
IN TEORIA
C’È ROUSSEAU E ROUSSEAU
Moltitudine e classe al tempo del tecno-populismo
Gianluca Pozzoni e Stefano Pippa a colloquio con Augusto Illuminati*
28 aprile 2021
C’È ROUSSEAU E ROUSSEAU
Moltitudine e classe al tempo del tecno-populismo
Gianluca Pozzoni e Stefano Pippa a colloquio con Augusto Illuminati*
28 aprile 2021
Oggi il nome di Rousseau è associato, almeno in Italia, a un’idea peculiare di democrazia diretta da contrapporre positivamente alle storture della rappresentanza politica. Eppure, il concetto di “volontà generale” per come lo intendeva Rousseau ha ben poco a che fare con i ristretti referendum condotti su piattaforme proprietarie. Si tratta solo di un’operazione di marketing politico, di verniciatura intellettuale ai limiti dell’appropriazione indebita, o c’è qualcosa di più? Perché Rousseau, rispetto a tanti altri suoi illustri contemporanei, continua a esercitare un richiamo così forte a quasi 250 anni dalla sua morte?
Il richiamo a Rousseau dell’omonima piattaforma è ovviamente fasullo e oggi tristemente fallimentare, non è volonté générale di una comunità unanime istantaneamente informata e neppure volonté de tous, maggioritaria per coalizione di gruppi divisi, ma il luogo di una consultazione su quesiti manipolatori votati da una minoranza della minoranza degli elettori del M5S cui erano stati sottoposti. Quindi al massimo è testimonianza del persistente riferimento a qualcosa di più che un nome nei libri di testo scolastici. Rousseau è una memoria ricorsiva in momenti di uso radicale della sovranità popolare (per esempio durante la dittatura democratica giacobina o nella breve stagione della Commune) oppure di crisi della democrazia rappresentativa, quando si mette in discussione il principio stesso della rappresentanza e delle delega. L’esercizio diretto del potere legislativo e la sua fusione con quello esecutivo (che non è propriamente russoiano, in quanto Jean-Jacques ammetteva la delega per le funzioni governative, sotto stretto controllo ma con correttivi di autonomia) ricorrono in molte esperienze rivoluzionarie e la stessa definizione bolscevica di “commissari del popolo” è un’esplicita citazione del Contratto sociale. Naturalmente un’applicazione integrale dello schema russoiano in grandi paesi e in rivoluzioni di massa (1789, 1917) urta contro difficoltà insuperabili: cosa che lo stesso Rousseau prevedeva, ritenendola improbabile in Francia.
D’altra parte, una certa centralità della categoria di “popolo” è rivendicata tanto nella riflessione di Rousseau quanto nelle piattaforme politiche di vari movimenti più o meno radicali. Non a caso si è parlato di “populismo di sinistra” sia in riferimento alla linea adottata da alcune formazioni politiche europee (Podemos, il Labour Party a guida Corbyn) che a vari fenomeni specifici del contesto latinoamericano (il chavismo in Venezuela, il kirchnerismo in Argentina, l’evismo in Bolivia). Vedi una qualche relazione profonda - al di là delle risonanze dichiarate o anche negate - tra il pensiero di Rousseau e queste esperienze politiche?
Anche il mito del “popolo” come forza del tutto positiva e incorrotta è di chiara origine russoiana ed è stata assunta alla lettera dalle grandi correnti populiste dell’Ottocento in Russia e in USA (con grande enfasi sui contadini) e nel nazionalismo romantico (che però identificava popolo e nazione, intendendo in pratica la borghesia nazionale, vagamente affratellata nella rivolta contro i sovrani assoluti o il dominio straniero). Lo stesso movimento socialista, senza ignorare le contraddizioni interne, trasferisce molti degli attributi del popolo alla classe operaia. Nel Novecento i movimenti populisti sono sorti in America Latina in situazioni di mancanza o crisi dei partiti progressisti – fenomeno che più recentemente si è esteso anche all’Europa. L’appello al popolo sostituisce il riferimento marxista alla classe, laddove esso non sembra o non sembra più spiegare i meccanismi di oppressione e resistenza. Nella teoria standard di Ernesto Laclau, “popolo” è un significante vuoto sotto cui si concatenano e prendono forza rivoluzionaria serie di contraddizioni eterogenee. Qui siano assai distanti dall’essenzialismo russoiano e tuttavia lo si potrebbe anche interpretare come una felice riattualizzazione – trattandosi in entrambi i casi di un uso del “popolo” come mito politico unificante e rigenerativo. Il termine populismo viene applicato (in Europa e USA) anche a movimenti di destra, che fanno leva su settori popolari delusi o spaventati in misura ignota alla destra classica liberale. Il riferimento a Rousseau in questo caso è soggettivamente assai scarso e oggettivamente insostenibile. Quindi il nostro discorso verte unicamente sul cosiddetto populismo di sinistra e su forme spurie, come in Italia l’ormai irreperibile M5S.
Da quello che dici sembra che tu veda una stretta relazione tra il modo in cui, nelle tradizioni politiche più radicali, classe e popolo si alternano trasferendosi reciprocamente alcuni dei loro tratti fondamentali: da un lato la politica di classe “eredita” il paradigma della sovranità popolare, dall’altro ora “popolo”, con il “populismo di sinistra”, tende a riproporsi come il termine con cui la politica dell’emancipazione cerca di ripensare la soggettività rivoluzionaria dopo la crisi del paradigma di classe. Pensi che un ritorno al concetto di popolo, in una congiuntura come quella attuale, rappresenti una strada teoricamente feconda e politicamente promettente oppure pensi che ci sia il rischio inverso di un annacquamento delle istanze più radicali nel perseguimento di una generica unità popolare?
L’uso del concetto di “popolo” è sempre stato ambiguo e infido. Ma va pure detto che, al momento, non esiste proprio il pericolo che ci siano consistenti forze di classe e partiti portavoce di istanze radicali che potrebbero essere inquinati o neutralizzati dal populismo di sinistra. In effetti, nella stessa misura in cui il movimento socialista ha ereditato certi tratti della tradizione radicale rappresentativa giacobina e della democrazia diretta della Commune, anche la sovranità popolare si è trasferita alla classe e, oggi, potremmo dire, alla moltitudine, con tutti i cambiamenti che sono intervenuti nella struttura e nel ruolo della sovranità. Corrispettivamente, il significante “popolo” non esprime più un popolo compatto indivisibile, alla Rousseau, ma funziona come fattore unificante di istanze democratiche inappagate dalla democrazia rappresentativa e dal sistema dei partiti politici costituzionali della borghesia progressista e della classe operaia (di taglio riformista o rivoluzionario, come un tempo). Tiene insieme soggetti dispersi ed eterogenei, cui appunto non riescono più a corrispondere i partiti tradizionali. Tale operazione è però, strutturalmente, ambigua e precaria, specialmente in Europa, dove ancora i partiti storici in alcune regioni riescono a resistere: riesce bene a destra dove si innesta su un solido sostrato nazionalista e fascista, in modo confusionario al centro (come dimostra l’infelice esperienza italiana del M5S), con difficoltà a sinistra – dove gli unici casi sono Podemos, oggi abbastanza istituzionalizzati, e i Gilets Jaunes, al momento carsici. La differenza con il populismo storico russo, statunitense, peronista e con il neo-populismo latinoamericano degli anni ’90 e oggi riproposto è nettissima. Peraltro, come abbiamo detto sopra, solo per il populismo di sinistra si può parlare di un riferimento ideale a Rousseau, ovviamente nello stesso senso in cui i giacobini lo realizzarono fraintendendolo e deformandolo.
Il recente e non disprezzabile tentativo emergenziale di associare al governo i pezzi scomposti del declino entropico del PD e dell’implosione del M5S si è prima arenato sulle difficoltà intrinseche dell’operazione, poi è saltato per una convulsa ma lucida controffensiva delle forze neoliberali e delle destre populiste coalizzate. Ne è derivato un tentativo di restaurazione delle élites, con tanto di bollinatura aristocratico-meritocratica (il “governo dei migliori”), che tuttavia non ha eliminato la crisi strutturale del sistema, aggravata dalla pandemia. Ritengo però che l’ipotesi di un populismo di sinistra continui a stare all’orizzonte, anche se i suoi portatori è difficile ritrovarli fra il personale politico presente.
Con ciò aggiungi al discorso su popolo e classe un terzo termine: la moltitudine. Nel tuo saggio del 1977 su Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, tu hai letto nei testi meno direttamente politici del ginevrino proprio una rivendicazione della moltitudine come unione di volontà singolari che non si lasciano assimilare nel “popolo” inteso come entità coesa e omogenea (e quindi in ultima analisi fittizia o, peggio, repressiva). Questa lettura originale di Rousseau si distacca da altre linee interpretative della genealogia della moltitudine: su tutte, quella di Negri, per cui Rousseau è integralmente inserito nella linea “cattiva” della sovranità che va da Hobbes a Hegel. E pone immediatamente una questione politica: come può il populismo di sinistra conservare questa istanza moltitudinaria senza cadere nell’assoluta bancarotta di qualunque progetto comunitario, come è quella che per te caratterizza proprio il solipsismo intimistico dell’ultimo Rousseau? In altre parole, come può la moltitudine farsi soggetto politico costruttivo come lo sono stati il popolo o la classe? Che tipo di agency, distinta da quella che caratterizza questi ultimi, dovrebbe o potrebbe avere? Buona parte dei problemi sollevati dal concetto di moltitudine hanno ruotato attorno a questo problema: basti pensare che nel loro ultimo intervento sulla New Left Review dedicato a questo tema, Hardt e Negri hanno riproposto il termine “classe”, richiamando l’attenzione sulla necessità di una “unità” della moltitudine come condizione per l’azione politica…
L’unificazione della moltitudine ai fini dell’azione politica, per raggiungere obiettivi di trasformazione strutturale, si compie mediante coalizioni, processi di aggregazione e di intersezionalità. Il richiamo alla classe ci può stare benissimo, se si considera la composizione eterogenea del lavoro salariato contemporaneo il cui comune sfruttamento avviene mediante sussunzione reale e ancor più formale al capitale, quindi in una policroma confusione di rapporti di dipendenza più o meno mascherata. Lo stesso intreccio congiunturale di contraddizioni sociali, di genere e di razza produce divisioni complesse e stratificate, la cui preminenza e risoluzione dipende da fattori di soggettivazione politica molto più che dall’individuazione di qualche mitico soggetto egemonico.
Certo, il Rousseau del Contratto sociale, con la sua assunzione della volonté générale e la condanna della volonté de tous contrattata e negoziata (anche non in forma rappresentativa), non ci aiuta molto; non a caso essa è stata in Europa la fondazione (in forma di democrazia diretta) della sovranità popolare moderna. Il populismo di sinistra costruisce significanti vuoti che aggregano catene di domande cui il sovranismo e il neoliberalismo non offrono risposte. Dunque in una logica plebea e non parlamentare di volonté de tous. Per un verso, questo deriva dalla crisi irreversibile della democrazia rappresentativa e del ruolo delle élites neoliberali, per l’altro richiede nuove istituzioni non rappresentative e tuttavia dotate di una certa stabilità. E questo naturalmente è un problema tuttora irrisolto.
Che uso fare dei concetti fondamentali di Rousseau? Poco di quelli che hanno a che vedere con l’identità immediata e trasparente dell’individuo e della comunità (che non sono tanto “ingenui”, come si dice, piuttosto si prestano alla manipolazione), parecchio con quelli che esprimono o una concezione aleatoria e reversibile della socialità e collegano redenzione e conflitto. Cioè proprio i punti in cui Rousseau non tanto realizza e perfezione la sovranità hobbesiana, ma devia, apre fratture, torna a passeggiare nei boschi.
Insomma – e per concludere – il Rousseau dell’oggi a cui fai segno va espressamente nella direzione già tracciata dagli scritti dell’ultimo Althusser, che facevano di Rousseau – insieme a Machiavelli – il pensatore dell’“aleatorietà”. In quest’ottica, ogni assetto sociale è prodotto aleatorio e contingente, in quanto è subordinato al conflitto come motore della storia. Eppure, tanto Machiavelli quanto Rousseau avevano ben presente, accanto al conflitto, l’importanza di un momento costituente in grado di produrre (nuove) istituzioni. Credi che i “significanti vuoti” del populismo possano essere utilizzati anche per definire una fase autenticamente trasformativa e costituente, piuttosto che limitarsi ad aggregare domande inappagate e a riattivare il conflitto in quanto tale?
Rousseau è uno dei protagonisti intellettuali del potere costituente, lo ha affermato non solo come riforma dello stato assolutista ma anche come veicolo di redenzione dell’uomo dal male, ribaltamento della caduta edenica. E la prima grande rivoluzione sul continente europeo a lui si è ispirata, pur travisandolo e gestendone la democrazia diretta come meccanismo rappresentativo radicalizzato. Oggi di potere costituente c’è palese assenza, il tecnopopulismo imperante (intendiamo Macron e Draghi) mira a sopprimere il conflitto e svuotare il popolo, stabilendo un contatto diretto fra potere costituito e popolo passivo in nome della competenza e del governo dei “migliori” (la vecchia utopia platonica, messa in mano agli economisti e ai banchieri). Per cui, pur non avendo troppe speranze nella natura costituente di un populismo di sinistra, mi accontenterei che esso riattivasse il conflitto e imponesse limiti alla logica neoliberale sopravvissuta alla crisi del 2008 e alla pandemia. Cioè preferirei il populismo governalizzato di Podemos e il suo compromesso con i socialisti di Sánchez piuttosto che Draghi e Letta. Quanto poi, su una scala non limitata all’Europa, sia possibile un processo costituente che sia suscitato o quasi obbligato dalla prima grande esperienza contemporanea pandemica e dalla conseguente esplosione di diseguaglianze e indebitamento… ecco, su questo è difficile già pronunciarsi. Momento costituente e congiuntura aleatoria stanno però, a volte, insieme. Rousseau ha sperimentato il perdere l’innocenza nella scrittura e il ritrovarla in lampi di illuminazione e anche l’umanità si è socializzata per caso amoreggiando intorno a una sorgente e si è corrotta all’apparire del primo steccato a difesa della proprietà. Perfino un coronavirus è bastato a far saltare il TINA del mantra austeritario neoliberale. L’importante è che i processi restino aperti, che non vengano sigillati dall’alto. Che non si intreccino fiori alle catene. Forse addirittura che non ci si rassegni alle vecchie e nuove diseguaglianze come regole “naturali” e inscalfibili. Rousseau continua a insegnarci qualcosa.
(*) Augusto Illuminati ha insegnato Storia della filosofia all’Università di Urbino fino al 2009. Ha collaborato a Luogo comune e Alfabeta. Al pensiero di Jean-Jacques Rousseau ha dedicato due libri: Jean-Jacques Rousseau (La Nuova Italia, 1975) e J.-J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi (Il Saggiatore, 1977, ripubblicato nel 2002 da Manifestolibri con il titolo di Rousseau, solitudine e comunità. Una fondazione dei valori borghesi).
Il richiamo a Rousseau dell’omonima piattaforma è ovviamente fasullo e oggi tristemente fallimentare, non è volonté générale di una comunità unanime istantaneamente informata e neppure volonté de tous, maggioritaria per coalizione di gruppi divisi, ma il luogo di una consultazione su quesiti manipolatori votati da una minoranza della minoranza degli elettori del M5S cui erano stati sottoposti. Quindi al massimo è testimonianza del persistente riferimento a qualcosa di più che un nome nei libri di testo scolastici. Rousseau è una memoria ricorsiva in momenti di uso radicale della sovranità popolare (per esempio durante la dittatura democratica giacobina o nella breve stagione della Commune) oppure di crisi della democrazia rappresentativa, quando si mette in discussione il principio stesso della rappresentanza e delle delega. L’esercizio diretto del potere legislativo e la sua fusione con quello esecutivo (che non è propriamente russoiano, in quanto Jean-Jacques ammetteva la delega per le funzioni governative, sotto stretto controllo ma con correttivi di autonomia) ricorrono in molte esperienze rivoluzionarie e la stessa definizione bolscevica di “commissari del popolo” è un’esplicita citazione del Contratto sociale. Naturalmente un’applicazione integrale dello schema russoiano in grandi paesi e in rivoluzioni di massa (1789, 1917) urta contro difficoltà insuperabili: cosa che lo stesso Rousseau prevedeva, ritenendola improbabile in Francia.
D’altra parte, una certa centralità della categoria di “popolo” è rivendicata tanto nella riflessione di Rousseau quanto nelle piattaforme politiche di vari movimenti più o meno radicali. Non a caso si è parlato di “populismo di sinistra” sia in riferimento alla linea adottata da alcune formazioni politiche europee (Podemos, il Labour Party a guida Corbyn) che a vari fenomeni specifici del contesto latinoamericano (il chavismo in Venezuela, il kirchnerismo in Argentina, l’evismo in Bolivia). Vedi una qualche relazione profonda - al di là delle risonanze dichiarate o anche negate - tra il pensiero di Rousseau e queste esperienze politiche?
Anche il mito del “popolo” come forza del tutto positiva e incorrotta è di chiara origine russoiana ed è stata assunta alla lettera dalle grandi correnti populiste dell’Ottocento in Russia e in USA (con grande enfasi sui contadini) e nel nazionalismo romantico (che però identificava popolo e nazione, intendendo in pratica la borghesia nazionale, vagamente affratellata nella rivolta contro i sovrani assoluti o il dominio straniero). Lo stesso movimento socialista, senza ignorare le contraddizioni interne, trasferisce molti degli attributi del popolo alla classe operaia. Nel Novecento i movimenti populisti sono sorti in America Latina in situazioni di mancanza o crisi dei partiti progressisti – fenomeno che più recentemente si è esteso anche all’Europa. L’appello al popolo sostituisce il riferimento marxista alla classe, laddove esso non sembra o non sembra più spiegare i meccanismi di oppressione e resistenza. Nella teoria standard di Ernesto Laclau, “popolo” è un significante vuoto sotto cui si concatenano e prendono forza rivoluzionaria serie di contraddizioni eterogenee. Qui siano assai distanti dall’essenzialismo russoiano e tuttavia lo si potrebbe anche interpretare come una felice riattualizzazione – trattandosi in entrambi i casi di un uso del “popolo” come mito politico unificante e rigenerativo. Il termine populismo viene applicato (in Europa e USA) anche a movimenti di destra, che fanno leva su settori popolari delusi o spaventati in misura ignota alla destra classica liberale. Il riferimento a Rousseau in questo caso è soggettivamente assai scarso e oggettivamente insostenibile. Quindi il nostro discorso verte unicamente sul cosiddetto populismo di sinistra e su forme spurie, come in Italia l’ormai irreperibile M5S.
Da quello che dici sembra che tu veda una stretta relazione tra il modo in cui, nelle tradizioni politiche più radicali, classe e popolo si alternano trasferendosi reciprocamente alcuni dei loro tratti fondamentali: da un lato la politica di classe “eredita” il paradigma della sovranità popolare, dall’altro ora “popolo”, con il “populismo di sinistra”, tende a riproporsi come il termine con cui la politica dell’emancipazione cerca di ripensare la soggettività rivoluzionaria dopo la crisi del paradigma di classe. Pensi che un ritorno al concetto di popolo, in una congiuntura come quella attuale, rappresenti una strada teoricamente feconda e politicamente promettente oppure pensi che ci sia il rischio inverso di un annacquamento delle istanze più radicali nel perseguimento di una generica unità popolare?
L’uso del concetto di “popolo” è sempre stato ambiguo e infido. Ma va pure detto che, al momento, non esiste proprio il pericolo che ci siano consistenti forze di classe e partiti portavoce di istanze radicali che potrebbero essere inquinati o neutralizzati dal populismo di sinistra. In effetti, nella stessa misura in cui il movimento socialista ha ereditato certi tratti della tradizione radicale rappresentativa giacobina e della democrazia diretta della Commune, anche la sovranità popolare si è trasferita alla classe e, oggi, potremmo dire, alla moltitudine, con tutti i cambiamenti che sono intervenuti nella struttura e nel ruolo della sovranità. Corrispettivamente, il significante “popolo” non esprime più un popolo compatto indivisibile, alla Rousseau, ma funziona come fattore unificante di istanze democratiche inappagate dalla democrazia rappresentativa e dal sistema dei partiti politici costituzionali della borghesia progressista e della classe operaia (di taglio riformista o rivoluzionario, come un tempo). Tiene insieme soggetti dispersi ed eterogenei, cui appunto non riescono più a corrispondere i partiti tradizionali. Tale operazione è però, strutturalmente, ambigua e precaria, specialmente in Europa, dove ancora i partiti storici in alcune regioni riescono a resistere: riesce bene a destra dove si innesta su un solido sostrato nazionalista e fascista, in modo confusionario al centro (come dimostra l’infelice esperienza italiana del M5S), con difficoltà a sinistra – dove gli unici casi sono Podemos, oggi abbastanza istituzionalizzati, e i Gilets Jaunes, al momento carsici. La differenza con il populismo storico russo, statunitense, peronista e con il neo-populismo latinoamericano degli anni ’90 e oggi riproposto è nettissima. Peraltro, come abbiamo detto sopra, solo per il populismo di sinistra si può parlare di un riferimento ideale a Rousseau, ovviamente nello stesso senso in cui i giacobini lo realizzarono fraintendendolo e deformandolo.
Il recente e non disprezzabile tentativo emergenziale di associare al governo i pezzi scomposti del declino entropico del PD e dell’implosione del M5S si è prima arenato sulle difficoltà intrinseche dell’operazione, poi è saltato per una convulsa ma lucida controffensiva delle forze neoliberali e delle destre populiste coalizzate. Ne è derivato un tentativo di restaurazione delle élites, con tanto di bollinatura aristocratico-meritocratica (il “governo dei migliori”), che tuttavia non ha eliminato la crisi strutturale del sistema, aggravata dalla pandemia. Ritengo però che l’ipotesi di un populismo di sinistra continui a stare all’orizzonte, anche se i suoi portatori è difficile ritrovarli fra il personale politico presente.
Con ciò aggiungi al discorso su popolo e classe un terzo termine: la moltitudine. Nel tuo saggio del 1977 su Rousseau e la fondazione dei valori borghesi, tu hai letto nei testi meno direttamente politici del ginevrino proprio una rivendicazione della moltitudine come unione di volontà singolari che non si lasciano assimilare nel “popolo” inteso come entità coesa e omogenea (e quindi in ultima analisi fittizia o, peggio, repressiva). Questa lettura originale di Rousseau si distacca da altre linee interpretative della genealogia della moltitudine: su tutte, quella di Negri, per cui Rousseau è integralmente inserito nella linea “cattiva” della sovranità che va da Hobbes a Hegel. E pone immediatamente una questione politica: come può il populismo di sinistra conservare questa istanza moltitudinaria senza cadere nell’assoluta bancarotta di qualunque progetto comunitario, come è quella che per te caratterizza proprio il solipsismo intimistico dell’ultimo Rousseau? In altre parole, come può la moltitudine farsi soggetto politico costruttivo come lo sono stati il popolo o la classe? Che tipo di agency, distinta da quella che caratterizza questi ultimi, dovrebbe o potrebbe avere? Buona parte dei problemi sollevati dal concetto di moltitudine hanno ruotato attorno a questo problema: basti pensare che nel loro ultimo intervento sulla New Left Review dedicato a questo tema, Hardt e Negri hanno riproposto il termine “classe”, richiamando l’attenzione sulla necessità di una “unità” della moltitudine come condizione per l’azione politica…
L’unificazione della moltitudine ai fini dell’azione politica, per raggiungere obiettivi di trasformazione strutturale, si compie mediante coalizioni, processi di aggregazione e di intersezionalità. Il richiamo alla classe ci può stare benissimo, se si considera la composizione eterogenea del lavoro salariato contemporaneo il cui comune sfruttamento avviene mediante sussunzione reale e ancor più formale al capitale, quindi in una policroma confusione di rapporti di dipendenza più o meno mascherata. Lo stesso intreccio congiunturale di contraddizioni sociali, di genere e di razza produce divisioni complesse e stratificate, la cui preminenza e risoluzione dipende da fattori di soggettivazione politica molto più che dall’individuazione di qualche mitico soggetto egemonico.
Certo, il Rousseau del Contratto sociale, con la sua assunzione della volonté générale e la condanna della volonté de tous contrattata e negoziata (anche non in forma rappresentativa), non ci aiuta molto; non a caso essa è stata in Europa la fondazione (in forma di democrazia diretta) della sovranità popolare moderna. Il populismo di sinistra costruisce significanti vuoti che aggregano catene di domande cui il sovranismo e il neoliberalismo non offrono risposte. Dunque in una logica plebea e non parlamentare di volonté de tous. Per un verso, questo deriva dalla crisi irreversibile della democrazia rappresentativa e del ruolo delle élites neoliberali, per l’altro richiede nuove istituzioni non rappresentative e tuttavia dotate di una certa stabilità. E questo naturalmente è un problema tuttora irrisolto.
Che uso fare dei concetti fondamentali di Rousseau? Poco di quelli che hanno a che vedere con l’identità immediata e trasparente dell’individuo e della comunità (che non sono tanto “ingenui”, come si dice, piuttosto si prestano alla manipolazione), parecchio con quelli che esprimono o una concezione aleatoria e reversibile della socialità e collegano redenzione e conflitto. Cioè proprio i punti in cui Rousseau non tanto realizza e perfezione la sovranità hobbesiana, ma devia, apre fratture, torna a passeggiare nei boschi.
Insomma – e per concludere – il Rousseau dell’oggi a cui fai segno va espressamente nella direzione già tracciata dagli scritti dell’ultimo Althusser, che facevano di Rousseau – insieme a Machiavelli – il pensatore dell’“aleatorietà”. In quest’ottica, ogni assetto sociale è prodotto aleatorio e contingente, in quanto è subordinato al conflitto come motore della storia. Eppure, tanto Machiavelli quanto Rousseau avevano ben presente, accanto al conflitto, l’importanza di un momento costituente in grado di produrre (nuove) istituzioni. Credi che i “significanti vuoti” del populismo possano essere utilizzati anche per definire una fase autenticamente trasformativa e costituente, piuttosto che limitarsi ad aggregare domande inappagate e a riattivare il conflitto in quanto tale?
Rousseau è uno dei protagonisti intellettuali del potere costituente, lo ha affermato non solo come riforma dello stato assolutista ma anche come veicolo di redenzione dell’uomo dal male, ribaltamento della caduta edenica. E la prima grande rivoluzione sul continente europeo a lui si è ispirata, pur travisandolo e gestendone la democrazia diretta come meccanismo rappresentativo radicalizzato. Oggi di potere costituente c’è palese assenza, il tecnopopulismo imperante (intendiamo Macron e Draghi) mira a sopprimere il conflitto e svuotare il popolo, stabilendo un contatto diretto fra potere costituito e popolo passivo in nome della competenza e del governo dei “migliori” (la vecchia utopia platonica, messa in mano agli economisti e ai banchieri). Per cui, pur non avendo troppe speranze nella natura costituente di un populismo di sinistra, mi accontenterei che esso riattivasse il conflitto e imponesse limiti alla logica neoliberale sopravvissuta alla crisi del 2008 e alla pandemia. Cioè preferirei il populismo governalizzato di Podemos e il suo compromesso con i socialisti di Sánchez piuttosto che Draghi e Letta. Quanto poi, su una scala non limitata all’Europa, sia possibile un processo costituente che sia suscitato o quasi obbligato dalla prima grande esperienza contemporanea pandemica e dalla conseguente esplosione di diseguaglianze e indebitamento… ecco, su questo è difficile già pronunciarsi. Momento costituente e congiuntura aleatoria stanno però, a volte, insieme. Rousseau ha sperimentato il perdere l’innocenza nella scrittura e il ritrovarla in lampi di illuminazione e anche l’umanità si è socializzata per caso amoreggiando intorno a una sorgente e si è corrotta all’apparire del primo steccato a difesa della proprietà. Perfino un coronavirus è bastato a far saltare il TINA del mantra austeritario neoliberale. L’importante è che i processi restino aperti, che non vengano sigillati dall’alto. Che non si intreccino fiori alle catene. Forse addirittura che non ci si rassegni alle vecchie e nuove diseguaglianze come regole “naturali” e inscalfibili. Rousseau continua a insegnarci qualcosa.
(*) Augusto Illuminati ha insegnato Storia della filosofia all’Università di Urbino fino al 2009. Ha collaborato a Luogo comune e Alfabeta. Al pensiero di Jean-Jacques Rousseau ha dedicato due libri: Jean-Jacques Rousseau (La Nuova Italia, 1975) e J.-J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi (Il Saggiatore, 1977, ripubblicato nel 2002 da Manifestolibri con il titolo di Rousseau, solitudine e comunità. Una fondazione dei valori borghesi).
Lascia un commento