioni politiche di Hilary Clinton riguardo le donne? Lei ama presentarsi come “femminista” e appassionata paladina dei diritti delle donne..
Le elezioni USA sono un triste spettacolo, le cui pericolose conseguenze sono già evidenti, se è vero che decine di gruppi di suprematisti bianchi sono emersi in superficie sentendosi legittimati dai pronunciamenti di Trump.
È demoralizzante vedere settori della classe operaia statunitense andar dietro a uno come Trump. Ma ovviamente Clinton - con i suoi legami con Wall Street, la CIA, la macchina bellica - non è un'alternativa. E può recitare la parte della femminista solo perché dopo gli anni '70 il femminismo è stato istituzionalizzato, in modo che le donne potessero essere integrate nell'economia globale come manodopera a basso costo.
[traduzione di Angelo Foscari]
(qui la prima parte dell'intervista)
[1] L’intervista si è svolta immediatamente prima delle elezioni USA, e dunque precede di un paio di mesi il ritiro degli USA dal TTP [N.d.R.]
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