
Domenico Trischitta (che è nato a Catania nel 1960) continua, con quest’ultima silloge di racconti intitolata Le lunghe notti (Avagliano, pagine 150, euro 14), la sua interessante ricerca di frantumazione della struttura del romanzo, inteso nella sua classica unità e coesione formale. Si tratta infatti di una intensa galleria di brevi ritratti e di storie minime che hanno per denominatore comune il tormento e l’estasi del sesso. O almeno, intorno a tale rovello dei sensi e della coscienza si dipanano e intrecciano, ora in forma soggettiva e ora in terza persona, alludendo costantemente alla morte, secondo un antico e indissolubile binomio.
I vari personaggi, viandanti per vocazione o professione, portavoce di un’umanità ordinaria e insieme sbandata, sono infatti figure penitenziali, in una duplice accezione. Sono cioè anime e corpi che recano in sé una pena inestinguibile (se non nel trapasso) che li conduce sulle rotte del destino e del caso in un lungo viaggio espiatorio al termine della notte. Ma sono anche reclusi esistenziali che scontano una detenzione inesorabile in ruoli e modelli di vita da cui cercano di evadere con una tensione metamorfica. Si tratta spesso di figure itineranti che cercano rifugio e refrigerio morale nell’oscurità, ma talora pure che soffrono di una inconsolabile nictofobia che li costringe a fare i conti con i propri incubi.
Il loro travaglio li spinge a esplorare la notte alla ricerca di una luce che infine li ferisce e uccide, come incruenti vampiri ritardatari sorpresi da un’alba tragica.
Così è soprattutto per una “spavalda gioventù siciliana” per lo più votata a una plateale autodistruzione che da una generazione all’altra eredita le medesime illusioni e velleità.
Le varie storie (in cui talora affiora un risvolto autobiografico) s’intersecano e si attraversano reciprocamente come in un incrocio di destini, riallacciando il loro percorso, con improvvisi scarti temporali che scompaginano la diacronia degli eventi. La loro serie compone infine un lungo viaggio italiano, dal nord al sud, come un nostrano racconto on the road, in cui lo sconfinamento e il giro ozioso, l’incidente e la deviazione, l’iniziazione e l’eterno ritorno, la prigionia e la fuga assumono le forme fatali di un tentativo inane di sottrarsi alla madre e di verificare, in ultimo, l’indissolubile legame con essa.
Trischitta compone questo mosaico di vite sperperate e incatenate ricorrendo a una lingua del tutto priva di indulgenze, sottratta a ogni retorica e all’ordine lapidario della consecutio temporum, sullo sfondo, come già in altri suoi lavori, di una colonna sonora cangiante che dal rock e dal blues arriva a lambire I Puritani di Bellini.
Per frammenti prosaici e anodini si consuma così l’attesa insonne e febbrile di un domani senza redenzione. Sotto il segno di Louis-Ferdinand Céline, che appare in un cammeo senile, in limine mortis, ma anche di Giuseppe Pontiggia, sofferto cantore della miseria e nobiltà umane, che fu tra i primi a leggere e incoraggiare il manoscritto, a cui il libro è implicitamente dedicato con un commosso omaggio nei ringraziamenti finali.
I vari personaggi, viandanti per vocazione o professione, portavoce di un’umanità ordinaria e insieme sbandata, sono infatti figure penitenziali, in una duplice accezione. Sono cioè anime e corpi che recano in sé una pena inestinguibile (se non nel trapasso) che li conduce sulle rotte del destino e del caso in un lungo viaggio espiatorio al termine della notte. Ma sono anche reclusi esistenziali che scontano una detenzione inesorabile in ruoli e modelli di vita da cui cercano di evadere con una tensione metamorfica. Si tratta spesso di figure itineranti che cercano rifugio e refrigerio morale nell’oscurità, ma talora pure che soffrono di una inconsolabile nictofobia che li costringe a fare i conti con i propri incubi.
Il loro travaglio li spinge a esplorare la notte alla ricerca di una luce che infine li ferisce e uccide, come incruenti vampiri ritardatari sorpresi da un’alba tragica.
Così è soprattutto per una “spavalda gioventù siciliana” per lo più votata a una plateale autodistruzione che da una generazione all’altra eredita le medesime illusioni e velleità.
Le varie storie (in cui talora affiora un risvolto autobiografico) s’intersecano e si attraversano reciprocamente come in un incrocio di destini, riallacciando il loro percorso, con improvvisi scarti temporali che scompaginano la diacronia degli eventi. La loro serie compone infine un lungo viaggio italiano, dal nord al sud, come un nostrano racconto on the road, in cui lo sconfinamento e il giro ozioso, l’incidente e la deviazione, l’iniziazione e l’eterno ritorno, la prigionia e la fuga assumono le forme fatali di un tentativo inane di sottrarsi alla madre e di verificare, in ultimo, l’indissolubile legame con essa.
Trischitta compone questo mosaico di vite sperperate e incatenate ricorrendo a una lingua del tutto priva di indulgenze, sottratta a ogni retorica e all’ordine lapidario della consecutio temporum, sullo sfondo, come già in altri suoi lavori, di una colonna sonora cangiante che dal rock e dal blues arriva a lambire I Puritani di Bellini.
Per frammenti prosaici e anodini si consuma così l’attesa insonne e febbrile di un domani senza redenzione. Sotto il segno di Louis-Ferdinand Céline, che appare in un cammeo senile, in limine mortis, ma anche di Giuseppe Pontiggia, sofferto cantore della miseria e nobiltà umane, che fu tra i primi a leggere e incoraggiare il manoscritto, a cui il libro è implicitamente dedicato con un commosso omaggio nei ringraziamenti finali.
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