CHI NON HA BISOGNO DI ATENE?
Scritto da Giovanni Di Benedetto 20 febbraio 2015
Scritto da Giovanni Di Benedetto 20 febbraio 2015
“Chi non ha bisogno di Atene? Forse che non hanno bisogno di Atene tutti i paesi ricchi di grano e di armenti, di olio e vino, tutti coloro che vogliono trarre profitto dall’oro o dalla propria intelligenza?” Così G.W.F. Hegel riferendosi a Senofonte (in realtà alla Athenaion politeia pseudosenofontea) nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia. Chi non ha bisogno di Atene e della Grecia dunque? A voler sentire gli esperti della Troika, gli analisti economici, i consumati consulenti di Bruxelles e il nostro Presidente del Consiglio Renzi, dalle sorti del debito greco dipendono i destini della moneta unica e della stessa Unione Europea. I diktat e gli ultimatum non si contano, ultimi quelli del ministro dell’economia tedesca Schaeuble, di Merkel e di Lagarde. Essi si propongono di scaricare sulla Grecia la colpa morale di avere scialacquato risparmi e sperperato ricchezze, nonché di non avere tenuto fede agli impegni del Memorandum. Come se non fosse chiaro a tutti che le ricette che i funzionari di Bruxelles continuano a sottoporre al governo di Tsipras, ultima l’estensione del programma di privatizzazioni, tagli della spesa pubblica e riduzioni dei diritti dei lavoratori in cambio di 7 miliardi di euro, si collocano sulla stessa lunghezza d’onda delle politiche di strangolamento che hanno precipitato la Grecia in una condizione di vero e proprio disastro umanitario. Fingendo di dimenticare, peraltro, che il default della Grecia significherebbe, con tutta probabilità, l’implosione del mercato unico dei capitali e delle merci e dell’intera unione monetaria europea. Dunque, è certo, i signori della Troika hanno bisogno di Atene.
Eppure stiamo parlando dell’economia di un paese il cui debito rappresenta in valore assoluto il 2,8% di quello dell’Unione Europea. Sarebbe il caso, allora, di relativizzare e, soprattutto, indagare le ragioni profonde che hanno fatto dello stato ellenico una cavia per trasferire le contraddizioni dai mercati finanziari all’economia reale, provocando una spirale deflazionistica che si è riversata anche sulla Spagna, l’Italia e addirittura la Francia. In realtà lor signori sanno che i problemi che attanagliano la Grecia sono sistemici e riguardano le asimmetrie e gli squilibri strutturali dell’intera Europa. L’imposizione surrettizia di un’unica area valutaria, contrabbandata per la costruzione di un’unità europea sovranazionale, ha determinato, attraverso l’adozione di un’unica moneta per economie con fondamentali fra loro molto differenti, l’aumento dei differenziali fra i diversi stati e una sostanziale divaricazione tra i paesi del nord Europa (l’area del marco che storicamente si è fondata sulla stabilità monetaria e sulla deflazione) e i paesi debitori dell’Europa mediterranea, a rischio di deindustrializzazione e colonizzazione da parte dei capitali del Nord creditore.
Alla luce di quanto è accaduto negli ultimi giorni nelle sedute dell’Eurogruppo vale la pena ritornare a ragionare sulle elezioni vinte da Tsipras. Dunque, cosa ci consegnano le elezioni greche dopo lo splendido successo del 36% di Syriza? Innanzitutto il successo della sinistra si configura come la rivendicazione di una discontinuità con la occupazione egemonica dello spazio pubblico da parte di un ordine del discorso fondato, a tutti i livelli, sull’esclusiva priorità dell’austerità e della logica del mercato. Sì, è proprio vero, si possono incontrare i membri della Troika senza doversi per forza umiliare e mendicare aiuto. Anzi, avanzando forte e chiaro, con orgoglio e dignità, l’idea che è possibile, e razionale, uscire dalla gabbia dei vincoli imposti dalla Banca Centrale Europea, dal Fondo monetario e dalla Banca mondiale. Tsipras e Syriza hanno avuto il merito di rovesciare le priorità della politica, di spostare il baricentro della comunicazione, di riposizionare l’immaginario collettivo a vantaggio delle classi subalterne, di tentare di modificare, attraverso la conquista del potere politico, i rapporti di forza tra capitale e lavoro.
La Grecia è stata considerata come il laboratorio delle politiche fondate sull’austerità, i tagli alla spesa pubblica e le privatizzazioni. Tsipras e Syryza stanno a dimostrare che è possibile contestare la convinzione che per risolvere la crisi è sufficiente scaricare le perdite del settore bancario sulle spalle dei cittadini. E si può fare nel paese più colpito dalla crisi e dal tracollo del debito sovrano, aprendo un cuneo sottile, ma al tempo stesso feroce, che faccia emergere la condizione di via senza uscita nella quale rischia di precipitare la costruzione europea. Che faccia emergere le insostenibili aporie nelle quali sono precipitate le classi dirigenti europee indicando, peraltro, la strada ai popoli europei, soprattutto quelli dell’area mediterranea, i cosiddetti Pigs, che più stanno pagando gli effetti dell’unione monetaria e della camicia di forza che essa ha prospettato. Non deve esserci allora dubbio di sorta sul fatto che lo tsunami politico che ha travolto i vecchi assetti di potere ellenici deve essere l’occasione, forse irripetibile, per mettere in discussione il dogma su cui si fondano le politiche economiche e sociali in Europa. Solo i miopi non riescono a vedere che in gioco è non solo la sopravvivenza delle classi subalterne e delle masse popolari in Grecia ma anche l’insieme degli interessi di tutta l’Europa sociale e democratica.
Subito dopo il successo elettorale Tsipras ha cercato di inviare segnali che testimoniassero della sua volontà di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale: riassunzione di 12.000 dipendenti pubblici licenziati dai governi precedenti, aumento del salario minimo, interruzione del programma di privatizzazioni che prevedeva la svendita delle più importanti infrastrutture della nazione, tutela del diritto alla casa e del diritto all’energia elettrica per circa 300.000 famiglie povere, reintroduzione della contrattazione collettiva e della tredicesima per le pensioni al di sotto dei 700 euro al mese. Soprattutto, il proposito (che è anche una necessità) di riavviare un programma per lo sviluppo e l’occupazione con investimenti pubblici. Ed è proprio questo il terreno di scontro su cui si sta consumando in questi giorni il braccio di ferro con i partners europei più riottosi capeggiati dalla Merkel e da Weidmann, il capo della Bundesbank. Da un lato chi propone l’estensione del programma attuale che non farebbe che alimentare il ricatto a cui i greci sono stati sottoposti negli ultimi anni: trasferimenti di liquidità monetaria, peraltro utilizzata soprattutto per coprire le perdite del settore finanziario, in cambio di privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, diminuzione dei diritti sociali e contrazione salariale. Dall’altro, la proposta di Atene, un accordo-ponte in base al quale avviare una sostanziale modifica del piano di risanamento.
Dicevamo, chi non ha bisogno di Atene? Se i satrapi dell’Europa a due velocità hanno bisogno di acuire le devastazioni del tessuto economico e sociale della Grecia e di tutti i paesi dell’Europa mediterranea con finti piani di risanamento per alimentare il dominio economico dei paesi dell’area dell’ex marco e, all’interno dei singoli stati, per riaffermare una logica di classe che acuisce disparità e aumenta iniquità e povertà, anche noi abbiamo bisogno di Atene. Il pericolo peggiore sarebbe quello di guardare al tentativo di Tsipras, Varoufakis e della sinistra greca come se si trattasse di cose che non ci riguardano, con quell’atteggiamento di cinico pessimismo (ben altra cosa è il realismo) proprio di un certo sguardo intellettualistico e un po’ schizzinoso. Di fronte ai sacerdoti dello status quo, che non sono stati democraticamente eletti al vertice di istituzioni come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario e la Banca Centrale Europea, occorre fare come il popolo greco, contrastare le scelte di politica economica, che aumentano povertà, miseria e disoccupazione, con la mobilitazione e l’iniziativa democratica dal basso. Qui come in Grecia.
Perché non c’è dubbio che le due cose si tengono insieme: l’attacco alle condizioni di vita di milioni di uomini e donne greci inscenato dalla Troika va respinto manifestando il massimo della solidarietà possibile; d’altro canto, non c’è dubbio che l’iniziativa che viene da Syriza e dalla sinistra greca va sostenuta e incoraggiata perché sollecita svolte, punti di rottura e discontinuità a livello europeo. L’accelerazione del governo greco cambia lo scenario complessivo, fa da leva perché possa essere messo in discussione anche ciò che accade a casa nostra, insomma, ci chiama direttamente in causa. O meglio, chiama direttamente in causa quanti pensano che occorre cambiare politica economica. Certo, nel programma di Tsipras non è prevista la fuoriuscita dal capitalismo né, a differenza di quello presentato alla vigilia delle elezioni del 2012, la nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici della vita nazionale. Viceversa, viene avanzata la proposta di un programma di politiche che potremmo, per certi versi, definire keynesiane, centrate su una sorta di New Deal di politica fiscale e industriale, un programma di investimenti che rilanci l’economia e l’occupazione e una conferenza europea per la cancellazione del debito. Tuttavia, si tratta di provvedimenti che segnano una controtendenza significativa e rilevante e che non possono essere confusi con le posizioni della Santa Alleanza neoliberista che a livello europeo vede allineati e coperti popolari e socialisti.
Perché se c’è un insegnamento fra gli altri di cui far tesoro dall’esperienza greca, questo ha a che fare con la volontà di proporsi come radicalmente alternativi, senza distinzione di sorta, a coloro che si richiamano sia al partito popolare europeo che al partito socialdemocratico europeo. Una sinistra all’altezza della scommessa che si sta giocando sul tavolo europeo non può avere nulla a che spartire con le politiche restauratrici del PD imperniate sulla centralità del mercato e sulla riduzione del lavoro a variabile dipendente delle logiche dell’accumulazione. Deve, viceversa, proporsi come elemento di rottura radicale, capace di intercettare i bisogni e il malcontento popolare, in grado di dotarsi di un profilo programmatico alternativo all’esistente, abile nell’offrire un’occasione di riscatto ed una prospettiva di futuro per quanti sono stati vittime della crisi. Deve essere pronta a misurarsi con l’urgenza dell’innovazione e al contempo con la necessità di salvaguardare la tradizione, aperta all’imperativo della mobilitazione sociale e della partecipazione ma preparata nel dotarsi di un’efficiente e attrezzata struttura organizzativa.
E, soprattutto, non può rimuovere ma deve valorizzare quello che è il vero tema strategico su cui dare battaglia, ossia deve una volta per tutte cogliere il fatto che l’edificio monetarista europeo, di cui l’adozione dell’euro è il dispositivo disciplinare, rappresenta la leva con cui imporre l’austerità e fare pagare alle classi subalterne la crisi. L’architettura tecnocratica europea si serve della moneta unica per saldare in un’unica imbracatura l’offensiva neoliberista dell’ultimo trentennio alla necessità di garantire, al tempo della crisi, adeguati rendimenti agli investimenti delle oligarchie finanziarie del vecchio continente. Ecco perché occorre difendere Syriza, ecco perché occorre difendere piazza Syntagma. Una volta per tutte, è tempo di reagire. E allora, chi non ha bisogno di Atene?
Commento lasciato da Ottavio Piombo il 21 febbraio 2015
Trovo la tua analisi chiara e condivisibile.Ma a quando la nascita della Syriza italiana?Mi auguro più presto possibile.
Trovo la tua analisi chiara e condivisibile.Ma a quando la nascita della Syriza italiana?Mi auguro più presto possibile.
Commento lasciato da Andrea Cozzo il 21 febbraio 2015
Condivido pienamente la bella analisi e la sottolineatura, oltre tutto, del valore di possibile inversione (o almeno deviazione) di marcia che l'esperienza-Syriza può rappresentare per tutta l'Europa. Abbiamo tutti bisogno della Grecia!
Condivido pienamente la bella analisi e la sottolineatura, oltre tutto, del valore di possibile inversione (o almeno deviazione) di marcia che l'esperienza-Syriza può rappresentare per tutta l'Europa. Abbiamo tutti bisogno della Grecia!
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