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      • CAMBIARE (IL) LAVORO
      • COME TUTTI
      • UNA FATICA SEMPRE PIU' INUTILE
      • CONTINUAVANO A CHIAMARLA GLOBALIZZAZIONE
      • LICENZIAMENTI ALMAVIVA
      • ULTIMO TANGO A BERLINO?
      • BAIL-IN COI LUPI
      • COM'È PROFONDO IL SUD
      • I TASSI DELLA FED NON VANNO IN LETARGO
      • FOLLI E TESTARDI
      • TTIP: L'IMPERO COLPISCE ANCORA
      • CONFINDUSTRIA: GLI OPERAI GUADAGNANO TROPPO
      • GLI ANNI TRENTA PROSSIMI VENTURI
      • UN LAVORO DI CHE GENERE?
      • IL MALE OSCURO (MA NON TROPPO) DEL CAPITALE
      • C'E' UNA LOGICA IN QUESTA FOLLIA
      • BENTORNATI AL SUD
      • MOSTRI DI GUERRA DIRIGONO LE SCUOLE
      • QUELL’OSCURO OGGETTO DELLO SFRUTTAMENTO
      • FINCANTIERI: RIEN NE VA PLUS
      • L'INUTILE FATICA DI ESSERE SE STESSI
      • LAVORO, REDDITO, GENERE: CHE DIBATTITO SIA...
      • RENZI E IL DEGRADO DELLA SCUOLA PUBBLICA
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      • IL FASCINO DISCRETO DEL MODERATISMO
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      • ADOLESCENZE FRAGILI
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      • LA GIUSTA DISTANZA
      • ROLAND IN CAMPO
      • COME SOLO UN AMANTE FA
      • CERTE NOTTI
      • VITA POLITICA DI GIULIANA FERRI
      • LIBRI DELL’ANNO 2016
      • TROPPO BARDO PER ESSERE VERO
      • LA BARBARIE PROSSIMA VENTURA
      • DANIELE CONTRO I BUROSAURI?
      • SWEET BLACK ANGEL
      • DODICI PICCOLI INDIANI (D'AMERICA)
      • VELTRONI VA A HOLLYWOOD?
      • RESISTENZA: FINE DI UN'ANOMALIA?
      • POVERI E PICCOLI
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      • GLI OCCHI, LE MANI, LA BOCCA
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      • FESSO, FETENTE, FORCAIOLO E FASCISTA?
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BOOM BUST BOOM
Or, Monty Python vs the Academic Zombies

By Riccardo Bellofiore




The documentary by Terry Jones (member of Monty Python, director of many of the group's films and responsible for their “visual” style) and Theo Kocken (economist, professor of Risk Management for Institutional Investors at the VU University of Amsterdam), Boom Bust Boom, was shown in Bergamo on May 18th, the national premiere, in a screening reserved for students and staff at the University of Bergamo. These are some first impressions on seeing the film, requested from me by Marco Palazzotto (and I am indebted to Marco and Angelo of PalermoGrad for my initial contact with the producers of the film). They are a summary of comments I made in the debate with L. Randall Wray after the screening, which can be watched here.

The film has much to praise it and without doubt will become a classic of the 2007-8 crisis (which many, perhaps almost everyone, continues to call the 2008 crisis), on a par with Inside Job. It has good rhythm, is visually effective and the ironic tone works well from start to finish: it is also a perfect didactic instrument. It will be enough to relate two lines from the film. One is by Irving Fisher, the theorist perhaps most well known for his quantity theory of money: in September 1929 he claimed that the price of securities had reached a high plateau, where it would comfortably sit in the coming years; the devastating rebuttal came within a month. Fisher nonetheless regained respect in 1933 by publishing a now classic article on debt deflation as a fundamental characteristic of financial crises. The other line is from Paul Mason, the radical British journalist, who believes that little remained of dominant economic theory after the crisis: which unfortunately is only true conceptually, and not practically. It is quite likely that this permanent ability of dominant theory to survive as a zombie goes along with the categorical and political fragility of the alternative economic theories. 

But the quality and quantity of interviews is noteworthy. Paul Krugman, James Galbraith, Steve Keen, Andy Haldane, John Cassidy, Steve Kinsella are just some of the names: some will be surprised to also find important voices such as that of the actor John Cusack, engaged on many fronts. Above all, the film features the crucial presence of two “puppets” representing two economists who were brought back to life after the crisis, John Kenneth Galbraith and Hyman Philip Minsky: do not miss the dialogue with his son Alan. Minsky's puppet was transported from England as a paying traveller; and finding Minsky's last office at the Levy Economics Institute too modest, Jones decided that the conversation with Alan ought be filmed in a library in Manhattan.

There are however some weaknesses. The interpretation of Minsky's theories is the most widely acknowledged, but it is erroneous (notwithstanding Charles Kindlerberger's authoritative legacy): that of the alternation between depression and prosperity ending in “bubbles”, an alternation based on a psychological shifting between euphoria and panic (as, indeed, the first edition of his history of financial crises was titled in the 1970s). Wray is right: we have not witnessed so much a Minsky “moment”, but rather a Minsky half century. Consequently, we need to search for a more structural interpretation of the collapse. And actually another more interesting Minsky exists, despite the relevance maintained for his hypothesis on financial instability (which nonetheless, it must be said, in the canonical account, provides no explanation of the dotcom crisis, nor the subprime crisis and everything that followed). The other Minsky is the one who revived a Marxian vision of long cycles learned from his teacher (and first supervisor) Schumpeter, as well as from an original reading of Keynes, and inserted this into an interpretation of financially developed capitalist economies based on the intersections among agents' balance sheets. This should come as no surprise: not only was Minsky a son of two “socialists”, and himself a member of the American Socialist Party; he also used to define Keynes and Schumpeter as “conservative Marxists”. From this derived his reading of the new capitalism as a “money manager capitalism” (and which I also qualify as the capitalism of the real subsumption of labour under finance and debt). Hence his policy proposal to combine the New Deal and Keynes in a renewed“socialisation” of investment and of the entire economy.

Minsky saw very well that the crisis of so-called Fordism had began not in the middle of the 1970s, but already in the mid-1960s. And the capitalism which followed it was first characterised, again as Minsky saw quite clearly, by a (very brief) Monetarist reaction, which died in 1982. What followed this was not a capitalism which returned to laisser faire, the free market, but rather a reconstruction of subjectivities from above, a configuration which we incorrectly call Neoliberalism. Capitalism emerged from it ready to counter the depressive tendency within it, and to have a relatively vibrant dynamic, that which I have called elsewhere “financialised and privatised Keynesianism”. The reasons for capitalist crises must always be identified in the contradictions of the ascending phase, and here therefore the crux of the crisis lies in the novel relation between finance and production, a relation which for the most part eludes so-called heterodox economic theory. Instead of beginning the theoretical reasoning from demand and distribution, as it does, what is needed is to start with finance and production (as Paul Sweezy and Augusto Graziani knew all too well).

Two themes emerge in the final part of the film. The first is an explanation of the crises in terms of the “natural” tendencies of human beings: the alternative is to “broaden” and “complicate” that anthropological vision provided by dominant economic (an anthropological vision which is, as Wray effectively put it at Bergamo, “impossible”). To me this thesis seems not just too limited but basically wrong. It is a kind of inversion of the Marxian thesis. For Marx, capital has a “fetish character”, but this fetish really does have social power in determinate historical conditions. The “fetish character” is not actually an illusion; “fetishism” is quite another thing, i.e. it means attributing that social power to the “things” as natural elements. In the film this crisis is attributed to an unchanging nature of human beings, only that the latter is not quite as “banal” as we have been told. I think that one ought rather to start not from the individual or from human beings as such, but from a “holistic” vision of the capitalist system, characterised fundamentally by class relations of class and money as power.

The other theme to which I alluded is that of rethinking the teaching of economic theory. At the end of the film there is a series of interviews with some students who are part of the Rethinking Economics movement and various other initiatives for pluralism in economics (a small group of which, based in Bergamo, attended the premiere). To me, the demand for “pluralism” seems weak. The point isn't to make alternative voices heard, and then leave the students to choose: that way the mainstream will always win. The point is entirely different, namely that the dominant positions are wrong. The point ought be about reclaiming the plural nature, not the pluralism, of economic theory: that is something else entirely. Keynes wrote against Marshall, Schumpeter against Walras, Marx against Ricardo, each proposing their own more General Theory, each aiming to establish a new orthodoxy. This is the battle to be fought. And in this battle, today, alternative economic thought is very weak, on the theoretical as much as political terrain.



(translated by Richard Brodie)


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