
BYE-BYE LENIN
Unione Sovietica, PCUS, Gramsci: riflessioni storiografiche alla vigilia del centenario dell'Ottobre Rosso
di Tommaso Baris 10 giugno 2016
Unione Sovietica, PCUS, Gramsci: riflessioni storiografiche alla vigilia del centenario dell'Ottobre Rosso
di Tommaso Baris 10 giugno 2016
Pubblichiamo la seconda parte della riflessione sulla storia dell’Unione Sovietica scritta da Tommaso Baris docente di storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Palermo. La prima parte dell’articolo si trova qui.
L’insistenza sulla ridefinizione dell’alleanza operai-contadini da parte di Lenin non nasceva da analisi meramente astratte: i bolscevichi, come ricorda lo stesso Graziosi con una attenta analisi della realtà sociale dei primi anni Venti, avevano realmente messo in movimento forze sociali attivatesi febbrilmente (e terribilmente per molti versi) uscendo da una passività secolare, come ci ricordano le interessanti pagine sullo sviluppo di massa del Pcus. Attraverso il partito e grazie al suo ruolo mobilitante, milioni di persone, operai ma anche contadini, erano state immesse sulla scena pubblica creando indubbiamente una nuova forma di politica di massa (e in questo senso etimologicamente più democratica, specie se confrontata con la dimensione elitaria del liberalismo ottocentesco), che però si realizzava mediante il loro inquadramento in una struttura fortemente verticistica, tendente a ridurre la dimensione della politica in quella militare e burocratica-organizzativa del comando con le ovvie conseguenze del caso, peraltro su individui che, proprio per le generali condizioni di arretratezza della Russia zarista, avevano scarsissimi livelli di alfabetizzazione e più in generale culturali.
Sembrava dunque delinearsi in questa fase una sorta di reale ascesa di singoli individui di estrazione popolare ai vertici del partito, in un quadro in cui la radicalizzazione in senso militare della loro azione politica si traduceva però in una pesantissima pressione sui gruppi sociali di provenienza, gettando le basi di una profonda spaccatura tra l’ampia base di funzionari del partito comunista e le masse popolari del paese, da cui pure spesso quei funzionari e burocrati provenivano. Accanto alla Nep, va peraltro ricordato il tentativo di Lenin di ripensare le modalità con cui si era formato il movimento comunista internazionale. Nati da scissioni a sinistra in nome della rivoluzione sovietica, i partiti comunisti riuniti nella Terza Internazionale si erano sostanzialmente caratterizzati sia per il loro dogmatismo ideologico che per la chiusura settaria nei confronti dei movimenti delle strutture di massa tradizionali del movimento operaio, da cui si erano di fatto separati. Ne era derivata una sostanziale incapacità di incidere sui processi reali, con piccoli partiti di ristrette minoranze pedissequamente schiacciati sulla riproposizione dello schema rivoluzionario sovietico ma in realtà privi di un reale collegamento con le masse operaie e contadine, tanto più in difficoltà quindi quanto estremamente più complicata e complessa si presentava la situazione del contesto occidentale in prospettiva dell’auspicato, e ricercato a parole, sbocco rivoluzionario.
Anche in campo internazionale Lenin, dunque, imponendosi nuovamente contro il resto del gruppo dirigente comunista, aveva indicato nella tattica del fronte unico, da realizzare con le organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio, lo strumento indispensabile per acquisire un reale rapporto politico con le masse popolari, senza il quale era ovviamente impossibile svolgere qualsiasi funzione direttiva e poi rivoluzionaria[1]. Si trattava quindi, anche in questo caso, sia pure su un piano profondamente diverso, di recuperare spazio e possibilità di azione politica al movimento comunista occidentale, altrimenti chiuso nella mera azione di propaganda e di riaffermazione di purezza ideologica del tutto prive di sbocchi concreti. Significativamente in questo passaggio, nelle sue riflessioni in carcere, Gramsci avrebbe individuato, in questa indicazione di Lenin, la sua intuizione del tema, sia pure solo abbozzato e non pienamente sviluppato anche per via dell’avanzare della malattia, della transizione dalla guerra manovrata, caratterizzata dall’attacco frontale al nemico di classe, alla guerra di posizione che si conduceva invece per manovre interne. Si apriva così la riflessione gramsciana sul senso da dare alla questione dell’egemonia: senza questa consapevolezza di cambio di paradigma, e quindi della necessaria acquisizione teorica che ne conseguiva, sarebbe stato impossibile per il movimento comunista prendere il potere in un contesto assai diverso da quello sovietico come era l’Occidente capitalistico industriale ed avanzato. Potremmo dire, quindi, che tanto la Nep quanto la linea del fronte unico in politica internazionale appaiono l’estremo tentativo di Lenin, in realtà alquanto isolato, di uscire dalla duplice impasse in cui il processo rivoluzionario partito dall’Ottobre aveva finito per incagliarsi: la frattura con il mondo contadino (e con le nazionalità) dell’ex impero russo, la posizione nettamente minoritaria nel movimento operaio occidentale dopo l’iniziale carico di speranze e simpatie suscitate dalla notizia della rivoluzione bolscevica. I due fenomeni richiamavano entrambi la necessità di uscire, in maniera diversa, da un modello basato sulla forza e sulla coercizione, e di ripensare il partito come elemento agente di tale pressione sulla società. Si poneva cioè ora il problema di una conquista politica del consenso delle masse attraverso non più l’uso della forza ma, al contrario, per mezzo di una capacità di rappresentanza e mediazione sociale da parte del partito bolscevico al potere o in lotta per esso, il quale era quindi chiamato, in questa fase di transizione, a farsi carico dei differenti interessi sociali che caratterizzavano sia la società capitalistica che quella sovietica: soppresso il pluralismo politico non per questo spariva il pluralismo sociale la cui articolazione, nell’ottica ormai sviluppata da Lenin scegliendo la Nep, andava accettata e riconosciuta, se non altro per poterla poi riorientare e guidare, tenendo insieme, quindi, le concessioni economiche al mondo contadino con la guida politica riservata al proletariato sovietico, identificato con il partito comunista.
La scelta della Nep e il ribadimento dell’alleanza contadini-operai, e il tema conseguente dell’egemonia nella relazione tra questi due soggetti sociali, si collocavano dunque per Lenin dentro la necessità di ridiscutere il rapporto coercitivo realizzato tra partito e società sovietica nel corso della guerra civile, abbandonando al contempo l’idea di una mera applicazione dello schema russo al movimento comunista internazionale. L’aspetto nuovo, segnalato in particolare dal volume di Graziosi, è dato dalla sottolineatura della sostanziale solitudine della posizione di Lenin in questo cruciale passaggio all’interno della sua stessa cerchia di collaboratori, i quali, forse con la sola eccezione di Bucharin, condividevano di fatto l’idea che proprio la vittoriosa conclusione della guerra civile con i metodi sopra ricordati e la relazione “militare” costruita con la società permettessero invece l’accelerazione in senso industriale ed industrialista. Grazie alle nuove ricerche la Nep appare una parentesi ancor più limitata e parziale di quanto si ritenesse in precedenza, sostanzialmente non condivisa e tirata nella direzione opposta non solo dai suoi critici aperti come Trotskij ma anche in realtà da Stalin e dai suoi sostenitori, pronti a servirsi di Bucharin nello scontro per il controllo del partito contro gli avversari, ma del tutto convinti che il “socialismo” possibile coincidesse non solo con il necessario balzo industriale ma con la complessiva fortissima pressione coercitiva da imporre forzatamente ad una società riluttante ed intimamente contraria.
L’assunzione profonda di questo paradigma “burocratico-amministrativo” non sfuggiva a chi, all’interno del campo comunista, sviluppando le riflessioni di Lenin (ma anche superandole), tentava di ripensare il tema dell’egemonia, con tutte le sue implicazioni, giudicandolo decisivo[2]: significativamente fu proprio Gramsci a stigmatizzare la risoluzione con provvedimenti amministrativi e disciplinari dei dissidi politici all’interno del partito, come fece nella nota lettera inviata al comitato centrale del Pcus a nome del Pcd’i, di cui era diventato qualche anno prima segretario. Consapevole che la spinta propulsiva data dalla presa del potere in sé da parte dei bolscevichi aveva esaurito il suo effetto sulle masse popolari mondiali, il rivoluzionario sardo, in una seconda lettera privata a Togliatti, che aveva ottenuto di non inoltrare ufficialmente il primo testo ai sovietici, poneva quindi la questione delle caratteristiche del processo di costruzione del socialismo in Unione Sovietica, la cui “qualità” sarebbe divenuta sempre più un fattore determinante per il successo del movimento comunista internazionale. Proprio per questo, a suo avviso, la dimensione nazionale sovietica e quella internazionale del movimento politico a livello mondiale andavano pensate insieme, e non risolte in termini meramente “russi”; al contempo il partito comunista sovietico non poteva pensare di continuare a risolvere in misura coercitiva e militare gli enormi problemi politici, interni ed esteri, che l’esistenza di una Urss, isolata dopo la sconfitta del ciclo rivoluzionario nell’Europa, poneva[3]. Mentre il gruppo dirigente stalinista, uscito vittorioso dallo scontro con l’opposizione di sinistra, identificava sempre più (posizione condivisa da Togliatti) la realizzazione del socialismo con la costruzione di una possente sistema statuale di tipo moderno, (subordinando a questo obiettivo qualsiasi esigenza di autogoverno del mondo del lavoro e della produzione), Gramsci segnalava l’acuirsi per questa via della contraddizione tra le esigenze internazionali del movimento comunista e quelle dello Stato sovietico[4]. La politica di quest’ultimo infatti, sia verso l’interno che verso l’esterno, mostrava di non comprendere la nuova fase della guerra di posizione e quindi di non ragionare sulle conseguenze globali che tale passaggio comportava, mettendo di fatto l’Urss e il movimento comunista internazionale in una condizione di subalternità che rischiava di condannare quell’esperienza ad una storica sconfitta portando, alla lunga, alla prevalenza di un modello militare-bonapartista, come sarebbe poi in effetti avvenuto.
Come si vede il nodo individuato da Gramsci era quello cruciale e riguardava il rapporto tra il Pcus e la società sovietica nel suo complesso, nel quadro di una complessiva proposta di riarticolazione della teoria e quindi della strategia del movimento comunista a livello mondiale.
[1] Cfr. C. Natoli, La Terza Internazionale e il fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1982.
[2] A. Di Biagio, Egemonia leninista, egemonia gramsciana, in Gramsci nel suo tempo, a cura di F. Giasi, I volume, Roma, Carocci, 2008, pp. 379-402.
[3] Su questo punto cruciale: Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, a cura di C. Daniele, con un saggio introduttivo di G. Vacca, Einaudi, Torino, 1999.
[4] Per questo aspetto: G. Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), Torino, Einaudi, 2012, pp. 119-169. Per un quadro delle interpretazioni del concetto di egemonia in Gramsci anche: G. Liguori, L’egemonia e i suoi interpreti, in Id., Sentieri gramsciani, Carocci, Roma, 2006, pp. 140-152.
L’insistenza sulla ridefinizione dell’alleanza operai-contadini da parte di Lenin non nasceva da analisi meramente astratte: i bolscevichi, come ricorda lo stesso Graziosi con una attenta analisi della realtà sociale dei primi anni Venti, avevano realmente messo in movimento forze sociali attivatesi febbrilmente (e terribilmente per molti versi) uscendo da una passività secolare, come ci ricordano le interessanti pagine sullo sviluppo di massa del Pcus. Attraverso il partito e grazie al suo ruolo mobilitante, milioni di persone, operai ma anche contadini, erano state immesse sulla scena pubblica creando indubbiamente una nuova forma di politica di massa (e in questo senso etimologicamente più democratica, specie se confrontata con la dimensione elitaria del liberalismo ottocentesco), che però si realizzava mediante il loro inquadramento in una struttura fortemente verticistica, tendente a ridurre la dimensione della politica in quella militare e burocratica-organizzativa del comando con le ovvie conseguenze del caso, peraltro su individui che, proprio per le generali condizioni di arretratezza della Russia zarista, avevano scarsissimi livelli di alfabetizzazione e più in generale culturali.
Sembrava dunque delinearsi in questa fase una sorta di reale ascesa di singoli individui di estrazione popolare ai vertici del partito, in un quadro in cui la radicalizzazione in senso militare della loro azione politica si traduceva però in una pesantissima pressione sui gruppi sociali di provenienza, gettando le basi di una profonda spaccatura tra l’ampia base di funzionari del partito comunista e le masse popolari del paese, da cui pure spesso quei funzionari e burocrati provenivano. Accanto alla Nep, va peraltro ricordato il tentativo di Lenin di ripensare le modalità con cui si era formato il movimento comunista internazionale. Nati da scissioni a sinistra in nome della rivoluzione sovietica, i partiti comunisti riuniti nella Terza Internazionale si erano sostanzialmente caratterizzati sia per il loro dogmatismo ideologico che per la chiusura settaria nei confronti dei movimenti delle strutture di massa tradizionali del movimento operaio, da cui si erano di fatto separati. Ne era derivata una sostanziale incapacità di incidere sui processi reali, con piccoli partiti di ristrette minoranze pedissequamente schiacciati sulla riproposizione dello schema rivoluzionario sovietico ma in realtà privi di un reale collegamento con le masse operaie e contadine, tanto più in difficoltà quindi quanto estremamente più complicata e complessa si presentava la situazione del contesto occidentale in prospettiva dell’auspicato, e ricercato a parole, sbocco rivoluzionario.
Anche in campo internazionale Lenin, dunque, imponendosi nuovamente contro il resto del gruppo dirigente comunista, aveva indicato nella tattica del fronte unico, da realizzare con le organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio, lo strumento indispensabile per acquisire un reale rapporto politico con le masse popolari, senza il quale era ovviamente impossibile svolgere qualsiasi funzione direttiva e poi rivoluzionaria[1]. Si trattava quindi, anche in questo caso, sia pure su un piano profondamente diverso, di recuperare spazio e possibilità di azione politica al movimento comunista occidentale, altrimenti chiuso nella mera azione di propaganda e di riaffermazione di purezza ideologica del tutto prive di sbocchi concreti. Significativamente in questo passaggio, nelle sue riflessioni in carcere, Gramsci avrebbe individuato, in questa indicazione di Lenin, la sua intuizione del tema, sia pure solo abbozzato e non pienamente sviluppato anche per via dell’avanzare della malattia, della transizione dalla guerra manovrata, caratterizzata dall’attacco frontale al nemico di classe, alla guerra di posizione che si conduceva invece per manovre interne. Si apriva così la riflessione gramsciana sul senso da dare alla questione dell’egemonia: senza questa consapevolezza di cambio di paradigma, e quindi della necessaria acquisizione teorica che ne conseguiva, sarebbe stato impossibile per il movimento comunista prendere il potere in un contesto assai diverso da quello sovietico come era l’Occidente capitalistico industriale ed avanzato. Potremmo dire, quindi, che tanto la Nep quanto la linea del fronte unico in politica internazionale appaiono l’estremo tentativo di Lenin, in realtà alquanto isolato, di uscire dalla duplice impasse in cui il processo rivoluzionario partito dall’Ottobre aveva finito per incagliarsi: la frattura con il mondo contadino (e con le nazionalità) dell’ex impero russo, la posizione nettamente minoritaria nel movimento operaio occidentale dopo l’iniziale carico di speranze e simpatie suscitate dalla notizia della rivoluzione bolscevica. I due fenomeni richiamavano entrambi la necessità di uscire, in maniera diversa, da un modello basato sulla forza e sulla coercizione, e di ripensare il partito come elemento agente di tale pressione sulla società. Si poneva cioè ora il problema di una conquista politica del consenso delle masse attraverso non più l’uso della forza ma, al contrario, per mezzo di una capacità di rappresentanza e mediazione sociale da parte del partito bolscevico al potere o in lotta per esso, il quale era quindi chiamato, in questa fase di transizione, a farsi carico dei differenti interessi sociali che caratterizzavano sia la società capitalistica che quella sovietica: soppresso il pluralismo politico non per questo spariva il pluralismo sociale la cui articolazione, nell’ottica ormai sviluppata da Lenin scegliendo la Nep, andava accettata e riconosciuta, se non altro per poterla poi riorientare e guidare, tenendo insieme, quindi, le concessioni economiche al mondo contadino con la guida politica riservata al proletariato sovietico, identificato con il partito comunista.
La scelta della Nep e il ribadimento dell’alleanza contadini-operai, e il tema conseguente dell’egemonia nella relazione tra questi due soggetti sociali, si collocavano dunque per Lenin dentro la necessità di ridiscutere il rapporto coercitivo realizzato tra partito e società sovietica nel corso della guerra civile, abbandonando al contempo l’idea di una mera applicazione dello schema russo al movimento comunista internazionale. L’aspetto nuovo, segnalato in particolare dal volume di Graziosi, è dato dalla sottolineatura della sostanziale solitudine della posizione di Lenin in questo cruciale passaggio all’interno della sua stessa cerchia di collaboratori, i quali, forse con la sola eccezione di Bucharin, condividevano di fatto l’idea che proprio la vittoriosa conclusione della guerra civile con i metodi sopra ricordati e la relazione “militare” costruita con la società permettessero invece l’accelerazione in senso industriale ed industrialista. Grazie alle nuove ricerche la Nep appare una parentesi ancor più limitata e parziale di quanto si ritenesse in precedenza, sostanzialmente non condivisa e tirata nella direzione opposta non solo dai suoi critici aperti come Trotskij ma anche in realtà da Stalin e dai suoi sostenitori, pronti a servirsi di Bucharin nello scontro per il controllo del partito contro gli avversari, ma del tutto convinti che il “socialismo” possibile coincidesse non solo con il necessario balzo industriale ma con la complessiva fortissima pressione coercitiva da imporre forzatamente ad una società riluttante ed intimamente contraria.
L’assunzione profonda di questo paradigma “burocratico-amministrativo” non sfuggiva a chi, all’interno del campo comunista, sviluppando le riflessioni di Lenin (ma anche superandole), tentava di ripensare il tema dell’egemonia, con tutte le sue implicazioni, giudicandolo decisivo[2]: significativamente fu proprio Gramsci a stigmatizzare la risoluzione con provvedimenti amministrativi e disciplinari dei dissidi politici all’interno del partito, come fece nella nota lettera inviata al comitato centrale del Pcus a nome del Pcd’i, di cui era diventato qualche anno prima segretario. Consapevole che la spinta propulsiva data dalla presa del potere in sé da parte dei bolscevichi aveva esaurito il suo effetto sulle masse popolari mondiali, il rivoluzionario sardo, in una seconda lettera privata a Togliatti, che aveva ottenuto di non inoltrare ufficialmente il primo testo ai sovietici, poneva quindi la questione delle caratteristiche del processo di costruzione del socialismo in Unione Sovietica, la cui “qualità” sarebbe divenuta sempre più un fattore determinante per il successo del movimento comunista internazionale. Proprio per questo, a suo avviso, la dimensione nazionale sovietica e quella internazionale del movimento politico a livello mondiale andavano pensate insieme, e non risolte in termini meramente “russi”; al contempo il partito comunista sovietico non poteva pensare di continuare a risolvere in misura coercitiva e militare gli enormi problemi politici, interni ed esteri, che l’esistenza di una Urss, isolata dopo la sconfitta del ciclo rivoluzionario nell’Europa, poneva[3]. Mentre il gruppo dirigente stalinista, uscito vittorioso dallo scontro con l’opposizione di sinistra, identificava sempre più (posizione condivisa da Togliatti) la realizzazione del socialismo con la costruzione di una possente sistema statuale di tipo moderno, (subordinando a questo obiettivo qualsiasi esigenza di autogoverno del mondo del lavoro e della produzione), Gramsci segnalava l’acuirsi per questa via della contraddizione tra le esigenze internazionali del movimento comunista e quelle dello Stato sovietico[4]. La politica di quest’ultimo infatti, sia verso l’interno che verso l’esterno, mostrava di non comprendere la nuova fase della guerra di posizione e quindi di non ragionare sulle conseguenze globali che tale passaggio comportava, mettendo di fatto l’Urss e il movimento comunista internazionale in una condizione di subalternità che rischiava di condannare quell’esperienza ad una storica sconfitta portando, alla lunga, alla prevalenza di un modello militare-bonapartista, come sarebbe poi in effetti avvenuto.
Come si vede il nodo individuato da Gramsci era quello cruciale e riguardava il rapporto tra il Pcus e la società sovietica nel suo complesso, nel quadro di una complessiva proposta di riarticolazione della teoria e quindi della strategia del movimento comunista a livello mondiale.
[1] Cfr. C. Natoli, La Terza Internazionale e il fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1982.
[2] A. Di Biagio, Egemonia leninista, egemonia gramsciana, in Gramsci nel suo tempo, a cura di F. Giasi, I volume, Roma, Carocci, 2008, pp. 379-402.
[3] Su questo punto cruciale: Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, a cura di C. Daniele, con un saggio introduttivo di G. Vacca, Einaudi, Torino, 1999.
[4] Per questo aspetto: G. Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci (1926-1937), Torino, Einaudi, 2012, pp. 119-169. Per un quadro delle interpretazioni del concetto di egemonia in Gramsci anche: G. Liguori, L’egemonia e i suoi interpreti, in Id., Sentieri gramsciani, Carocci, Roma, 2006, pp. 140-152.
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